docuserie Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 16 Nov 2023 15:26:01 +0000 it-IT hourly 1 Pepsy Romanoff. Sopravvissuto al Supervissuto https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/#respond Fri, 27 Oct 2023 12:08:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18778 «Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha […]

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«Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha messo in pausa la sua vita per trasferirsi a Bologna accanto a lui, «perché Vasco è il sole», dice. E il sole è assoluto, «ma è un attimo che ti bruci».

Peppe Romano è tante cose insieme (regista, art director, produttore), ma è soprattutto “il regista di Vasco”: un titolo esclusivo che nessuno, prima di lui, aveva conquistato fino in fondo nell’entourage del rocker. Una storia, la loro, che inizia con i primi videoclip fino ai visual e alla direzione artistica dei suoi live show, compresa la macchina dei record che Modena Park fu nel 2017. Va da sé che a questo punto nessuno avrebbe potuto raccontare Il Supervissuto se non lui. Il risultato è un’opera audiovisiva definitiva su Vasco Rossi, un documentario che è pure un’autobiografia, tra found footage, testimonianze e interviste inedite, e ripercorre le tappe di una vita surreale e chiacchieratissima calandosi nella storia del nostro Paese: le prime radio libere, Sanremo, la Rai, i club, il cantautorato degli anni Settanta-Ottanta e il rock italiano. Senza soddisfare il gossip e risolvere rebus, ma senza voler ignorare ad ogni costo i punti critici. «Alla fine, se ci pensi, io non sono solo un sopravvissuto: io sono un super-vissuto» dice Vasco nei primi minuti della serie. Ma come si sopravvive a un Supervissuto?

Partiamo dalla fine. Critiche, domande scomode, applausi: come è andata?

Pensa che sono arrivati a chiedermi se ho tradito mia moglie con Vasco Rossi [ride]. Ho risposto di sì, perché ho passato tantissimo tempo con lui e ci siamo raccontati davvero il sesso, la droga e il rock’n’roll. Ho letto molte recensioni, alcune sostengono che non abbiamo detto niente di inedito. Secondo me non è vero.

Ecco, secondo te cosa è stato detto di inedito?

Innanzi tutto ci sono tre personaggi inediti alla storia di Vasco Rossi per il pubblico: la moglie Laura Schmidt, il figlio Luca Rossi, e il manager nonché migliore amico storico Floriano Fini. Non avevano mai parlato così apertamente della sua vita, tutti insieme. È ovvio che non abbiamo scoperto l’acqua calda, ma si arriva a Vasco che racconta: «Io a un certo punto avevo venti, trenta grammi di cocaina in casa». Non è la prima cosa che riveli in un’intervista, no?

Vero. Per certi versi, però, anche questa è “la versione di Vasco”.

Questa è una sana verità. Ma quale autobiografia si comporterebbe diversamente? Anche nei testamenti finali, certe cose te le porti dall’altra parte del mondo. Io credo sia giusto che delle cose scottanti se le tenga Vasco, come fa ognuno di noi con i suoi segreti. È ovvio che lui mi ha raccontato delle cose scomode, e molte sono state valutate dai legali e tagliate fuori dalla serie. La verità? Forse sono più contento che qualcosa sia rimasta solo tra me e lui.

 

Sapere più di quanto è stato reso pubblico, decidere cosa tenere e cosa tagliare: tu quale criterio hai seguito?

Io non sono mai partito dal presupposto di fare un documentario d’inchiesta sulla vita di questo artista. Volevo mettere sul tavolo tutte le carte di questo grande puzzle.

E com’è possibile che nessuno avesse già realizzato un progetto del genere sulla più grande rockstar italiana?
Mancava un fattore fondamentale: il punto non era trovare la persona giusta, ma che Vasco arrivasse in un momento e in un tempo preciso della sua vita. Per lui gli anni del Covid sono stati un point break su cui costruire questo racconto, come la ginestra di Leopardi. Piantare un fiore sul Vesuvio.

L’idea di fare una docu-serie è nata in tempo di pandemia. Chi dei due l’ha proposta all’altro?

