documentario Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:25:27 +0000 it-IT hourly 1 Amor, una storia d’amore e di fantasmi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/amor-una-storia-damore-e-di-fantasmi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/amor-una-storia-damore-e-di-fantasmi/#respond Fri, 19 Jul 2024 12:57:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19222 Nella sua opera d’esordio, Amor, selezionata alla 80 Mostra del Cinema di Venezia, candidata agli IDFA Award 2023 e vincitrice a giugno all’Unarchive Found Footage Fest, Virginia Serpieri Eleuteri fa del cinema un mezzo per riempire un profondo vuoto e riparare un dolore. Lo trasforma in una macchina del tempo per tornare indietro a una […]

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Nella sua opera d’esordio, Amor, selezionata alla 80 Mostra del Cinema di Venezia, candidata agli IDFA Award 2023 e vincitrice a giugno all’Unarchive Found Footage Fest, Virginia Serpieri Eleuteri fa del cinema un mezzo per riempire un profondo vuoto e riparare un dolore.

Lo trasforma in una macchina del tempo per tornare indietro a una sera d’estate di molti anni prima, quando durante la finale dei mondiali di calcio, sua madre Teresa uscì di casa, raggiunse il Tevere e si lasciò andare alla corrente. Da allora lei, Virginia, l’ha cercata per Roma e nelle sue acque, e l’ha ritrovata nelle immagini. Il risultato di questa ricerca è una pellicola struggente, catartica e vibrante che attraversa l’acqua, la storia e il mito e ritrova una Roma perduta e senza tempo.

Non c’è un altro modo per definire il tuo film se non “poema visivo”. Visivo all’ennesima potenza, trattandosi di cinema e fotografie, o meglio di un film fatto di fotografie, ma anche poema storico che attraversa le epoche, dall’antichità ai giorni nostri. Ma come è nato questo progetto? Fin dalle sue origini ha avuto questa struttura?

Sì, anche se per ottenere questo risultato ci sono voluti vent’anni. Quando è morta mia madre nel 1998 ho sentito subito la necessità di raccontare questa storia, però all’epoca non ero pronta, sia per questioni di formazione, sia per questioni emotive e psicologiche. Poi l’elaborazione del lutto si è incrociata con l’esigenza di lavorare con le immagini e quando mi sono sentita più matura è arrivata l’idea giusta. Facevo sempre un sogno ricorrente in cui mi tuffavo nel fiume come lei, e là sotto c’erano delle luci: quelle luci erano sue fotografie, tutte strappate, e io cercavo di ricomporle. Anche nella realtà questo percorso è incominciato proprio così, ricomponendo le sue foto. La storia di mia mamma che si è gettata nel fiume quella notte si è legata con la storia di Roma, perché sotto a quel fiume c’erano tantissime altre storie che io dovevo scoprire. Ho capito che il miglior modo per raccontare la mia vicenda era raccontarla attraverso Roma, e che così avrei potuto raggiungere due obiettivi: avvicinare le persone all’immaginario di questa città, ormai ridotta a una cartolina, e usare una storia pubblica, che appartiene a tutti, per raccontare una storia molto privata.

Roma è la seconda protagonista del film, una città-donna, una città-acqua. È cambiato il tuo rapporto con la città dopo il film?

Ora ho rapporto molto più intimo con Roma: fra me e lei c’è stato un incontro, io ho cercato di restituirle quello che mi aveva dato e ora Roma è una doppia casa, non solo perché ci sono nata e ci abito. Credo che il modo migliore per conoscere una città sia camminare. Io cammino tantissimo, come si faceva in passato: camminare ti consente di osservare più da vicino la città, di avere un rapporto più esclusivo con lei e allo stesso tempo ti fa sentire meno solo. Con questo film invito lo spettatore a non avere una relazione attiva con la propria città, per questo all’inizio del film chiedo di chiudere gli occhi e sentirla, immaginarla…

Il cinema è sempre stato il tuo daimon?

La passione per il cinema è nata molto presto. Ho saputo di voler fare la regista almeno fin da quando avevo quindici anni, ma ero timida e poco sicura di me nelle relazioni con gli altri, perciò pensavo che non ci sarei mai riuscita. Quando però ho scoperto un altro lato del cinema, cioè che può non solo raccontare storie dalla dimensione collettiva, ma anche curare ferite molto personali, allora lì ho trovato tutto il coraggio di farcela. Era talmente forte quel sogno ricorrente e quel bisogno di capire che sono riuscita a trovare il coraggio di dirmi “lo devi fare”.

Quindi il cinema è diventato una spinta a cui non hai potuto resistere, ti sei arresa al tuo destino. E a proposito di destino, anche la collaborazione con la Lituania sembra averci a che fare…

È stata la cosa più bella del film, lavorare con loro per me è stato un regalo. Anche perché i lituani hanno una tradizione straordinaria di cinema sperimentale, basti pensare a Jonas Mekas. Edoardo Fracchia, produttore di Amor con Stefilm, aveva già collaborato con Rasa Miskinyte di Era Film per un bellissimo film lituano che si intitola Exemplary Behaviour. Rasa ha letto il trattamento che gli è piaciuto molto e ha deciso di provare a concorrere per i fondi lituani che poi abbiamo ricevuto. Così è nata la collaborazione, insieme abbiamo realizzato tutte le scene di studio, come quelle in macchina, o quelle della città capovolta, grazie alla direttrice della fotografica Elvina Nevardauskaitė. E poi ho avuto la possibilità di dirigere un’attrice meravigliosa, Odetta Tunyla.

Anche il compositore della colonna sonora è lituano, e la musica nel tuo film è un elemento molto importante.

Sì, ho lavorato con un musicista bravissimo che è stato anche candidato ai “David di Donatello” lituani per la musica del film, Martynas Bialobžeskis. Il nostro obiettivo era quello di creare una musica ossessiva per la parte più oscura del film e che accompagnasse il mio viaggio notturno, girato nell’abitacolo della macchina. Tutto in quelle scene doveva dare un senso di claustrofobia, lo spettatore doveva essere con me all’interno dell’abitacolo per poi respirare finalmente quando esco all’aria aperta: in quel momento si interrompe anche la musica, è giorno, c’è finalmente la rinascita.

AmorAmor è frutto anche di un grande lavoro d’archivio.

Il lavoro d’archivio è il centro del film. Prima ancora dell’incontro con la casa di produzione, quando ho preso coscienza che dovevo raccontare questa storia, ho subito avuto l’illuminazione che dovevo raccontarla attraverso il fiume e da lì sono partita, ancora prima di mettermi a scrivere, proprio da una collezione di immagini. All’inizio ho creato un archivio di foto mie personali: giravo per Roma e scattavo foto di dettagli che mi colpivano, legati soprattutto alla Roma perduta come città d’acqua. Poi ho frequentato alcuni importanti archivi, la Library of Congress di Washington, l’Istituto Luce, l’Archivio Piranesi e l’Aamod (Archivio Audiovisivo Del Movimento Operaio e Democratico), collezionando tantissimo materiale. Così ho costruito una sorta di film ancora molto saggistico; poi nel 2018, grazie alla casa di produzione Stefilm e agli Italian Doc Screenings, dove ho presentato il mio progetto, ho riscritto tutto mantenendo la struttura ma togliendo il velo, niente più maschere, siamo rimaste solo io e mia mamma.

Questo è un film da grande schermo, infatti sta avendo la sua distribuzione in giro per l’Italia. Ma come è stato vederlo proiettato durante la Mostra del cinema di Venezia?

La selezione a Venezia è stata una cosa bellissima, non solo dal punto di vista professionale, ma anche perché quando ho visto le foto di Roma con l’acqua ho pensato subito a Venezia! Si è creato un cortocircuito interessante. Il pianeta Amor è ispirato proprio all’immaginario e alla pittura degli artisti veneziani, in cui c’è un rapporto pacificato fra l’uomo e la natura. E Venezia è la manifestazione della natura che si combina con la città nella maniera più armonica. Approdare al Lido sulla barca con il mio film è stata la conclusione perfetta di questo percorso.

Amor è pieno di bellezza. Cosa è per te la bellezza?

La bellezza è qualcosa che ti cura: io ci credo molto, perché mi ha salvata. In passato ero attratta dall’autodistruzione e la cosa che più mi ha curato è stato il rapporto con le immagini. Le immagini sono delle porte. Ti permettono di avere un legame con chi non c’è più, col nostro passato e con le nostre radici, non ti fanno sentire perso. E non dovrebbero essere materia da museo, ma un patrimonio che appartiene a tutti.

