Daniele Luchetti Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 20 Jul 2023 12:20:27 +0000 it-IT hourly 1 Raffa, il documentario definitivo su Raffaella Carrà https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/raffa-il-documentario-definitivo-su-raffaella-carra/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/raffa-il-documentario-definitivo-su-raffaella-carra/#respond Thu, 06 Jul 2023 06:55:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18555 Adesso possiamo dirlo. Gli ultimi due anni di cinema ci hanno regalato tre pietre miliari tra i documentari biopic che sintetizzano un quadro ricchissimo sull’industria culturale italiana. Tutti doc monografici diretti da grandi registi, tutti con un taglio raffinato che sorvola il genere tenendo incollati al grande schermo anche gli spettatori meno avvezzi al documentario. […]

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Adesso possiamo dirlo. Gli ultimi due anni di cinema ci hanno regalato tre pietre miliari tra i documentari biopic che sintetizzano un quadro ricchissimo sull’industria culturale italiana. Tutti doc monografici diretti da grandi registi, tutti con un taglio raffinato che sorvola il genere tenendo incollati al grande schermo anche gli spettatori meno avvezzi al documentario. Sono Ennio di Giuseppe Tornatore, sul genio e la composizione di Ennio Morricone; Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone, sul comico e cineasta Massimo Troisi; e adesso Raffa di Daniele Luchetti, sull’artista e autrice Raffaella Carrà, con la vita e l’ascesa di Raffaella Pelloni.   

Il regista romano ha deciso di affrontare questa sfida in maniera cronologica, così con le sue poderose tre ore di montaggio finale assistiamo agli esordi partendo dalla formazione della giovane Raffaella fino ed oltre il successo, cioè il passaggio all’icona. Migliaia di ore di contributi sono state visionate dalla squadra di Luchetti e oltre al repertorio televisivo e cinematografico sulla Carrà si susseguono immagini mai viste dalle tournée estere e dalla vita privata. Dolcissima punteggiatura finzionale di Luchetti quella di una bimba che interpreta la giovane Raffella in un vecchio cinema di Bologna, tra sogni ritmati in bianco e nero e futuro radioso. A testimoniarne l’inossidabile dirompenza artistica non solo le condivisioni, gli aneddoti e i pareri di attrici come Loles Leon e Loretta Goggi, registi come Emanuele Crialese e Marco Bellocchio, musicisti come Tiziano Ferro e Bob Sinclair, ma anche showman come Fiorello e Renzo Arbore. Solo per citare alcuni nomi di una lunghissima lista tra autori televisivi, produttori, ballerini, coreografi, costumisti, vecchie fiamme romagnole e parenti. Uno su tutti il nipote Matteo Pelloni. Ognuno ad aggiungere la propria tessera a un mosaico di oltre cinquant’anni di carriera.

L’immagine che Luchetti sottolinea è doppia. Da una parte la Carrà, il nome d’arte che l’ha resa famosa, l’artista che provava per ore, che dimagriva due chili a ogni spettacolo e che ha saputo reinventarsi in Italia quanto in Spagna, nel Sudamerica e addirittura in Fininvest. Quella delle sfide, alcune non vinte, ma molte conquistate, perfezionista e fiduciosa nei suoi collaboratori e nei corpi di ballo. L’artista che ha segnato la televisione insieme a Gianni Boncompagni e Sergio Japino. Quella che ha beffato la censura Rai negli anni di Canzonissima e che mostrando il suo corpo in modo rivoluzionario iniziò a entrare anche nei cuori della proto-comunità LGBTQ+ combattendo pregiudizi e moralismi parlando di amore libero attraverso il Tuca Tuca e tante altre canzoni e interpretazioni come Luca e Pedro. A proposito, le rielaborazioni e le musiche originali del film sono di Theo Teardo, che ha fatto un pregevolissimo lavoro rievocativo sulle melodie della Carrà. Carrà che fu anche l’artista a deporre simbolicamente due dittature, nella sua insospettabile scia di paillettes. Si trattava di Franco in Spagna nel 1975 e Pinochet in Cile nel 1990, affiancando il proprio successo esplosivo in questi paesi con la morte di entrambe quelle epoche oscure.