Né me lo ha chiesto né gliel’ho proposto. Durante la pandemia lui mi fa capire: «Mi sto annoiando, che ci vogliamo inventare?». Così lo raggiungo una settimana a Bologna per buttare giù qualche idea, per intrattenerci non potendo fare i concerti. Poi mi compro una delle tante biografie su di lui, e capisco che alcuni fatti non tornano. Così inizio a chiedergli: «Ma questa cosa come è andata? È vero quello che c’è scritto qua?». Ci siamo appassionati parlandone, abbiamo iniziato a registrare tutto col telefono, senza telecamere.

Sì, ma quand’è che vi siete detti davvero «stiamo realizzando questa cosa»?
Non ce lo siamo detti. Nell’aria c’era l’idea di Guglielmo Ariè [insieme ad Igor Artibani, tra gli autori di Supervissuto] di fare un documentario importante sulla sua vita. Sono passate due settimane, io e Vasco ci vedevamo ogni giorno dalle quattro alle sei per chiacchierare e registrare. Sono ripartito dal suo anno zero: «Come sei cresciuto? Cosa facevi? Che tipo eri?». E poi queste due settimane so’ diventate nove mesi. Ogni giorno mi dava appuntamento al giorno dopo, e alla fine ho telefonato a Milano: «Raga’, qui il fatto sta diventando serio, mi affitto una casa a Bologna». Sono andato lì il 3 novembre e sono tornato a casa il 10 giugno dell’anno dopo. Considerando tutta la gestazione del progetto, tra shooting, scrittura e registrazione, c’ho lavorato tre anni.

Settant’anni di vita e quasi cinquanta di carriera. Come hai fatto a calibrare i vari blocchi e scegliere a cosa dare più rilevanza?
Questa roba qua è stata molto difficile. Inizialmente avevo dato più spazio ai capisaldi che io ritenevo più importanti, con un imprinting più autoriale ed eccentrico. Ma è chiaro che chi paga vuole che racconti una storia anche come piace a loro. Ed è giusto, perché ci hanno lasciato una libertà totale su un progetto economicamente enorme. Solo Netflix poteva salire su questo carro, e te lo dico senza sviolinare. Però non puoi parlare per tre minuti di C’è chi dice no o Gli spari sopra e magari sacrificare di Gli angeli e Sally. Abbiamo dovuto fare un balance continuo per scendere a patti con i tempi dell’intrattenimento, forse mi sarei preso delle licenze registiche più ampie. A volte avrei sgonfiato tutto e tenuto solo un’immagine con una voce, oppure un minuto di visual e nient’altro.

Hai imparato qualcosa in più sul documentario da intrattenimento?

Ho imparato a calibrare la tensione e le aspettative. Questo modo di realizzare documentari è la bibbia di Netflix: lasciare uno spettatore attaccato e poi dargli una risposta più tardi. Ho imparato l’importanza del diritto d’autore – dei video, delle foto, dei bootleg – e come tutelarlo. Il documentario in sé ha un grande lavoro di elaborazione e costruzione editoriale per raggiungere un risultato.

Qual è la licenza registica di cui vai più fiero?
Sicuramente l’intro del primo episodio. Quello è un vocale originale che Vasco mandò a Tania Sachs per rispondere a una lettera che Cesare Cremonini gli dedicò su Vanity Fair, quando diventò direttore per un numero. Quando ascoltai quel vocale pensai che questo artista era stato capace in un tempo musicale, cioè in poco più di tre minuti, di fare il trailer della propria vita.

E poi c’è la sigla, che racchiude proprio l’essenza di Vasco.

Volevo che fosse graficamente un grande collage di una grande vita. A Bologna avevo una parete bianca con una cartina geografica, dei post-it e una linea rossa che mi portava da un luogo di Vasco all’altro, con accanto le date. Mi piaceva fare infografica cercando di far capire agli spettatori dove si trovavano storicamente, rispetto allo spazio-tempo di Vasco [nda: tutte le grafiche sono opera di Chunk Studio].