Ti sei sempre dedicata alle immagini e al suono esplorando diversi linguaggi e supporti, dalla pellicola super8 alla computer grafica. Ora cosa vedi nel tuo futuro da regista? Continuerai a fare cinema sperimentale o indagherai anche la fiction come mezzo per trasfigurare la realtà?

Mi ha sempre colpito il percorso di Pietro Marcello, che riesce a mischiare finzione e ricerca d’archivio. Io amo i percorsi esplorativi e di ibridazione dei generi, mescolare found footage e racconto più tradizionale. Mi piace quando il cinema continua a essere uno spazio di sperimentazione, anche se a volte mi domando se forse dovrei fare film che chiedano meno allo spettatore. Perché Amor chiede tantissimo.

Il tuo film è una grande storia d’amore. Con Roma, con tua madre, e con te stessa. Ma è anche una storia piena di fantasmi che mi ha fatto venire in mente una citazione di David Foster Wallace che amo molto: «Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi».

Mi fa molto piacere, perché uno degli spunti che mi hanno sollecitato a fare questo film è stata un’altra frase bellissima che recita: «Non si può conoscere una città senza conoscere i suoi fantasmi». Ma ce n’è un’altra ancora: «Le immagini sono storie di fantasmi per adulti». E sicuramente il mio film racconta di due fantasmi, Roma e mia madre.

 

 

 

 

 

 

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Antipop, la storia di Cosmo in un doc su Mubi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/antipop-la-storia-di-cosmo-in-un-doc-su-mubi/#respond Mon, 26 Feb 2024 14:25:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18975 In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche […]

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In gergo tecnico l’anti pop è un filtro audio, un piccolo reticolo posizionato tra il microfono e la bocca del vocalist che serve a escludere dall’incisione piccoli rumori dovuti all’articolazione delle parole o alla respirazione. Nel caso del documentario su Cosmo e la sua band, in uscita su Mubi, Antipop ne diviene il titolo, ripulendosi anche da quella definizione così larga e onnivora che è il genere pop. Ed è inoltre lo stesso titolo di un brano dell’album La terza estate dell’amore, una citazione voluta dal regista Jacopo Farina, qui alla sua opera prima.

L’ascesa di Cosmo non appartiene al mercato discografico immediatamente mainstream e la scalata al successo del cantautore di Ivrea somiglia più alla storia di una garage band. Sempre circondato e legatissimo al gruppo e alla sua famiglia, questa caratteristica è il cuore del lavoro di Farina, che si concentra non tanto sulla spiegazione di testi e musiche, ma sulla vita vissuta della “tribù” che ruota intorno a Marco Jacopo Bianchi, da cui poi l’artista emergerà con il nome di Cosmo. Si parte dalla sua prima band, i Melange e dalla morte prematura di uno dei musicisti, passando per il secondo gruppo, i Drink to me, e poi finalmente si arriva al successo presso il grande pubblico come solista, che solo non è mai stato.

Nella prima parte del doc Farina ci espone un racconto corale dove i genitori, ogni amico o musicista hanno lo stesso peso. Ci sono le prove nello scantinato di uno zio o in tavernette casalinghe con boiserie, antistanti il bagno d’una madre presa dal fare il bucato; le bevute dopo i rifornimenti di birre al supermercato e le ragazze che testimoniano amori e creazioni musicali; lo spirito dell’essere uno per tutti e tutti per uno nel lutto affrontato con una lunga astensione dagli strumenti quanto nell’appoggiare in toto la nuova identità solista di Marco, anzi Cosmo. Una famiglia e una tribù appunto, dove a contare è l’unione, sempre e comunque. È questa la caratteristica più incisiva del doc e del Cosmo-mondo. Il regista l’affronta con la voce narrante di Cosmo stesso, e ci sentiamo quasi Marco che osserva la sua storia, o meglio il mondo che lo ha circondato sin dall’adolescenza. Quasi un doc in soggettiva, insomma.

La musica qui ha un ruolo amniotico e, libera dal binomio convenzionale del videoclip (canzone-performance visiva), circola in questo lavoro come una linfa. Sempre presente in mood sonori quasi sottotraccia, loop e melodie estrapolati da arrangiamenti editi, percorre il film con il sound elettronico che caratterizza questo artista.

Dall’1 marzo Antipop arriva in esclusiva su Mubi. Forse una piattaforma di qualità è la migliore via distributiva per un doc di questo formato, un’ora, molto adatto a una fruizione televisiva d’approfondimento. Essendo in uscita il nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco, il quarto da solista di Cosmo, in uscita il 15 marzo per Columbia Records e Sony Music Italy, sembra anche il lancio perfetto sul piano del marketing.

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MalaFede, la Madonna che ama la comunità LGBT https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/malafede-la-madonna-che-ama-la-comunita-lgbt/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/malafede-la-madonna-che-ama-la-comunita-lgbt/#respond Wed, 07 Feb 2024 14:50:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18945 Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, […]

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Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, dove si svolgono le danze e i rituali guidati dai canti di Marcello Colasurdo, artista e e mediatore tra la comunità e il divino, si riuniscono i “femminielli”, né maschi né femmine, i più autentici e ancestrali custodi di un culto popolare che celebra la sacralità della natura umana, della rinascita rituale e della Grande Madre. MalaFede è un documentario piccolo ma sconfinato, aperto come un respiro fatto a pieni polmoni, vibrante di colori e energia. Una regia collettiva per un rito collettivo, un esordio fresco e allo stesso tempo meditato, che ha il sapore del raccordo ideale. Il successo di MalaFede mostra a pieno i frutti del lungo lavoro di Chiara Borsini giornalista e sceneggiatrice, Marialuisa Greco autrice e producer freelance e Paolo Corazzo cinematographer e direttore della fotografia. Un’unione rara che muove come un’unica mano e un unico sguardo un progetto che ha fatto della collettività il suo punto di forza.

È stata la vostra prima volta alla regia, raccontatemi come avete vissuto questa esperienza.

Malù: Mi sono sempre occupata della parte autoriale dei progetti, poi il lavoro mi ha portata a sperimentare altri ruoli, così sono diventata una producer. La regia era un percorso che prima di MalaFede non avevo mai preso in considerazione. Lavorare insieme, in una regia collettiva, ci ha permesso di essere sicuri delle nostre scelte e superare qualche dubbio dovuto all’inesperienza. Dalla nostra parte poi, avevamo molti riferimenti cinematografici in comune, un gusto estetico condiviso che ci ha portati verso un risultato apprezzato con soddisfazione da tutti e tre.

Paolo: Ho la fortuna di collaborare ogni giorno insieme a vari registi su progetti e clienti sempre diversi. In pubblicità il risultato e la crescita professionale seguono un percorso fatto da modalità, tempistiche e obbiettivi estetici differenti. La regia di MalaFede per me è stata prima di tutto un dialogo condiviso totalmente diverso dalle altre mie esperienze.

Chiara: Avere la possibilità di condividere questa esperienza alla regia con Marialuisa e Paolo ha sicuramente rappresentato un valore aggiunto al nostro lavoro, sia perché siamo tutti e tre portatori di competenze e sensibilità diverse, sia perché il rapporto umano, oltre che professionale, che ci ha sempre unito ha favorito una crescita durante la quale abbiamo imparato molto gli uni dagli altri. Le produzioni indipendenti conoscono sempre momenti che costituiscono delle sfide e avere la fortuna di affrontarli con persone con cui abbiamo scelto di collaborare per affinità elettive è una grande fortuna.

MalaFede
La Madonna di Montevergine.

Com’è nata l’idea di MalaFede? Perché questo titolo?