Dall’altra c’è Raffaella Pelloni, donna cresciuta sulle sponde adriatiche che si è sacrificata in toto per dare spazio alla Carrà. Pelloni come donna di famiglia, azdora romagnola, spirito matriarcale legatissima ai figli del fratello quanto alla madre e alla nonna, quella donna che le trasmise il sacro fuoco dell’arte, da bambina. È un ottimo fil rouge questo contrasto tra Carrà e Pelloni, tra artista e donna, non solo chiave narrativa, portandoci quasi a indagare su Raffaella attraverso le voci commosse, come quella di Ferro, o incantate come quella di Crialese, su chi fosse la donna dal caschetto biondo più famoso d’Europa. Spesso torna attraverso le sue tante interviste un desiderio di maternità mai appagato, forse motore e freno della sua esistenza più intima.

Raffa di Daniele Luchetti
Raffaella Carrà con Gianni Boncompagni.

Forse più di tutti ha carpito l’essenza della Carrà Caterina Rita, autrice, biografa e storica collaboratrice di Raffaella. Sono le sue riflessioni a costituire le migliori sintesi tra le testimonianze, ma segnaliamo anche Enzo Paolo Turchi, suo primo ballerino dal bianco e nero profondamente legato a lei, e poi l’autore Salvo Guercio, anche tra le firme della sceneggiatura. La Carrà non è stata un semplice personaggio televisivo ma un’icona investita da un successo quasi planetario. Rappresenta un fenomeno pop unico, sociologico se guardiamo al mito che ha lasciato in Sudamerica, e il lavoro certosino di Luchetti le rende un giusto omaggio. Magari arretrando di fronte alla vendita di lacrime nei primissimi piani di Pronto Raffaella negli anni ’80 o davanti allo sfruttamento Auditel delle famiglie separate in Carramba che sorpresa nei ’90. Ma quale icona non ha lati oscuri? E a proposito di ombre e luci, c’è un momento durante uno scroscio di applausi in cui la Carrà è sudata, felicemente stravolta e avvolta da un mantello rosso di paillettes che ricorda Elvis.

Raffa – Il ritratto inedito di un’icona senza tempo esce al cinema oggi 6 luglio, per festeggiare i suoi 80 anni che avrebbe compiuto il 18 giugno ma anche a due anni dalla sua scomparsa. Prodotta da Freemantle e distribuita al cinema da Nexo Digital come evento, la sua biografia sarà nelle sale fino al 12 luglio, ed essendo co-prodotta da Disney+ avrà un’ipotizzabile uscita su piattaforma verso fine anno, ma in forma di mini-serie in tre parti, già nettamente distinte nel film. L’ampio ventaglio di sala sicuramente permetterà altre finestre-evento in caso di un successo che è già abbastanza prevedibile. La Carrà fu rifiutata dal grande cinema, pur essendo comparsa in tante pellicole da giovanissima, e anche di questo parla il suo film, di una rinascita continua. Questo doc è l’occasione per ripercorrere la storia di una donna, dell’icona che ha costruito, della musica, della cultura nazional popolare italiana e degli effetti del successo, delle canzoni e delle musiche che ancora oggi animano le nostre feste e dell’affetto tra il pubblico e una star. Tutto, per una volta, non sul piccolo, ma sul grande schermo.  

 

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Maddalena Stornaiuolo, che racconta una Napoli senza sconti https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maddalena-stornaiuolo-che-racconta-una-napoli-senza-sconti/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/maddalena-stornaiuolo-che-racconta-una-napoli-senza-sconti/#respond Mon, 19 Sep 2022 09:00:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17694 Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da […]

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Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da vivere, un bambino vestito da Hulk che non ha la forza di difendere nessuno.

