Daniele Coluccini Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 18 Jan 2022 08:43:36 +0000 it-IT hourly 1 C’è un soffio di vita soltanto, storia della più longeva transessuale italiana https://www.fabriqueducinema.it/focus/ce-un-soffio-di-vita-soltanto-storia-della-piu-longeva-transessuale-italiana/ Mon, 10 Jan 2022 08:44:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16612 Il nuovo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un documentario. C’è un soffio di vita soltanto è un ritratto sui generis di Lucy Salani, la più longeva transessuale italiana, cresciuta sotto il fascismo, sopravvissuta a Dachau, rigettata dalla famiglia una volta di ritorno in Italia, passata dai palcoscenici a un laboratorio di tappezzeria, […]

L'articolo C’è un soffio di vita soltanto, storia della più longeva transessuale italiana proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Il nuovo film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini è un documentario. C’è un soffio di vita soltanto è un ritratto sui generis di Lucy Salani, la più longeva transessuale italiana, cresciuta sotto il fascismo, sopravvissuta a Dachau, rigettata dalla famiglia una volta di ritorno in Italia, passata dai palcoscenici a un laboratorio di tappezzeria, dal catechismo alla prostituzione, dall’essere madre all’essere nonna d’adozione, fino a vedere avvicinarsi il secolo di vita in mezzo alla più grande epidemia della modernità.

Il percorso produttivo del film inizia poco prima dello scoppio del contagio (ironia della sorte: il loro lungometraggio precedente si chiama proprio Il contagio, riprendendo il titolo  dell’omonimo romanzo di Walter Siti al quale è ispirato). Le visite e gli incontri con Lucy nel suo appartamento bolognese seguitano mentre restrizioni e confinamenti imperversano tutto intorno. Intanto, da piccolo film indipendente, il progetto cresce e Botrugno e Coluccini alzano il tiro, altre forze si aggiungono per rendere possibili i nuovi obiettivi. Poi saltano le celebrazioni che avrebbero previsto anche la partecipazione di Lucy Salani a Dachau – unica sortita fuori dalla microgalassia casalinga – ma i due registi insieme alla loro protagonista affrontano comunque un viaggio avventuroso e nel settembre del 2020 registrano le immagini che chiudono il film: la vecchia donna, sola, attraversa i viali di quello che fu uno dei più efficienti campi di sterminio nazisti, fronteggiando i luoghi dei suoi giorni più bui e quasi contrapponendo la sua vita resistente all’algida e silenziosa immobilità di quelle stanze, di quelle mura, di quei cancelli.

Nella sua forma essenziale il film aggiunge qualche incontro casalingo, la presenza del coinquilino nipote adottivo di Lucy, e rare, brevi, remote immagini d’archivio in bianco e nero che scandiscono il corpo del lungometraggio come squarci aperti su un universo alieno, indifferente e lontano. Un trovata originariamente ingenua – un modo per imprimere un movimento ulteriore alla testimonianza della protagonista proiettandola sullo sfondo di allusioni alla sua passione per la fantascienza, e forse anche alle sue effettive e concretissime avventure nello spazio e nel tempo – che si trasforma subito in scelta oculata, la costruzione immediata di una dimensione aggiuntiva del film: l’invenzione di un orizzonte epico e tragico sul quale si stagliano più nitide e trasfigurate da una inattesa messa in proporzione le parole della protagonista.

Matteo Botrugno e Daniele Coluccini
Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.

Le difficoltà materiali e logistiche in mezzo alle quali il film è stato realizzato hanno lasciato tracce: il duo di registi romani incappa qua e là in qualche inciampo, e nonostante, dopo l’incipit suggestivo, il film sembri volersi appoggiare alle rassicuranti e temibili ritmiche dei dialoghi-intervista, una certa tensione e una chiara intensità spingono presto fuori dal quadro le tiritere del birignao documentaristico nostrano, lasciando posto a uno sviluppo felicemente eterodosso, a un quotidiano e dimesso splendore. Un luogo delle immagini in cui a Lucy è concesso esprimere la propria selvaggia e sofferta libertà accostando filastrocche e versi poetici al racconto disgustato della violenza subita e di quella testimoniata.

Le eclissi solari e i pennacchi che si elevano dai bordi della stella infuocata, i fumi e le fiamme di vulcani in eruzione, la crescita di un embrione diventano il controcampo alla dimensione claustrale, intima, riparata e quasi segregata nella quale sembra Lucy si muova e parli, dentro i ricorrenti, insistiti e affettuosi primi piani che costituiscono la struttura portante del film. Così forse C’è un soffio di vita soltanto, oltre a raccogliere in una forma laconica ma coerentemente fuori canone la testimonianza preziosa d’un’esistenza che va dissolvendosi, diventa uno dei migliori film sulla nuova condizione nella quale la pandemia ci costringe tutti: in un racconto intimo e riflessivo il presente e il passato sembrano toccarsi, il personale lievita e si proietta nell’universale, il corpo si espande fino a occupare ogni possibile orizzonte, tanto da spingere la mente verso l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.