Chiara: L’idea è nata sei anni fa dalla lettura di Mamma Schiavona. La madonna di Montevergine e la Candelora. Religiosità e devozione popolare di persone omosessuali e transessuali di Monica Ceccarelli. Il saggio analizza in prospettiva storico-antropologica la devozione, la festa e il conflitto con l’autorità religiosa della comunità campana dei femminielli. Anche La pelle di Curzio Malaparte è stato un testo illuminante per comprendere la figura del femminiello nella cultura partenopea e, potendo contare sulla conoscenza del territorio di Marialuisa che è di origini campane, abbiamo deciso di fare esperienza diretta del pellegrinaggio. Dal 2017 abbiamo partecipato alle celebrazioni della Candelora, che si sono poi purtroppo interrotte per un paio d’anni durante la pandemia. Abbiamo compiuto il pellegrinaggio insieme ai fedeli, danzato con loro, abbiamo condotto molte interviste e raccolto decine di ore di girato. Ci sono voluti anni per dare a MalaFede la forma e il respiro che ha oggi. Inizialmente volevamo farne un lungometraggio che superasse i confini di quel territorio, poi, in fase di pre-montaggio, grazie al supporto della nostra video-editor Giulia Baciocchi, abbiamo spostato il focus del racconto interamente sulla dimensione di Montevergine, tenendo da parte altri elementi della nostra ricerca per progetti futuri.

Malù: Conoscevo la figura del femminiello e alcuni suoi rituali, come la tombola e la “figliata”, il parto del femminiello, al quale mio padre aveva avuto la fortuna di assistere. Il titolo poi fu un’illuminazione: una sera ero con alcune amiche, tra di noi ci chiamavamo “Malefemmine” e, mentre parlavo della difficoltà di trovare un nome al documentario, venne fuori, come fosse un gioco, il nome “MalaFede”. Quel titolo l’ho sempre immaginato con un punto interrogativo: è davvero una mala fede, una cattiva fede, quella di una comunità, emarginata da secoli, che si è costruita una identità religiosa diversa da quella ufficiale ma con gli stessi princìpi?

La scrittrice e docente di Letterature comparate Tiziana de Rogatis ha scritto che Napoli è la città del limen, della soglia, della sospensione tra temporalità, codici e generi opposti. Sostiene che la sua eccentricità si fonda proprio sull’essere una «città ermafrodita e ibrida, femmina e maschio» arcaica e contemporanea.

Chiara: Non potrei essere più d’accordo con questa definizione della cultura partenopea. Nel documentario, Marcello Colasurdo e Ciro Cascina sono stati capaci di rendere questo concetto in maniera esaustiva con la metafora della sirena Partenope – metà donna e metà pesce. Ermafrodita è Napoli ed ermafroditi sono i sacerdoti del tempio di Cibele – secondo la narrazione leggendaria di quel luogo –  sulle cui ceneri sorge oggi il santuario di Montevergine. È straordinario che questa dualità sia un elemento fondativo dell’identità di quel territorio, di cui il femminiello, né uomo né donna, rappresenta una figura iconica.

Malù: Credo che l’aspetto più sorprendente della cultura partenopea sia la capacità di abbracciare tutte queste apparenti contraddizioni: Napoli è una città che accoglie tutte le diversità. Abbiamo incontrato persone che incarnano perfettamente questa caratteristica, persone che si sentono accolte e ascoltate da Mamma Schiavona e che a loro volta accolgono e ascoltano chiunque sia interessato alla loro storia. Un’apertura verso l’altro che è talmente insita nella tradizione che può resistere a qualsiasi tipo di cambiamento.

Più che un set era una festa, era vita e gente.

Chiara: Sì è vero! Siamo stati accolti da subito come parte della “paranza” (famiglia) e abbiamo vissuto appieno l’atmosfera di festa che caratterizza quel 2 febbraio tanto atteso dalle comunità locali. Uno dei momenti per me più significativi delle riprese è stato quando Marcello Colasurdo ci ha aperto la porta di casa sua, permettendoci di entrare in quell’incredibile mondo caotico, ingombro di reliquie e pieno di vita che era il suo privato. Ci ha fatto il caffè, ci ha raccontato momenti della sua biografia che in parte sono diventati materiale prezioso per il nostro documentario, ha cantato per noi. Di tanto in tanto venivamo interrotti dalla voce di un vicino, qualcuno che passava a trovarlo, a portargli qualcosa in dono, Marcello era lo sciamano della sua comunità. E MalaFede, a qualche mese dalla sua scomparsa, assume per noi ancora più valore, è la sua ultima testimonianza, il ricordo più autentico che abbiamo di lui.

MalaFede
Marcello Colasurdo.

I protagonisti, Marcello Colasurdo e Ciretta, sono molto carismatici. Come avete lavorato con loro e come avete gestito l’essere parte della festa, catturarne i momenti senza turbarne lo svolgimento?

Chiara: Marcello e Ciretta ci sono stati presentati da alcune delle persone con cui avevamo compiuto il pellegrinaggio il primo anno e fin da subito ci è sembrato che incarnassero pienamente lo spirito di MalaFede.   Sono persone da sempre abituate alla visibilità mediatica ma la nostra ricerca voleva andare più in profondità, oltre l’aspetto meramente folkloristico dell’evento religioso “fuori dalle righe” e questo approccio ci ha ripagato. La narrazione sul rapporto tra identità e religione, così ben raccontato da Ciretta, è diventata il filo conduttore della nostra ricerca negli anni. Ci interessava capire come venivano vissute dai fedeli le contraddizioni tra religione e spiritualità, tra la storica apertura all’accoglienza di tutte le diversità connaturata e celebrata in quel territorio e le resistenze di alcuni esponenti dell’istituzione religiosa, avvenute in passato. Come convivono in quel luogo il silenzio solenne del santuario e il ritmo cadenzato delle tammorre, il rito cattolico e quello pagano.

La vostra è stata una regia agile, libera, perfetta per adattarsi a un contesto dinamico e mutevole. Ma è stata anche parte di un lavoro virtuoso, fatto di pazienza e lunghe attese. In cosa sentite di aver investito maggiormente?

Chiara: L’estetica della camera a spalla e l’agilità nel comporre il frame ideale ci hanno permesso di avvicinarci ai nostri soggetti senza compromettere la loro spontaneità. In situazioni come le interviste, abbiamo scelto di evitare l’impiego di fonti di luce, a meno che non fosse strettamente necessario. Questo approccio ha richiesto tempo e pazienza ed è proprio il tempo l’elemento del nostro lavoro in cui abbiamo deciso di investire di più. Il tempo concede una maggiore coscienza nella composizione dell’inquadratura, sempre molto complicata in situazioni caotiche e affollate come il pellegrinaggio e le celebrazioni per la Candelora.

Trovo che sia stato fatto un accurato lavoro narrativo anche al montaggio, tanto è vero che è impossibile non notarne l’armonia compositiva.

Paolo: Il lavoro di montaggio svolto di Giulia Baciocchi è stato l’ultima spinta per la chiusura del progetto. L’intervento e la prospettiva di un occhio competente e esterno a tutto il processo di produzione filmica è stato fondamentale per dare a MalaFede il taglio narrativo che ha oggi. Abbiamo lavorato con lei a distanza, poiché tutti viviamo in città diverse d’Italia e la pandemia rendeva complicato qualsiasi spostamento, quindi ogni incontro, confronto o condivisione doveva avvenire online. Nonostante le difficoltà, Giulia è riuscita a gestire una vasta quantità di materiale, cogliendo pienamente l’idea che avevamo in mente, aggiungendo il suo sguardo, poetico e musicale.

Che progetti avete per il futuro? A cosa state lavorando?

Chiara: MalaFede è la sintesi di un lavoro durato anni, che ci ha condotto in altri luoghi, in altri contesti religiosi e culturali, lungo il fil rouge che per noi è sempre stato il tema del rapporto tra identità, spiritualità e religione. In questo momento abbiamo in cantiere un’idea che è nata proprio durante le riprese di Malafede e che abbraccia le stesse tematiche ma in un contesto socio-culturale diverso, nel Nord Italia. È la storia di Don Franco, sollevato dal suo ministero poiché officiava (e tuttora officia) matrimoni tra coppie omosessuali ed è investito dalla sua comunità di un ruolo di guida spirituale nonostante non sia più formalmente un sacerdote. Parallelamente, tutti e tre portiamo avanti altri progetti: Paolo sta realizzando un documentario su Paolo Olbi, artigiano della carta stampata a Venezia e io mi sto dedicando alla scrittura, alla drammaturgia e alla realizzazione di progetti in teatro. Mentre Marialuisa sta lavorando alla produzione di un documentario d’inchiesta e alla scrittura del suo prossimo progetto documentaristico.