Maddalena è attrice, acting-coach, regista, imprenditrice e fondatrice della compagnia teatrale Vodisca Teatro e della scuola di recitazione La scugnizzeria. Con Sufficiente, il suo primo cortometraggio diretto insieme ad Antonio Ruocco, ha ricevuto il Premio Speciale ai Nastri d’Argento 2020 ed è in giro per festival con il suo secondo lavoro, Coriandoli (2021). La forza di questi shortfilm sta nella sottrazione e nello sguardo onesto e partecipato, nella regia tesa al mettere al centro i giovani protagonisti e le loro storie raccontate in prima persona, senza sconti. Solida e instancabile, Maddalena ha cambiato il volto di un territorio dimenticato da tutti, compiendo un lavoro enorme di recupero e riqualificazione del tessuto sociale.

La scugnizzeria non è solo una scuola ma un progetto votato all’inclusione, aperto al territorio e a persone di tutte le età, alle quali offri numerose opportunità a prezzi popolari. Hai portato il cinema sul territorio e i ragazzi via dalla strada.

La scugnizzeria è un progetto che è nato solamente cinque anni fa, ma è un sogno che coltivavamo da tempo, solo che tra un lavoro e l’altro era veramente complicato trovare uno spazio che potesse ospitare una grande quantità di ragazzi. Poi, quando sono rimasta incinta di mia figlia, mi sono dovuta fermare, non potevo essere sui set né tanto meno fare spettacoli a teatro. Allora mi sono detta che era il momento giusto per creare La scugnizzeria. Ci siamo messi alla ricerca degli spazi e li abbiamo trovati dove speravamo. Sono arrivati tantissimi ragazzi, all’inizio da Scampia, da Melito, dalla periferia limitrofa e poi da ogni punto della città. Questa è stata una vittoria, non volevamo solo avvicinare i ragazzi del quartiere ma creare una mescolanza, delle connessioni.

Maddalena Stornaiuolo Scampia
Le Vele di Scampia.

Non parliamo solo di corsi di recitazione ma anche di produzione, da qui ha preso forma Sufficiente. Gaetano è un pluriripetente che si presenta agli esami di terza media e aspira alla licenza con un voto sufficiente, qualcosa che significhi “abbastanza”. È un corto sul pregiudizio, sulla società escludente, sugli adulti che non tutelano e sui figli che pagano per gli errori di tutti. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?

Siamo partiti con l’idea di raccontare una situazione che conoscevamo da tanto tempo, perché purtroppo la vicenda – per quanto romanzata – prende spunto da una storia vera, ma volevamo raccontarla da una prospettiva differente. La criminalità è spesso narrata da un solo punto di vista, invece mi interessava dar voce al ragazzo che subisce le conseguenze delle scelte non sue. Volevo che si sentisse preso in considerazione, quando a casa e a scuola questo non era accaduto. Credo che il cinema serva anche a dare voce a chi non ha la possibilità di farsi ascoltare.

Coriandoli è un’altra storia vera, quella di Speranzella che legge sul balcone per non sentire la madre che accoglie in casa i clienti. Una bambina che vede nei libri una via di fuga, che ha paura del rumore delle zip e non mangia perché non vuole che le cresca il seno. Totoriello è vestito da Hulk e vorrebbe avere i superpoteri per difenderla, ma è terrorizzato. Eppure sono a una festa con le giostre, vestiti da Carnevale: hai scelto questa ambientazione per contrasto?

Sì, esatto. L’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere età felici, ricche di scoperte, invece questi due bambini si trovano a fare i conti con un presente feroce e con un futuro incerto, pieno d’ombre. Mi premeva raccontare un’infanzia negata da situazioni di criminalità: non era quello che era accaduto a me ma, se ci penso, non ho ricordi di me in cortile o al parco, non potevo giocare fuori perché i miei avevano troppa paura. Tutta la mia infanzia è trascorsa tra il balcone e le mura domestiche, le uscite erano altrove, non nel rione. Volevo che questo risuonasse nel personaggio di Speranzella, questa chiusura nelle mura di cemento, in quel balcone lunghissimo che da piccola ti sembra sconfinato e invece non è che uno spazio troppo limitato.