La sigla si chiude sull’immagine-icona: il palco, il pubblico dei record e il coro storico [olè olè olè Vasco Vasco]. Ovvero il luogo di culto, i fedeli e il rito. Perché hai scelto il punto di vista del palco anziché dei fan?

È un po’ un’autocitazione. Vasco è Vasco anche perché ha pensato – e si è ricordato – per tutta la vita di avere un pubblico davanti a sé: la camera ribaltata aveva più potenza. Quella è un’immagine davvero epica, che ho imparato a notare e costruire a Modena Park, l’evento degli eventi.

Ed è anche un punto di vista privilegiato: il tuo. Sul palco sempre accanto a Vasco, mai davanti.

Sai, alla fine la nostra è stata una grande storia d’amore. Parlo al passato perché è come se la serie rappresentasse il giorno del nostro matrimonio: noi mo’ ci siamo sposati, la festa l’abbiamo fatta, le fedi ce le siamo scambiate? Bene, ci possiamo pure lascia’, però ormai ci siamo sposati. È una cosa che non ci può togliere nessuno, comunque andrà. Lui ha dato a me ciò che io ho provato a restituire a lui. Non è una trovata di comunicazione: il vero regista di questo progetto è Vasco Rossi. Quale regista migliore di uno che è autore della sua vita come lui? Già trovare questo titolo, Il Supervissuto, è opera sua. Ha coniato un nuovo vocabolo.

Che rientra nel suo glossario: è l’ennesimo vocabolo di una “disciplina spericolata”. La sigla della serie è Gli sbagli che fai, scritta per l’occasione. Non avevi pensato di usare un brano cult?

Sì. Per me la sigla doveva essere un’altra: Lo show. Un pezzo magico, un rock cinematico, lo ascolti e vedi un film. Vattela a sentire.

Non dimenticarti con chi stai parlando.

[Ride] Hai ragione, scusa. Sai quando all’inizio dice: “Alzami un po’ la musica, alzami un po’ la mia voce”? Mi fa venire la pelle d’oca. Per me è anche il pezzo con cui dovrebbe aprire i concerti. Io e Vasco non siamo amici, siamo due professionisti che lavorano insieme: questo è sempre un valore aggiunto. Per questo Gli sbagli che fai me l’ha fatta ascoltare alla fine della serie, dopo aver visto tutto il girato. Era convinto che potesse essere la grande colonna sonora, e aveva ragione, perché è il raccontone di una vita all’insegna del casino. Mi commuovo se ci penso.

Possiamo dire che sei sopravvissuto al Supervissuto?

Io per ’sta serie sono andato dall’analista, sono stato male, mi sono allontanato da casa in tutti i sensi. È stato difficile. Aspetta, mi si rompe la voce se continuo a parlare. Dice l’analista che quando mi succede devo pensare a una cosa che mi fa ridere.

Cos’è che ti fa rompere la voce?

Il fatto che è stato difficile. A un certo punto arrivi anche a dirti: «Vaffanculo, non è che per raccontare questa storia devo andare al manicomio». Quando stai in quella bolla, dall’esterno non si può capire. Vasco è il sole: ti puoi scottare in un attimo se non ti proteggi.

Cosa temevi di più?
Di non reggere la pressione a livello lavorativo. I compromessi da fare con un colosso dell’intrattenimento come Netflix. Che il risultato non raggiungesse la qualità che volevo. Avevo paura di scoppiare prima della fine, perché in mezzo c’è stato il film del concerto al Circo Massimo, una tournée dopo il lockdown e l’ultimo tour. E oh, mica so’ io il Supervissuto [ride].