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Kripton, Francesco Munzi racconta le malattie dell’anima https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/kripton-francesco-munzi-racconta-le-malattie-dellanima/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/kripton-francesco-munzi-racconta-le-malattie-dellanima/#respond Tue, 30 Jan 2024 14:33:53 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18937 Kripton racconta la vita quotidiana e insieme extra-ordinaria di un gruppo di ragazzi con problemi psichici all’interno di due comunità nella periferia di Roma. Una vita sospesa in un “difficile mondo” dove l’oscurità governa ma si intravede anche una luce abbagliante che è quella della condivisione e del dialogo. L’abisso mentale dei pensieri troppo veloci, […]

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Kripton racconta la vita quotidiana e insieme extra-ordinaria di un gruppo di ragazzi con problemi psichici all’interno di due comunità nella periferia di Roma. Una vita sospesa in un “difficile mondo” dove l’oscurità governa ma si intravede anche una luce abbagliante che è quella della condivisione e del dialogo. L’abisso mentale dei pensieri troppo veloci, della troppa empatia, delle visioni fantastiche e deliranti, della solitudine, ma anche delle famiglie non aiutate dallo Stato in un post pandemia dove il disagio psichico è aumentato del 30% nei giovani.

Francesco Munzi (Anime nere, Futura) dirige un documentario intimo, delicato, un film necessario e straziante fra domande esistenziali e momenti di profonda verità a cui è impossibile restare indifferenti e in cui è molto facile immedesimarsi. Munzi ci porta su Kripton che “non è remotissimo, ma alquanto remoto è”, un pianeta dove la sensibilità è tantissima, forse troppa, e spesso si vede di più e si sente di più rispetto al pianeta Terra.

Hai detto più volte che fare questo film (distribuito da Zalab) è stato come un salto nel buio, perché in pratica lo avete scritto mentre lo giravate. Ma qual è l’origine di questo documentario? Come arriva l’interesse per la malattia psichica e il disagio mentale? 

È sempre un po’ complicato capire quale sia il motivo per cui si decide di girare un film. Sicuramente io avevo un forte interesse a raccontare personaggi che avessero un contatto con esperienze psichiche estreme e volevo provare a raccontarlo attraverso il cinema. Volevo trasporre sul grande schermo esperienze interiori solitarie e stati d’animo, e per farlo mi sono rivolto a due comunità di Roma che ospitavano ragazzi che avevano fatto questo tipo di esperienze e soffrivano di disagio mentale.

Come sei entrato in queste vite così delicate e intime senza sembrare un estraneo? Come ti sei guadagnato la fiducia dei ragazzi e delle ragazze risultando quasi “invisibile”? 

Una delle cose sorprendenti che abbiamo notato ora che è uscito il documentario è che in realtà dal pubblico viene vissuto come un film di finzione, ha lo stesso coinvolgimento. Questo credo avvenga perché è sì un documentario, ma al centro ci sono le persone e alcuni loro aspetti invisibili, insomma si va in profondità. Anche io sono rimasto sorpreso nel vedere il grado di naturalezza che arriva sullo schermo, e questo credo sia dovuto al fatto che durante le riprese siamo riusciti ad ottenere una grande fiducia, i ragazzi si sono affidati, sono entrati in contatto con noi come persone. Anche l’operatore di macchina Valerio Azzali è entrato in questa dinamica di avvicinamento umano. Sul set eravamo in tre, a volte Valerio era anche da solo. Non avevamo neanche il fonico proprio per evitare qualsiasi cosa che potesse disturbare e distrarre.

Come hai scelto le sei storie da approfondire?

Non è stato facile, è stato uno slalom perché moltissimi centri hanno detto di no, le comunità più lontane dal centro di Roma invece ci hanno dato molta più fiducia. Non so se è stato casuale. I ragazzi sono stati molto generosi e molto coraggiosi, però bisogna anche dire che alla fine l’esperienza del documentario per loro è stata quasi terapeutica, perché rivedendosi sul grande schermo hanno provato un grande beneficio. Per quanto riguarda la scelta, abbiamo privilegiato le storie che davano spazio non solo ai medici ma anche ai famigliari, perché anche questo è un aspetto che volevo raccontare.

Nel tuo film i ragazzi riflettono su argomenti importanti e profondi, dalla solitudine al rapporto fra vero e falso, alla famiglia, ma la cosa che ritorna sempre e che è impossibile non notare è un eccesso di sensibilità nei protagonisti, come se vedessero e sentissero di più.

Quello che ho notato è che questi ragazzi condividono con le persone diciamo “normali” le stesse domande esistenziali, solo che loro rimangono spesso incagliati in certe dinamiche di pensiero. Kripton sta avendo una grande diffusione proprio perchè secondo me il limite fra malattia mentale e normalità non è così definito, e quindi è anche facile immedesimarsi. Per questo sarebbe bello se oltre al suo percorso nelle sale cinematografiche questo documentario diventasse anche uno strumento di discussione per il pubblico ma anche per le scuole, perché i protagonisti sono tutti ragazzi giovani, in particolare Dimitri.

Gli inserti con materiali d’archivio che significato hanno?

 Mentre giravo il film mi sono accorto che avevo bisogno di un contrappunto che andasse in controcanto con l’osservazione e la cronaca del film, qualcosa di più allusivo e evocativo che facesse fare un viaggio di sentimento allo spettatore. Così è arrivata l’idea dei super 8, degli homemovies, usati non in senso narrativo ma associativo e libero una cassa di risonanza per la musica e una trasfigurazione della cronaca.

Uno dei protagonisti del film è Marco Antonio, e qui la parola “protagonista” è perfetta perché lui è l’unico ad essersi posto proprio come attore, inoltre è anche un grande cinefilo. In uno dei suoi monologhi parla di Kripton come fosse il suo pianeta di origine. Perché hai scelto questo come titolo del tuo film? Come se i ragazzi del film fossero veramente originari di un altro pianeta – e in effetti sembra proprio che abbiano dei poteri extra-ordinari…

Kripton, oltre che significare “nascosto” in greco, fa subito pensare a un enigma e ci porta in un mondo sia di fantasia che di delirio, ma comunque sia di mistero. La malattia mentale è qualcosa di doloroso e faticoso, ma è anche un enigma, un mistero appunto. Il tentativo era quello di portare lo spettatore a un contatto ravvicinato – e non con i numeri ma con le persone – con questo tipo di esperienze, di renderle più consuete, di integrarle. L’essere umano può essere anche questo, e con questo film abbiamo provato ad abbattere ancora un po’ di più lo stigma. Perché la strada è quella dell’integrazione contro l’isolamento, ci sono ancora troppa paura e vergogna.

KriptonNel film si parla spesso di oscurità, e qui ce n’è tantissima, però in questo film si vede anche una luce. L’ultima scena, quella con protagonista Benedetta, è struggente e catartica insieme perché riesce a infondere una grandissima idea di speranza. Dove hai trovato la luce in questo luogo?

Già l’idea di poter rappresentare questo mondo per me era qualcosa di virtuoso. Nonostante la fatica e a tratti la disperazione che ho potuto cogliere, la strada non è solo quella di puntare alla guarigione non sempre immediatamente raggiungibile quanto di aprirsi alla condivisione, al dialogo e all’appartenenza e in questo senso Benedetta ne è la dimostrazione, perché inizialmente si faceva riprendere solo da lontano ma poi ha iniziato a fidarsi di noi, si è avvicinata, ci ha parlato, e questo è stato un piccolo miracolo. Lei ci ha fatto questo regalo e ci ha indicato la strada, con una grande naturalezza e normalità.

Ti senti più libero nella realtà (e quindi nel documentario) o nella finzione? Nel tuo prossimo futuro c’è un documentario o un film di finzione? 

Questa è una domanda complicata perché uno può essere libero sia nel documentario sia nella finzione e viceversa. La libertà è più una questione di come ti approcci a ciò che stai per girare, a una storia, e poi naturalmente dipende anche dalla produzione. Il fine dei miei film comunque – anche quando ne faccio uno di finzione – è sempre una sorta di ricerca. A volte parto da un documentario mancato che diventa un film di finzione. Non sono due mondi così separati.

Finzione e realtà, a volte la finzione è più reale del reale… lo dimostra il fatto che Marco Antonio, che non riconosceva più sua sorella né come sua parente né tanto meno come amministratrice di sostegno, dopo aver visto il film ha finalmente ricominciato a darle fiducia e a riconoscerla.