Maddalena Stornaiuolo
Maddalena Stornaiuolo.

Hai recitato in Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, un esempio di teatro e cinema civile, che racconta la storia vera di una ragazza di ventidue anni uccisa dalla camorra nel 2004, nel quartiere di Secondigliano. Cosa ti sei portata dietro da questa esperienza?

Tutto è iniziato durante la prima stagione di Gomorra, quando in parallelo alla messa in onda passavano su Sky Atlantic dei cortometraggi: uno di questi era Centoquattordici diretto da Massimiliano Pacifico che raccontava la storia di Gelsomina Verde, vittima numero centoquattordici dall’inizio della faida di Scampia. In quel corto interpretavo l’amica che raccontava la storia, ma già alla fine delle riprese sentivamo l’esigenza di approfondire quella vicenda: così è nato il lungometraggio dove avevo il ruolo di Gelsomina. Recitare alcune scene mi faceva molto male, a volte la notte non riuscivo a prendere sonno sapendo che all’indomani avrei dovuto interpretarle, ma questo mi ha aiutata a dare il taglio giusto. Si è parlato molto di lei, anche sui giornali e in TV, non sempre in maniera corretta. Poterla raccontare con l’aiuto del fratello, Francesco Verde, è stato il nostro piccolo dono alla memoria di questa ragazza morta in modo feroce. È stato un riscatto, se così si può dire, meritava di essere raccontata nel modo più onesto possibile.

Hai lavorato come acting-coach nella terza stagione della serie L’amica geniale, diretta da Daniele Luchetti, e poi sul set de La vita bugiarda degli adulti, la serie prodotta da Netflix Italia che vede alla regia Edoardo De Angelis. Come è stato lavorare nella serialità italiana?

Lavorare a L’amica geniale è stato non stupendo, di più, qualcosa che avrei desiderato che non finisse mai. Guido de Laurentiis, il produttore, è una delle persone più generose e disponibili che io abbia mia conosciuto, Daniele Luchetti, oltre ad essere un regista strepitoso, è una persona dall’anima buono, ci siamo fatti un sacco di risate e mi ha insegnato tantissime cose. Nella vita bugiarda degli adulti invece sono la acting coach personale di Valeria Golino, l’avevo conosciuta sul set di Fortuna di Nicolangelo Gelormini. Già all’epoca era nata una grande sintonia tra noi, sono davvero contenta di lavorare con lei e di poter assistere al suo processo creativo, è stato molto facile “metterle il napoletano in bocca”. Poi ho scoperto che De Angelis è un regista rock, è adorabile il modo in cui dirige gli attori e riesce a tenere il set. Non ci avevo mai collaborato, è un lusso lavorare con persone con le quali ti trovi così bene, spero di replicare.

Dopo il successo di entrambi i tuoi corti, ti senti pronta a esordire con un lungometraggio?

Per quanto riguarda il lungometraggio siamo in fase di sceneggiatura e abbiamo già degli accordi di produzione. Amo le sfide e questa è forse la sfida più grande, non vedo l’ora di buttarmici a capofitto ma, al momento, sono impegnata come attrice sul set di Mare fuori, sono il nuovo agente di polizia del PM. C’è bisogno di tempo, in questi casi: il mio motto è “senza fretta ma senza sosta” per cui piano piano le cose arrivano, si fanno i passi giusti e nel frattempo si costruisce quello che si vuole.