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Vendetta: guerra nell’antimafia, i produttori Ruggero Di Maggio e Davide Gambino raccontano la nuova docuserie Netflix https://www.fabriqueducinema.it/serie/interviste-tv-serie-tv/vendetta-guerra-nellantimafia-i-produttori-ruggero-di-maggio-e-davide-gambino-raccontano-la-nuova-docuserie-netflix/ Sat, 02 Oct 2021 07:54:22 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16175 Ruggero Di Maggio e Davide Gambino sono gli autori e produttori di Vendetta: guerra nell’antimafia, la nuova docuserie originale italiana di Netflix che ha debuttato in piattaforma il 24 settembre. Oltre che da Mon Amour Films (fondata da Di Maggio e Gambino) la serie è stata prodotta dalla pluripremiata Nutopia e dalla stessa Netflix: il […]

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Ruggero Di Maggio e Davide Gambino sono gli autori e produttori di Vendetta: guerra nell’antimafia, la nuova docuserie originale italiana di Netflix che ha debuttato in piattaforma il 24 settembre. Oltre che da Mon Amour Films (fondata da Di Maggio e Gambino) la serie è stata prodotta dalla pluripremiata Nutopia e dalla stessa Netflix: il gigante dello streaming sta sempre più puntando sull’Italia per raccontare al pubblico internazionale storie vere basate su argomenti controversi.

Nei sei episodi che compongono Vendetta gli antagonisti sono Pino Maniaci, giornalista e conduttore che da oltre 20 anni con la sua emittente TV siciliana TeleJato dà spazio alla lotta alla criminalità organizzata, e Silvana Saguto, oggi ex magistrato del Tribunale di Palermo che, da Presidente della sezione Misure di Prevenzione, è stata per anni uno dei giudici più importanti nella lotta alla mafia in Sicilia.

Com’è nata l’idea di parlare di Pino Maniaci e Silvana Saguto?

Ruggero: L’idea nasce tanto tempo fa, esattamente alla fine del 2005. All’epoca io ero un giovane filmmaker alla ricerca di storie inedite e trovai nella vicenda di Maniaci e TeleJato elementi stimolanti, perché Maniaci declinava il tema della lotta alla mafia in una maniera molto originale, usando un linguaggio scurrile, fuori dalle righe. Inoltre il territorio in cui TeleJato agisce è un territorio ad altissima densità mafiosa, il cosiddetto triangolo della mafia nella provincia tra Trapani e Palermo ed era significativo raccontare questo gesto di ribellione in quel territorio. In più, a pochi chilometri da Partinico, c’era stata l’esperienza della radio di Peppino Impastato, fondamentale per i siciliani. Anche se non c’è nessun parallelismo tra queste due storie, esiste un punto di contatto forse non casuale rappresentato da una persona: Salvo Vitale. Vitale lavorava con Peppino Impastato a Radio Aut e lavora con Pino Maniaci a TeleJato. Abbiamo seguito per tre anni Maniaci e la sua famiglia nelle sue battaglie, ma ne usciva un personaggio troppo bidimensionale, una sorta di icona, volevamo invece una complessità maggiore. Per questo motivo ci siamo fermati e abbiamo ripreso intorno al 2015, poco prima che Maniaci fosse accusato di estorsione e processato: è stato un twist fondamentale, dopo di che anche Davide è entrato a far parte della produzione.

Davide: In quel momento con Ruggero abbiamo avuto l’impressione che la realtà si stesse quasi “aggiustando” da sola per dar modo di raccontare un personaggio come Maniaci e accendere una luce sul fenomeno della lotta alla mafia in Sicilia, che ci ha nutrito come cittadini e come autori. Siamo cresciuti entrambi nella Palermo post ’92 e il movimento antimafia ha rivestito davvero una notevole importanza. L’obiettivo era raccontare la storia da un punto di vista più laico possibile, oggettivo: quando Maniaci nel 2016 è stato accusato ed è stata messa in dubbio la sua reputazione di eroe abbiamo capito che era una storia locale ma allo stesso tempo interessantissima per una audience globale. Abbiamo cominciato a presentare il progetto in vari mercati di produzione e festival e infine è arrivata la possibilità di co-produrre con la major Nutopia e Netflix.

Il vostro documentario ha fatto il giro del mondo: il Guardian intitola un articolo “Vendetta, lo show sulla mafia di Netflix è I Soprano che incontra Tiger King”. Vi aspettavate un riscontro del genere quando avete iniziato la prima stesura del documentario?