Siamo rimasti tutti stupiti da questa cosa, certo non possiamo avere la certezza che sia davvero legata al documentario ma tutto lo fa pensare. Il film ha permesso a Marco Antonio – così come agli altri – di vedersi dall’esterno e quindi di avere un’altra prospettiva. Non sappiamo quali meccanismi siano scattati ma essersi messi davanti alla macchina da presa equivale a essersi messi in scena e a volte mettersi in scena dà più libertà rispetto al ruolo che ti senti costretto a interpretare nella vita di ogni giorno.

 

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Raffa, il documentario definitivo su Raffaella Carrà https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/raffa-il-documentario-definitivo-su-raffaella-carra/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/raffa-il-documentario-definitivo-su-raffaella-carra/#respond Thu, 06 Jul 2023 06:55:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18555 Adesso possiamo dirlo. Gli ultimi due anni di cinema ci hanno regalato tre pietre miliari tra i documentari biopic che sintetizzano un quadro ricchissimo sull’industria culturale italiana. Tutti doc monografici diretti da grandi registi, tutti con un taglio raffinato che sorvola il genere tenendo incollati al grande schermo anche gli spettatori meno avvezzi al documentario. […]

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Adesso possiamo dirlo. Gli ultimi due anni di cinema ci hanno regalato tre pietre miliari tra i documentari biopic che sintetizzano un quadro ricchissimo sull’industria culturale italiana. Tutti doc monografici diretti da grandi registi, tutti con un taglio raffinato che sorvola il genere tenendo incollati al grande schermo anche gli spettatori meno avvezzi al documentario. Sono Ennio di Giuseppe Tornatore, sul genio e la composizione di Ennio Morricone; Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, sul comico e cineasta Massimo Troisi; e adesso Raffa di Daniele Luchetti, sull’artista e autrice Raffaella Carrà, con la vita e l’ascesa di Raffaella Pelloni.   

Il regista romano ha deciso di affrontare questa sfida in maniera cronologica, così con le sue poderose tre ore di montaggio finale assistiamo agli esordi partendo dalla formazione della giovane Raffaella fino ed oltre il successo, cioè il passaggio all’icona. Migliaia di ore di contributi sono state visionate dalla squadra di Luchetti e oltre al repertorio televisivo e cinematografico sulla Carrà si susseguono immagini mai viste dalle tournée estere e dalla vita privata. Dolcissima punteggiatura finzionale di Luchetti quella di una bimba che interpreta la giovane Raffella in un vecchio cinema di Bologna, tra sogni ritmati in bianco e nero e futuro radioso. A testimoniarne l’inossidabile dirompenza artistica non solo le condivisioni, gli aneddoti e i pareri di attrici come Loles Leon e Loretta Goggi, registi come Emanuele Crialese e Marco Bellocchio, musicisti come Tiziano Ferro e Bob Sinclair, ma anche showman come Fiorello e Renzo Arbore. Solo per citare alcuni nomi di una lunghissima lista tra autori televisivi, produttori, ballerini, coreografi, costumisti, vecchie fiamme romagnole e parenti. Uno su tutti il nipote Matteo Pelloni. Ognuno ad aggiungere la propria tessera a un mosaico di oltre cinquant’anni di carriera.

L’immagine che Luchetti sottolinea è doppia. Da una parte la Carrà, il nome d’arte che l’ha resa famosa, l’artista che provava per ore, che dimagriva due chili a ogni spettacolo e che ha saputo reinventarsi in Italia quanto in Spagna, nel Sudamerica e addirittura in Fininvest. Quella delle sfide, alcune non vinte, ma molte conquistate, perfezionista e fiduciosa nei suoi collaboratori e nei corpi di ballo. L’artista che ha segnato la televisione insieme a Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Quella che ha beffato la censura Rai negli anni di Canzonissima e che mostrando il suo corpo in modo rivoluzionario iniziò a entrare anche nei cuori della proto-comunità LGBTQ+ combattendo pregiudizi e moralismi parlando di amore libero attraverso il Tuca Tuca e tante altre canzoni e interpretazioni come Luca e Pedro. A proposito, le rielaborazioni e le musiche originali del film sono di Theo Teardo, che ha fatto un pregevolissimo lavoro rievocativo sulle melodie della Carrà. Carrà che fu anche l’artista a deporre simbolicamente due dittature, nella sua insospettabile scia di paillettes. Si trattava di Franco in Spagna nel 1975 e Pinochet in Cile nel 1990, affiancando il proprio successo esplosivo in questi paesi con la morte di entrambe quelle epoche oscure.

Dall’altra c’è Raffaella Pelloni, donna cresciuta sulle sponde adriatiche che si è sacrificata in toto per dare spazio alla Carrà. Pelloni come donna di famiglia, azdora romagnola, spirito matriarcale legatissima ai figli del fratello quanto alla madre e alla nonna, quella donna che le trasmise il sacro fuoco dell’arte, da bambina. È un ottimo fil rouge questo contrasto tra Carrà e Pelloni, tra artista e donna, non solo chiave narrativa, portandoci quasi a indagare su Raffaella attraverso le voci commosse, come quella di Ferro, o incantate come quella di Crialese, su chi fosse la donna dal caschetto biondo più famoso d’Europa. Spesso torna attraverso le sue tante interviste un desiderio di maternità mai appagato, forse motore e freno della sua esistenza più intima.

Raffa di Daniele Luchetti
Raffaella Carrà con Gianni Boncompagni.

Forse più di tutti ha carpito l’essenza della Carrà Caterina Rita, autrice, biografa e storica collaboratrice di Raffaella. Sono le sue riflessioni a costituire le migliori sintesi tra le testimonianze, ma segnaliamo anche Enzo Paolo Turchi, suo primo ballerino dal bianco e nero profondamente legato a lei, e poi l’autore Salvo Guercio, anche tra le firme della sceneggiatura. La Carrà non è stata un semplice personaggio televisivo ma un’icona investita da un successo quasi planetario. Rappresenta un fenomeno pop unico, sociologico se guardiamo al mito che ha lasciato in Sudamerica, e il lavoro certosino di Luchetti le rende un giusto omaggio. Magari arretrando di fronte alla vendita di lacrime nei primissimi piani di Pronto Raffaella negli anni ’80 o davanti allo sfruttamento Auditel delle famiglie separate in Carramba che sorpresa nei ’90. Ma quale icona non ha lati oscuri? E a proposito di ombre e luci, c’è un momento durante uno scroscio di applausi in cui la Carrà è sudata, felicemente stravolta e avvolta da un mantello rosso di paillettes che ricorda Elvis.

Raffa – Il ritratto inedito di un’icona senza tempo esce al cinema oggi 6 luglio, per festeggiare i suoi 80 anni che avrebbe compiuto il 18 giugno ma anche a due anni dalla sua scomparsa. Prodotta da Freemantle e distribuita al cinema da Nexo Digital come evento, la sua biografia sarà nelle sale fino al 12 luglio, ed essendo co-prodotta da Disney+ avrà un’ipotizzabile uscita su piattaforma verso fine anno, ma in forma di mini-serie in tre parti, già nettamente distinte nel film. L’ampio ventaglio di sala sicuramente permetterà altre finestre-evento in caso di un successo che è già abbastanza prevedibile. La Carrà fu rifiutata dal grande cinema, pur essendo comparsa in tante pellicole da giovanissima, e anche di questo parla il suo film, di una rinascita continua. Questo doc è l’occasione per ripercorrere la storia di una donna, dell’icona che ha costruito, della musica, della cultura nazional popolare italiana e degli effetti del successo, delle canzoni e delle musiche che ancora oggi animano le nostre feste e dell’affetto tra il pubblico e una star. Tutto, per una volta, non sul piccolo, ma sul grande schermo.  

 

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La timidezza delle chiome: due gemelli e il loro coming of age https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/la-timidezza-delle-chiome-due-gemelli-e-il-loro-coming-of-age/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/la-timidezza-delle-chiome-due-gemelli-e-il-loro-coming-of-age/#respond Thu, 17 Nov 2022 08:44:24 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17960 È ora nelle sale questo originalissimo esordio al lungometraggio. La timidezza delle chiome è un documentario, o docufilm, o un film verità se vogliamo, dove la regista Valentina Bertani segue da vicino l’adolescenza di Joshua e Benji Israel, fratelli gemelli pieni di vitalità e sogni per il loro futuro. La disabilità intellettiva li limita, ma […]

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È ora nelle sale questo originalissimo esordio al lungometraggio. La timidezza delle chiome è un documentario, o docufilm, o un film verità se vogliamo, dove la regista Valentina Bertani segue da vicino l’adolescenza di Joshua e Benji Israel, fratelli gemelli pieni di vitalità e sogni per il loro futuro. La disabilità intellettiva li limita, ma i loro genitori, protettivi e amorevoli ma sempre fermi ed equilibrati, lasciano loro tutto lo spazio per fare le esperienze dei vent’anni. Entra allora in campo l’osservazione discreta e appassionata di questa giovane regista con la quale abbiamo parlato proprio durante il lancio del film.  