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Massimo Popolizio, “non chiamatemi Maestro” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/massimo-popolizio-non-chiamatemi-maestro/ Fri, 06 Aug 2021 10:40:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15919 Massimo Popolizio l’ho visto la prima volta a 15 anni in Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti: è stato il primo film di cui ho scritto davvero, ragionando sulla forza che un ruolo da non protagonista può portare alla storia. L’ultima volta, invece, sono andata a guardarlo in scena all’Argentina con Un nemico […]

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Massimo Popolizio l’ho visto la prima volta a 15 anni in Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti: è stato il primo film di cui ho scritto davvero, ragionando sulla forza che un ruolo da non protagonista può portare alla storia. L’ultima volta, invece, sono andata a guardarlo in scena all’Argentina con Un nemico del popolo. «Adesso sono allo Strehler, ci sono 34 gradi. Milano che sembra Africa». Sono quarant’anni che fa l’attore e a pensarci bene fa impressione, ma non chiamatelo Maestro.

Mi chiedo se questo mestiere ancora ti agita oppure se prendi un caffè e vai in scena.
Anche 75 caffè. Non esiste una regola per andare in scena, è solo la retorica degli attori. Però che te devo di’, io sono sempre più ansioso. Vado a letto presto anche quando faccio cinema. Per me è una vita quasi da atleti o da monaci, una vita di sacrifici. E l’ansia non va mica via, cresce con gli anni mentre diventi sempre più perfezionista. Quando sei ragazzo non ti accorgi di cosa stai facendo.

E tu da ragazzo hai fatto cose che noi umani non possiamo nemmeno immaginare.
Cose che oggi non si potrebbe neanche più pensare di fare. Oh, io ho fatto 35 spettacoli con Ronconi: so’ un sopravvissuto! Erano gli spettacoli europei e mondiali più grossi di quel momento, duravano anche 8 ore con 40 attori in scena, appesi a venti metri di altezza, immersi nell’acqua, sulle gru, di tutto.

Ronconi ti ha scelto mentre studiavi all’Accademia Silvio D’Amico?
Sì, sono entrato in Accademia ma mi sono fermato al secondo anno, quando Ronconi ha visto uno stage che abbiamo fatto e ha iniziato a chiamarmi. Da lì in poi ho lavorato con quasi tutti i registi viventi.

Come funzionava il teatro negli anni Ottanta? Ti cercavano loro, avevi un agente, facevi provini?
I tempi erano diversi. Oggi le compagnie sono formate da gente che fa l’Amleto dopo aver fatto il nulla. Sotto la lente d’ingrandimento della mia epoca, invece, ce ne finivano due o tre usciti dall’Accademia. Quindi eravamo noi ad essere richiesti in tutte le grandi produzioni, direttamente con la Melato, la Guarnieri, l’Orsini. Voglio sottolinearlo: Ronconi e gli altri che ho incontrato non avevano quel tipo di aurea intellettuale. Erano estremamente pratici. Il problema era che si lavorava tanto. E intendo provare una scena per ore, giorni, al massimo delle tue possibilità. Il ruolo da protagonista te lo dovevi guadagnare con disciplina, senza abbandonarti mai. «Io so’ attore, so’ il cinema e mo faccio come mi pare» non esisteva.

È vero che prima di iniziare a guadagnare vendevi pentole?
Vendevo pentole a vapore con un mio amico di scuola che ora viene sempre a trovarmi a teatro: «A Ma’, so’ quarant’anni che se conoscemo!». Ma ho venduto pure i profumi: eravamo quattro figli con uno stipendio solo. La prima cosa che dovevo fare era andare via da casa e rendermi indipendente, e la fortuna è stata intercettare un mondo artistico.

E invece al cinema volevi arrivarci?
No, non ci pensavo al cinema. Per me è sempre stato una possibilità di guadagno molto più forte del teatro, ma non c’è mai stato nulla che valesse la pena quanto il teatro. Le persone che io ho conosciuto in teatro mi hanno insegnato a vivere, cosa leggere, come vestirmi, come arredare casa, il gusto chic. Personaggi simili erano presenti anche in quel cinema che io ho sfiorato tramite Ronconi, come i fratelli Taviani, Rosi, Bertolucci. L’aristocrazia cinematografica e culturale.