Ruggero: Mi fa molto piacere questa domanda perché la risposta è sì, ci aspettavamo e volevamo un grosso impatto sul pubblico, ci abbiamo lavorato a lungo. Quando nel 2006 facevamo i primi pitch il mercato dell’audiovisivo non era ancora maturo per questo tipo di storie “non univoche”. Era come se il documentario risentisse ancora dell’idea che bisogna scegliere un punto di vista definito e indirizzare la storia verso una direzione precisa: invece per noi è essenziale essere osservatori neutri, non perché ci manchi un punto di vista, ma perché il punto di vista è proprio quello di far parlare la realtà. Ma così come la vicenda è maturata nel tempo è maturato anche il mercato, e finalmente quando le serie documentarie sono diventate un prodotto accessibile e ricercato dal grande pubblico, noi avevamo quel tipo di prodotto.

Vendetta: guerra nell'antimafia
Silvana Saguto.

Quella che viene narrata è sicuramente una vicenda controversa, e alla fine degli episodi il risultato è un prodotto che non vuole essere di parte, non propende per nessuna fazione. Quanto è stato difficile cercare di dare allo spettatore un punto di vista neutro?

Davide: Come diceva prima Ruggero, il nostro intento in quanto documentaristi e registi è quello di non fabbricare tesi, cioè di non assolvere né condannare nessuno ma di metterci in ascolto dei protagonisti, con l’approccio più umano possibile. In primo luogo è necessaria dunque una sorta di dimensione orale: occorre dare modo ai personaggi, soprattutto se controversi, di raccontarsi e raccontare il proprio punto di vista che in questo caso è l’uno l’esatto opposto dell’altro.  Viene poi anche lo studio attento delle fonti giudiziarie e dei processi, per raccontare la macchina della giustizia nel suo svolgersi e il ruolo dei media, che è un po’ una storia nella storia. Infine occorre instaurare una profonda relazione con i personaggi e attendere il tempo necessario per lasciare che la vicenda si dipani e darci la possibilità di porci come primi spettatori i dubbi che la vicenda presenta.

Per questo documentario a chi o cosa vi siete ispirati? C’è stata una serie o un film che vi hanno fatto pensare “okay vogliamo farlo in questo modo”?

Ruggero: In realtà non ci sono dei riferimenti precisi, forse la docuserie The Staircase, su un caso giudiziario seguito nel corso di molti anni, anche con diversi formati di ripresa. Ammiriamo poi l’approccio alle interviste di Wild Wild Country e Tiger King per il lavoro di archivio. Ma in Vendetta ci sono tanti riferimenti che è difficile sceglierne uno, come dicevo non c’è una reference unica.

Un’ultima domanda: avendo seguito la storia di Pino Maniaci da vicino quale giudizio vi siete fatti?

Davide: È un personaggio talmente multi-sfaccettato che è difficile poter dare un giudizio. È chiaro che noi abbiamo le nostre idee da un punto di vista giudiziario e morale, ma ogni spettatore deve avere la sua. Posso dire che è un personaggio che fa riflettere non solo sulla sua vicenda personale ma anche su grandi temi, come il confine tra verità e bugia, impegno e disimpegno e la frammentazione del mondo antimafia oggi.

Ruggero: Per me, che lo conosco da 15 anni, Pino Maniaci è un performer. La sua ambizione, come dice la sorella, era diventare famoso ed essere ascoltato, fin da quando suonava la tastiera in un gruppo progressive. TeleJato in questo senso è stato il suo palcoscenico, come ammette anche lui stesso. Per molti anni ha anche lavorato senza tesserino da giornalista e lo rifiutava. È sempre stato un outsider, uno controcorrente che tende a contraddire tutto quello che gli si dice (anche se va a suo favore). Vive di istinti e delle sensazioni che prova durante la giornata. Incarna un tipo di ideale di persona con pochi filtri che riesce a vivere in un rapporto diretto uno a uno con la realtà.

 

 

 

 

 

 

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