Valentina, tu provieni dai videoclip, hai esperienza di spot anche fashion, e i tuoi protagonisti, Joshua e Benji hanno un viso particolarissimo. Sembrano quasi modelli. Ma vivono un disagio che racconti molto intimamente nel tuo film. Come si sono incrociate le vostre strade?

È successo per caso, in un giorno di sole a Milano. Mentre parcheggiavo il motorino ho notato due gemelli omozigoti così ricci e particolari che mi riportavano al cinema indipendente che tanto amo di Larry Clark e Harmony Korine. Ho deciso di fermarli per sapere se erano maggiorenni, se volevano fare qualche videoclip o fashion film insieme a me, ma non mi rispondevano e continuavano a camminare. Ho capito immediatamente che avevano una disabilità intellettiva perché avevo già avuto esperienze professionali con persone simili. Mentre sparivano lungo i Navigli ho pensato che forse avevo lasciato scappare una bella storia. Sono riuscita a recuperare i loro contatti chiedendo ai negozianti. Per fortuna i loro genitori sono gli ex-proprietari di un locale nei paraggi, Le Scimmie, così sono riuscita ad avere il contatto della madre.

La timidezza delle chiome è frutto di un’osservazione/lavorazione/condivisione con la famiglia Israel molto lunga. Titolo peraltro azzeccatissimo. Che tipo di percorso avete fatto insieme?

È il risultato di una grande storia di affetto tra me, gli sceneggiatori, il direttore della fotografia, la costumista, la produttrice esecutiva e casting director che è mia moglie. Sono tutti stati coinvolti nel rapporto che abbiamo instaurato con Sergio, Monica e i ragazzi. Li abbiamo frequentati per cinque anni e siamo usciti con loro tutte le settimane. Il titolo viene da un momento del film in cui è spiegato il fenomeno botanico della timidezza delle chiome [che consiste nello sviluppo di una volta arborea in cui le chiome dei diversi alberi non si toccano]. Risulta spiazzante perché in quel momento ci si chiede cosa sia reale e cosa costruito. Per aumentare il dubbio ho inserito un effetto di post-produzione dove le foglie inquadrate si smaterializzano, i rami smettono di toccarsi creando una geometria e regalando una suggestione allo spettatore: quanto c’è di documentario e quanto c’è di finzione in questo film che sto guardando?

Girare un videoclip è sicuramente più lineare. Quanto le tue scelte stilistiche preordinate sono state rivoluzionate sul set dai ragazzi?

Qui ho stravolto completamente il mio modo di raccontare. A livello estetico ho sempre dato priorità al crafting, al camera work, invece in questo caso ho lasciato guidare la storia. A livello umano Benjamin e Joshua mi hanno insegnato delle cose e anch’io a loro. Innanzitutto ho insegnato loro un lavoro, perché adesso sono in grado di recitare, di stare in campo senza guardare in macchina da presa. Abbiamo sempre fatto questo lavoro giocando con un nostro codice. Per esempio ho insegnato loro che l’obiettivo era come Medusa: non potevano guardarlo altrimenti si sarebbero pietrificati. Quello che hanno insegnato loro a me è che quando giri un film così character driven non puoi pensare che esista un dopo, un momento in cui il film finisce. Perché i personaggi possono anche finire di essere raccontati ma le persone non si possono abbandonare.

La timidezza delle chiome In fin dei conti il tuo film parla dell’unione di una famiglia e dell’amore fraterno. Quali sono i temi a te più cari?

Le storie che amo al cinema e quelle che voglio raccontare sono i coming of age. L’adolescenza mi affascina perché è un periodo effimero di passaggio, così come l’infanzia. L’altro argomento che mi sta a cuore è legato alla ricerca della propria identità, quindi anche tutto il cinema con tematiche queer.

La timidezza è il tuo esordio al cinema. Che tipo di film ti prepari ad affrontare adesso?

Il nuovo film che girerò si chiama Le bambine. È un film di finzione, la storia di due sorelle che incontrano una terza bambina piena di così tante difficoltà che non desidera di diventare grande come tutti gli altri bambini, ma vuole esercitare il suo diritto a rimanere piccola. Sarà un film colorato, pop, molto saturo, ambientato negli anni novanta. Ho scritto la sceneggiatura con mia sorella Nicole, Maria Sole Limodio e la supervisione di Barbara Alberti. Se tutto andrà bene lo gireremo nell’estate 2023. Siamo molto felici perché è una co-regia con mia sorella. Ho pensato di farlo con lei perché mi ha insegnato cosa significa davvero la sorellanza.

Da regista e sceneggiatrice, a quali cinematografie e a quali autori o autrici ti ispiri?

I miei registi di riferimento, come accennavo, sono Larry Clark per il suo raccontare senza filtro gli adolescenti, Harmony Korine perché conosce le regole e le stravolge cercando una grammatica tutta sua, e Todd Solondz perché ha un’ironia tagliente che trovo rivoluzionaria. Mentre le registe che mi stanno più a cuore sono Céline Sciamma, perché il suo cinema racconta storie con protagoniste femminili ben delineate e tridimensionali, ed è una continua riflessione sulla tematica dell’identità. E poi Julia Ducournau perché mi piace il body horror. Mi diverte la messa in scena del dolore al cinema. È come andare sulle montagne russe e confrontarsi con la paura del vuoto senza rischiare di cadere davvero. Il suo cinema assomiglia a un luna park: luci colorate, suoni forti e a volte un po’ di gioia mista a nausea.

 

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Noi siamo Alitalia, il docufilm che ricostruisce il tramonto della compagnia di bandiera https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/noi-siamo-alitalia-un-film-per-capire/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/noi-siamo-alitalia-un-film-per-capire/#respond Wed, 09 Nov 2022 08:18:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17916 Noi siamo Alitalia – Storia di un paese che non sa più volare è la terza e ultima parte di una trilogia che il produttore e autore Alessandro Tartaglia Polcini ha deciso di dedicare all’annosa, dolorosa e a tratti misteriosa vicenda che ha visto il lungo tramonto della compagnia aerea di bandiera nell’arco di alcuni […]

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Noi siamo Alitalia – Storia di un paese che non sa più volare è la terza e ultima parte di una trilogia che il produttore e autore Alessandro Tartaglia Polcini ha deciso di dedicare all’annosa, dolorosa e a tratti misteriosa vicenda che ha visto il lungo tramonto della compagnia aerea di bandiera nell’arco di alcuni decenni.

Il testo che segue è la trascrizione dell’incontro con Filippo Soldi, il regista e il coautore di questo documentario che per riuscire a riordinare le trame di una storia tanto lunga e complessa costruisce una cornice basata sul calco finzionale del lavoro dei veri autori del film messi in scena da attori professionisti, mossi e animati da una sceneggiatura; una cornice che inquadra e riposiziona ricostruzioni, riflessioni, testimonianze e documenti con l’intenzione di offrire una spiegazione complessiva facilmente comprensibile.