«Ma io vengo dal teatro»: è diventato un cliché più che una garanzia. Me lo spieghi tu, che fai teatro davvero?
Quando avevo trent’anni io, mica lo potevo dire che facevo teatro. Meno che mai dovevo dire che lavoravo con Ronconi, se facevo un provino per il cinema. Era una bandiera d’espulsione, ci sono voluti vent’anni perché le cose cambiassero. Oggi Favino e Zingaretti possono dirlo, che vengono dal teatro. Ma prima nel cinema, dal teatro, non ce veniva nessuno.

Massimo Popolizio
Massimo Popolizio, foto di Stefano Cioffi.

Ma perché non vi volevano?
C’era questa credenza che non fossimo adatti a fare il cinema. «Teatro?» ti dicevano, «Nooo, esagerato!». Poi non è stato così, anzi, come vedi adesso è una stella da sfoggiare.

Tu come attore hai accusato il passaggio dal teatro al cinema?
Io non sapevo farlo il cinema, avevo paura della macchina da presa. Non concepivo che qualcuno mi guardasse da vicino, che un occhio mi spiasse più intimamente. Poi mi sono sbloccato, anche guardando gli altri. È sempre così, o te lo insegnano o lo rubi: è l’unico modo per recitare veramente.

Quale critiche ricevevi?
«Fai meno». E c’avevano ragione. Per esempio non avevo il controllo degli occhi in relazione alla macchina da presa. Non sono mai stato troppo fotogenico, mentre in scena so esattamente dove mi trovo nello spazio, come muoverlo, cosa sono, che mi sta succedendo. Lì il primo piano lo decido io, so io come attirare l’attenzione.

Dopo tutti questi anni, per te qual è la più grande differenza tra palco e set?
Fondamentalmente una: il teatro lo devi fare tutte le sere, sempre la stessa cosa. E ti deve andare di farla, in qualsiasi condizione sei. Hai bevuto, hai mangiato, non hai digerito, hai subìto un lutto, hai litigato. Tu devi andare in scena. E non sempre vicino casa tua, magari stai dormendo in un altro letto.

E quando hai una giornata storta?
Ci vai lo stesso. Anche quando è morto mio papà sono andato in scena. In situazioni estreme, decine di volte con la febbre. Non puoi abbandonare uno spettacolo, da te dipendono altre quaranta persone. Nel cinema sei sempre in mezzo a cento persone, sei contento, ti portano l’ombrello sul set, se hai bisogno di qualcosa arrivano tutti. Ma alla fine sei completamente solo.

Mio fratello è figlio unico è stato un film importante per te?
Quello è stato un ruolo importante e uno dei film più belli di Luchetti. Ho questo ricordo di Elio e Scamarcio che giocavano sul set, si rincorrevano, si azzuffavano ed era tutto molto spensierato. Quel cappello e certi modi del mio personaggio erano gli stessi di mio padre. Più vado avanti negli anni, più se faccio un padre penso al mio. Me lo dice sempre mia sorella e questo mi fa molto riflettere.

Il film di Luchetti ha rappresentato il tuo salto in serie A anche nel cinema, insieme a Romanzo criminale di Placido.
Michele veniva sempre a teatro, anche lui ha lavorato con Ronconi. Una sera siamo andati a mangiare in una trattoria a Prati. «Ammazza, c’hai le basette lunghe» mi ha detto lui, perché ero in scena con i Tradimenti di Pinter. «Ma puoi gira’? Sei a Roma? Domani?». Romanzo per me è nato così, e il cinema migliore è quello cotto e mangiato.

Tu sei uno dei pochi a cui è stato concesso, nell’arco di un paio d’anni, di saltare da un estremo all’altro: hai interpretato prima Falcone e poi Mussolini.
Sì, ma Mussolini non mi ha portato altro lavoro. C’è stato un periodo di blocco. Era un personaggio molto caratterizzante e contraddittorio, ma non abbastanza da smuovere tutta l’intellighenzia italiana. Non gliene fregava niente, insomma.