La prima questione che vorrei affrontare è che questo a suo modo è un film d’inchiesta e un film che si fa carico di un impegno, in un certo senso è un genere d’intervento che in Italia non si fa quasi più da tanto tempo. C’è una strana risonanza: da una parte un riecheggiamento lontano dei film “impegnati” degli anni Sessanta e Settanta e dall’altra una familiarità con la comunicazione audiovisiva del nostro tempo.
È una questione alla quale ho pensato solo a posteriori. Quando son stato invitato a lavorare al film molto materiale era già stato girato: a me si chiedeva di costruire un racconto. Io prima di tutto ho avuto un grosso problema: non capivo niente, guardavo queste centinaia di manifestazioni, queste centinaia d’interviste che si concentravano sempre su un singolo problema e mi rendevo conto che da esterno non riuscivo a ricostruire l’intero quadro. Il punto è stato allora fin dal principio tentare di capire. Penso che oggi non possiamo dire di non avere informazioni, ne abbiamo anche troppe, ma sono frammenti sempre incompleti. L’idea è stata allora di raccontare la nostra storia di autori – io, Maria Teresa Venditti, Annamaria Sorbo e lo stesso produttore Alessandro Tartaglia Polcini – che volevamo solo capire, farci un’idea chiara, semplice oggettiva di
questa vicenda. Idealmente eravamo aperti ad approdare a una conclusione non prevista, senza pregiudizi. È quasi come se il film fosse il racconto di un tentativo di comprensione. La comunicazione è stata uno strumento potente nella mani di chi ha guidato dall’alto questo lungo processo di smantellamento. La comunicazione è importante ma può essere fuorviante se viene usata per non consentirti di capire. Quando Alessandro mi ha chiamato io di Alitalia avevo l’idea fuorviata che hanno quasi tutti. Poi leggendo, guardando, studiando mi son reso conto che non avevo capito niente. Non è facile oggi fare cinema politico così come lo si è fatto in passato in questo paese e altrove. Non è un problema di censura: non c’è più la concentrazione, l’attenzione che consenta di
affrontare le cose in un tentativo di serietà. Quel cinema con il quale sono cresciuto oggi non si può più fare, ma a me è ancora quello che piace di più.

Noi siamo Alitalia

Per la costruzione della forma di questo racconto avete usato dunque anche riferimenti cinematografici?
Non ci sono stati modelli consapevoli, semplicemente quelli sono i modelli con i quali io sono cresciuto. Tieni conto che ho iniziato a lavorare nello spettacolo con Luca Ronconi, son stato il suo assistente: per lui la comprensione era la prima cosa. Mi son reso conto che ho messo in atto le strutture che ho appreso dal cinema di Visconti, di Rosi e anche di altri. Non li ho cercati, è stato naturale.

A questa crescente necessità di comprendere e ordinare la gran mole d’informazioni che ci investe si contrappone un’ondata che ha investito potentemente anche il documentario: tutto ormai è diventato narrazione. Il vostro film sembra muovere il suo discorso a partire dalla necessità di costruire un racconto anche solo come principio d’ordine tra le cose.
Il documentario per me è una ricerca, non un atto poetico. Anche in altri documentari che ho fatto avevo il problema di dove ambientarli, perché erano un percorso, un’indagine tutta intellettuale senza un luogo. Anche in questo caso il viaggio è nelle teste degli “ispettori”. All’inizio quelli di Alitalia – diciamolo – non sono per loro neppure simpatici, li considerano dei privilegiati che giustamente hanno perso il lavoro. La loro ricerca comincia come un lavoro non troppo approfondito, li ho immaginati come autori televisivi… Poi però le cose cambiano, si rendono conto che hanno a che fare con il più grosso licenziamento della nostra storia repubblicana. Una vicenda che riguarda la struttura dell’intero Paese.

Per trovare una sintesi ma anche una semplificazione che rendesse comprensibile questa enorme massa di frammenti di una vicenda tanto lunga, vasta e complessa, come avete ragionato?
Ci siamo messi a navigare insieme in mezzo a questo mare di materiale. È cominciata presto la disperazione: era praticamente impossibile offrire un percorso filmico se non raccontando il nostro percorso. A me il cinema nel cinema è sempre piaciuto molto, mi piace vedere il processo che prende forma. Non ci credo a un film che mi racconta una storia, ma credo a un film che mi fa vedere qualcuno che mi vuole raccontare questa storia.

Nel film manca del tutto la voce dei vertici Alitalia così come dei politici e degli altri dirigenti che hanno avuto parte nel destino della compagnia.
L’idea era di raccontare da esterni quello che potevamo vedere. La dirigenza era un problema, anche perché negli anni di dirigenze ne sono cambiate tante, era complicato. Allora è venuta la scelta di intervistare persone che avevano avuto modo di vedere le cose da quel punto di vista (Gianni Rossi è stato amministratore delegato di Meridiana, per esempio) oltre che testimoni diretti ed esperti che fossero in grado di ricostruire e analizzare, ma intervistare uno del consiglio di amministrazione Alitalia non ci sembrava necessario.
Abbiamo scelto di raccontare attenendoci ai fatti, alle conseguenze delle scelte fatte nel tempo, perché si tratta di una vicenda che dura da decenni e i fatti di oggi sono la conseguenza di azioni intraprese molto tempo prima. C’era anche il limite della durata del film con cui fare i conti.

Quali sono state le motivazioni che hanno guidato il vostro lavoro?
Capire. Quando lavoro per il teatro, lo spettacolo è il momento culminante di un processo, a me piacerebbe che le persone assistessero al processo invece che solo al risultato finale. Perché è nel processo creativo che si mette a fuoco, che si cerca di capire. A me piace un cinema che diverta: il divertimento può produrre una comprensione anche migliore.
Anche scrivere le parti di finzione è stato un modo per approfondire questa comprensione: per me la sceneggiatura è una scrittura che deve mettere in moto qualcosa, faccio fatica a pensarla testo che va recitato e basta.

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Nel mio nome: il doc sulla transizione nato a Bologna e prodotto da Elliott Page https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/nel-mio-nome-il-doc-sulla-transizione-nato-a-bologna-e-prodotto-da-elliott-page/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/nel-mio-nome-il-doc-sulla-transizione-nato-a-bologna-e-prodotto-da-elliott-page/#respond Sun, 12 Jun 2022 15:33:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17279 «Sulla transizione manca una narrazione, ma credo che stia arrivando uno tsunami linguistico, culturale, legale» avverte Nicolò Bassetti. Un preavviso dello tsunami è il suo nuovo lavoro, Nel mio nome, documentario che racconta il delicato percorso intrapreso da quattro amici che, in quel di Bologna, hanno scelto di abbandonare il genere femminile per quello maschile. […]

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«Sulla transizione manca una narrazione, ma credo che stia arrivando uno tsunami linguistico, culturale, legale» avverte Nicolò Bassetti. Un preavviso dello tsunami è il suo nuovo lavoro, Nel mio nome, documentario che racconta il delicato percorso intrapreso da quattro amici che, in quel di Bologna, hanno scelto di abbandonare il genere femminile per quello maschile.

L’idea per il film, presentato alla Berlinale e in un’uscita-evento dal 13 al 15 giugno nelle sale italiane con I Wonder Pictures, è nata grazie al figlio di Bassetti che, una notte, gli ha scritto annunciandogli di aver deciso di intraprendere il percorso per il cambio di sesso. «Mi ha scritto parole coraggiose per rassicurarmi, mi chiedeva di non avere paura, di credere in lui, di seguirlo. Usava maschile e femminile, il suo linguaggio dava segnali molto importanti». Dopo lo spaesamento iniziale Bassetti, qui al secondo documentario, ma con alle spalle una carriera come paesaggista-urbanista che lo ha portato a concepire Sacro Gra di Gianfranco Rosi, ha deciso di far tesoro dell’esperienza familiare traendone un film. I paletti non sono stati pochi, in primis la regola ferrea di non far apparire il figlio nella pellicola, anche se il suo contributo è stato fondamentale nel guidare il regista alla scoperta della piccola ma vivace comunità transgender di Bologna

In un incastro di attimi di verità, Nel mio nome racconta il quotidiano di Nico, Leo, Andrea e Raff mentre affrontano il percorso che li porterà alla transizione, con tutti i problemi emotivi, legali, sociali che la scelta comporta. Il film immerge fin da subito lo spettatore nella vita dei quattro giovani senza fornire spiegazioni. La storia si dipana pian piano, scena dopo scena, alla ricerca dell’immediatezza. Come chiarisce Nicolò Bassetti, «la scrittura del film è stata fatta tutta al montaggio, la struttura invece l’ho decisa a priori insieme a mio figlio dandoci dei principi. Volevamo stare alla larga dagli stereotipi perché è facile caderci dentro inconsapevolmente. Mio figlio è stato il mio mentore, mi ha aiutato e mi ha messo in guardia. Mi ha permesso di cercare la bellezza al di là della divisione del mondo per generi, raccontando anche la sofferenza, ma mettendola sullo sfondo. In primo piano volevo porre la dignità, la forza della vita e la felicità dei protagonisti nel riuscire a uscire da ruoli predeterminati e non scelti per trovare il loro io». 

Un lavoro lungo, complesso e delicato che ha richiesto in totale tre anni. «I primi mesi sono stati di ricerca, poi ci sono due anni di riprese e sei mesi di post-produzione di cui quattro di scrittura al montaggio. Ho girato pochissimo, 60 ore in due anni, è stata una sfida enorme. Accendevo la telecamera solo quando era estremamente necessario, quando sapevo che avevo trovato il momento. Nel mio nome è un documentario al 100%, contiene solo la vita reale».

 La regia di Nel mio nome denuncia una sobrietà dello sguardo che appartiene a Bassetti e diventa cifra stilistica del film: «Cerco sempre di lavorare a macchina fissa, su cavalletto, e di scegliere l’inquadratura al cui interno accadono più cose. L’idea è sempre quella di generare quadri. La scelta dell’inquadratura richiedeva anche settimane, osservavo i personaggi per giorni e giorni, stavo con loro, ne seguivo i movimenti, scattavo foto col cellulare e poi le studiavo. Tutto alla ricerca della bellezza». 

Nel mio nome filmIl messaggio lanciato da Nicolò Bassetti è chiaro: «Ormai il mondo binario è obsoleto, non regge, non accetta la ricchezza che è strabordante e decolonizza i corpi. Oggi i ragazzi sono più liberi di scegliere chi sono a prescindere dal ruolo che viene imposto loro alla nascita. Non è più necessario performare mascolinità e femminilità, la cui crisi ha portato ad eccessi. Da un lato la mascolinità volgare, insopportabile, prossima alla violenza che sfocia nei femminicidi, dall’altro le femministe radicalizzate su posizioni insostenibili, come J.K. Rowling, le quali sostengono che la femminilità sia un fatto biologico e non culturale. Trovo che questa sia una colossale stupidaggine».

Se proprio la Rowling, citata da Bassetti, si è inimicata mezzo mondo con le sue posizioni transfobiche, il regista ha trovato sponda per il suo lavoro in un’altra celebrità che ha reso pubblica la sua transizione poco tempo fa. Si tratta dell’attore Elliot Page che, dopo aver visto Nel mio nome, si è proposto come produttore esecutivo del documentario. Un incontro fortuito e anche un po’ magico. «Tutto merito della mia produttrice Gaia Morrione» confessa Bassetti «che è stata tenacissima e ha provato in tutti i modi a contattare lo staff di Page fino a quando non ha trovato un aggancio. La persona in questione, anche lui trans, ha visto il film, gli è piaciuto, e lo ha fatto vedere a Elliot. Dopo la visione lui mi ha mandato una mail che mi ha lasciato senza parole. Mi ha scritto “ho visto Nel mio nome, l’ho amato molto e mi sono identificato nei personaggi. Cosa posso fare io per questo film?”. Gli abbiamo risposto “scegli tu, qualunque cosa” e così si è proposto come produttore esecutivo senza volere niente in cambio».

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Caffè e Vino, viaggio tra due eccellenze italiane https://www.fabriqueducinema.it/focus/direct-to-digital/caffe-e-vino-viaggio-tra-due-eccellenze-italiane/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/direct-to-digital/caffe-e-vino-viaggio-tra-due-eccellenze-italiane/#respond Thu, 19 May 2022 08:39:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17211 I due esperti Andrej Godina (attualmente curatore della Guida del Camaleonte, la prima Guida dei Caffè e delle Torrefazioni d’Italia; ha un dottorato di ricerca in Scienza, Tecnologia ed Economia nell’Industria del Caffè)e Mauro Illiano (avvocato e giornalista pubblicista, nonché socio fondatore di Napoli Coffee Experience e degustatore professionista di caffè diplomato presso la Specialty Coffee Association) esplorano il mondo del […]

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I due esperti Andrej Godina (attualmente curatore della Guida del Camaleonte, la prima Guida dei Caffè e delle Torrefazioni d’Italia; ha un dottorato di ricerca in Scienza, Tecnologia ed Economia nell’Industria del Caffè)e Mauro Illiano (avvocato e giornalista pubblicista, nonché socio fondatore di Napoli Coffee Experience e degustatore professionista di caffè diplomato presso la Specialty Coffee Association) esplorano il mondo del vino e quello del caffè, trovando sorprendenti termini di paragone e dissonanze.  I due autori, insieme alla troupe della NaNo Film guidata dal regista Vincenzo Lamagna, hanno viaggiato in tutta Italia visitando i luoghi di culto che caratterizzano le due bevande. Roma, Firenze, il Chianti e il Lago di Como sono solo alcune delle meraviglie geografiche che hanno accolto a braccia aperte il documentario.

Una, invece, è la grande domanda da cui parte il percorso esplorativo: perché, nonostante le sue nobili origini e proprietà, il caffè è finito per diventare una bevanda svenduta e così economica? Da qui il paragone con l’altra bevanda, quella d’élite, ovvero il vino: padrone indiscusso delle tavole più eleganti, per cui si è disposti a spendere molto di più. 

90 minuti alla scoperta degli aspetti meno noti e più affascinanti del caffè e del vino, proprio attraverso i racconti della terra da cui nascono i frutti che finiranno il loro ciclo in un calice o in una tazzina. Ma il documentario di Lamagna, Godina e Illiano risulta essere attualissimo anche nella sua dimensione di indagine, cercando risposte a domande ormai fondamentali: la coltivazione dell’uva e quella della coffea possono essere sostenibili? Quanto vale il magico processo di trasformazione che rende i due frutti le bevande più amate al mondo?

Racconta il regista Vincenzo Lamagna: «Anche e soprattutto grazie agli esperti incontrati lungo questo cammino artistico (intervengono infatti voci autorevoli come quelle di Pasini, Scienza, Samaritani, Berlucchi, Mastroberardino, Esposito, Tonelli, Patacconi, Revelli, Dinella, Monteleone, Luongo, Omizzolo, Bonacchi e Tagliaferri) ho scoperto l’esistenza di un mondo molto più vasto di quello che inizialmente immaginassi. Mauro Illiano e Andrej Godina mi hanno aperto le porte di un’affascinante quanto inesplorata realtà, fatta di analisi sensoriale, approfondimenti sulla filiera e su un’auspicabile sostenibilità».

Caffè e Vino è ora disponibilesu Amazon Prime Video Italia, Google Play Italia e Apple TV Italia, distribuito da Direct to Digital

 

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Casa della Pace, omaggio a un luogo di verità e silenzio https://www.fabriqueducinema.it/focus/direct-to-digital/casa-della-pace-omaggio-a-un-luogo-di-verita-e-silenzio/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/direct-to-digital/casa-della-pace-omaggio-a-un-luogo-di-verita-e-silenzio/#respond Tue, 29 Mar 2022 13:01:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16960 Casa della Pace è un piccolo centro per ritiri, isolato tra i monti degli Appennini. Nel dargli vita il fondatore, Santi Borgni, si è ispirato al lavoro di Jiddu Krishnamurti, noto filosofo indiano vissuto nel Novecento. Negli ultimi vent’anni il centro ha ospitato moltissime persone venute per periodi di ritiro, per porsi domande sulla vita, per trovare […]

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Casa della Pace è un piccolo centro per ritiri, isolato tra i monti degli Appennini. Nel dargli vita il fondatore, Santi Borgni, si è ispirato al lavoro di Jiddu Krishnamurti, noto filosofo indiano vissuto nel Novecento. Negli ultimi vent’anni il centro ha ospitato moltissime persone venute per periodi di ritiro, per porsi domande sulla vita, per trovare una visione nuova o per vivere alcuni giorni in silenzio.

Attraverso un delicato lavoro di regia, Federico Maria Baldacci ha raccontato la realtà di Casa della Pace senza mai alterarla, ma anzi proteggendo e custodendo la verità impressa in ogni fotogramma del documentario.

“Jiddu Krishnamurti – racconta il regista – non si è mai imposto come un’autorità. Così come Santi Borgni ha edificato Casa Della Pace non per un auto soddisfacimento, bensì per lasciar germogliare quella verità che l’uomo della metropoli ha scaraventato nel suo inconscio”.

Casa della Pace è un documentario ricco di immagini di estrema bellezza, che attraverso il potere del cinema rendono omaggio al pensiero di Krishnamurti, all’opera di Borgni ma anche alla ricerca più intima dell’essere umano. Distribuito da Direct to Digital, è ora disponibile su Amazon Prime Video, Apple TV e Google Play Italia.

 

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