Parlando del tuo lavoro di doppiatore, una volta hai detto che la voce è come una lasagna. Bizzarro.
La voce è fatta di strati e di ciò che ti è successo nella vita: ogni strato è un’era diversa. Hai presente i piedi di un ballerino di cinquant’anni? Sono massacrati, bellissimi. Dal tono della voce capisci come sta una persona. La bella voce in sé? Non esiste davvero.

Sei con un piede in ogni settore dello spettacolo: teatro, cinema, televisione, doppiaggio. Qual è l’ambiente più competitivo?
Credo sia il cinema. Spesso non sei dentro un film solo perché sei bravo. Ci stai perché servi, hai vinto un Nastro, hai vinto un David, hai i soldi, fai parte di un pacchetto produttivo. Fanno finta tutti de volesse bene ma credo non sia così.

E in teatro si vogliono tutti bene?
Diciamo che l’osso attorno al quale tutti si azzannano è molto più esile. Ci sono meno soldi e quindi l’osso fa un po’ ridere. Tu puoi fare un protagonista pazzesco a teatro ma tanto non lo sa nessuno.

Tra l’altro tu hai vinto tre Nastri. A te importa dei premi?
Quando servono. E nel cinema servono perché aumenti la paga. Un premio fa sempre più piacere prenderlo che non prenderlo, sia chiaro, ma se vinci un David significa soprattutto che lavori per i prossimi cinque anni.

Adesso per i giovani sei un «maestro». Che rapporto hai con loro?
Per me l’età non è un passaporto. Oggi c’è il mito della giovinezza, «Noi giovani…». Come se tutto ciò che ha preceduto loro fosse da abbattere. Una volta, a una riunione di teatri importanti, un ragazzo battagliava: «Perché noi under 35…», e un altro s’è alzato e gli ha detto: «Oh, guarda che poi passa». Fra tre anni non sei più under 35. Parlare di barriere d’età nell’arte non ha senso. Io ho lavorato con Ronconi che era un padre, ma ho avuto tanti zii di tutte le età. Perciò quando insegno ai ragazzi glielo dico sempre: «Non siate rassegnati. Questo mestiere è una cura contro la depressione».

Ti immagini sul palco fino all’ultimo giorno della tua vita?
La morte mi ha sempre fatto paura. Quando sono mancati i miei genitori ho faticato ad andarli a trovare in ospedale, quando si ammalano i miei amici allontano l’idea il più possibile. Ma d’altronde chi fa l’attore lavora contro l’idea di morire. Non perché rimani in eterno su un video, ma perché hai sempre da fare e la cosa più importante a cui devi pensare è il tuo ruolo. Ma con le bruttezze devi farci i conti, prima o poi: con la vecchiaia, con i lutti, con gli amori finiti, con gli amori che iniziano. Tutto questo entra nel lavoro e rimani sgomento: «Ma cazzo, io finora ho fatto il teatro e il cinema, ero così contento». E invece la vita ti insegue e tu puoi solo dire: «Speriamo che ci sia un altro film che parte».

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Le Precensioni https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni/#respond Thu, 12 Apr 2018 15:20:44 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10031 Parte da oggi la rubrica settimanale “Le Precensioni”: umoristica, sarcastica e anticonvenzionale. Basata solo da un’ipotetica preimpressione… la recensione da bar che ci mancava! A cura di Alabama e Chicken Broccoli oggi su Io sono Tempesta!  

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Parte da oggi la rubrica settimanale “Le Precensioni”: umoristica, sarcastica e anticonvenzionale. Basata solo da un’ipotetica preimpressione… la recensione da bar che ci mancava! A cura di Alabama e Chicken Broccoli oggi su Io sono Tempesta!

 

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