Dopo la presentazione in anteprima mondiale al Torino Film Festival, in sala da oggi e poi in onda su Sky e sulla Rai.

 

L'articolo C’è un soffio di vita soltanto, storia della più longeva transessuale italiana proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
“Il contagio” di Botrugno e Coluccini https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/il-contagio-di-botrugnocoluccini/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/il-contagio-di-botrugnocoluccini/#respond Sun, 03 Sep 2017 12:33:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9167 Con Il contagio Matteo Botrugno e Daniele Coluccini tornano a Venezia – alle Giornate degli Autori – sette anni dopo il memorabile esordio Et in terra pax (prodotto grazie all’intervento paideutico di Gianluca Arcopinto). Per l’opera seconda – punto cruciale nella carriera di un regista – i due confermano la direzione intrapresa con il film […]

L'articolo “Il contagio” di Botrugno e Coluccini proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Con Il contagio Matteo Botrugno e Daniele Coluccini tornano a Venezia – alle Giornate degli Autori – sette anni dopo il memorabile esordio Et in terra pax (prodotto grazie all’intervento paideutico di Gianluca Arcopinto).

Per l’opera seconda – punto cruciale nella carriera di un regista – i due confermano la direzione intrapresa con il film precedente, alzando coraggiosamente il tiro e ingrandendo la dimensione delle aspirazioni: la base è l’adattamento dell’omonimo imponente romanzo di Walter Siti, dal quale il film trae direttamente l’idea di un racconto pendolare che mette orizzontalmente in comunicazione il centro e la periferia della capitale; l’orizzonte è quello di una nuova tragedia urbana che tiene insieme lirismo e verismo, narrazione corale e consapevolezza politica.

una scena dal fil "Il Contagio"

Il film cerca di trovare una forma audiovisiva per il libro che traduca sullo schermo – ritrovandone l’essenza, senza imitarne pedissequamente la struttura – il congegno verbale complesso e stratificato della pagina scritta. Anche solo per questo Il contagio è già di per sé un caso raro, quasi eccezionale nel panorama del cinema italiano, condensando gli sforzi di due giovani autori che provano a raccontare il presente, lontano dalla tentazione di compiacere il pubblico, seguendo invece la difficile strada di una ricerca autentica.

Così nell’incipit prevale il gioco di esplorazione e descrizione del microcosmo costituito da un piccolo pezzo del più vasto continente della borgata romana, passando in rassegna i volti, i gesti, le voci, i dialetti e i linguaggi, la geografia caotica di un nuovo deserto urbano. Una carrellata di personaggi e situazioni che gradualmente rallenta, per riordinarsi e riconfigurarsi presto – prima della metà – in un più compatto e circoscritto montaggio di storie che scorrono vicine, fino a un finale ricongiungimento narrativo che è anche ricapitolazione di anime e d’esistenze.

una scena dal film "Il Contagio"

L’impianto del racconto trova coerente rispecchiamento nello stile visivo – frutto anche del lavoro a tre con Davide Manca, già responsabile della fotografia del film precedente: le inquadrature e i movimenti di macchina che si alternano e articolano tra loro in serie ordinate quasi musicalmente; la scrittura cromatica e luministica che dalle tinte chiare e calde dell’inizio degrada, come in un precipizio dell’occhio e dell’emozione, ai colori freddi e cupi che connotano e definiscono il passaggio dalla periferia al centro della città, nella seconda parte del film, la più oscura. Quasi che l’intenzione all’origine del progetto fosse quella di far crescere lo stile proprio dei due registi in una forma matura e canonica, insinuando nell’estetica corrente del cinema italiano di questi anni gli elementi fondamentali della grammatica formale dei due romani, Botrugno e Coluccini selezionano e montano insieme molti, forse troppi materiali senza riuscire sempre a farli brillare, a costruirli in un circuito che produca uno scarto di senso.

Il contagio funziona a fasi alterne, qua e là assortendo punti d’inerzia e momenti di sintesi eloquente, ma cerca una via originale e alternativa zigzagando tra generi e clichè, evitando le secche del film denuncia tanto quanto la sterile inerzia del bozzettismo, e conferma in fondo la verità del lavoro di due registi ancora orgogliosamente in cammino.

L'articolo “Il contagio” di Botrugno e Coluccini proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/il-contagio-di-botrugnocoluccini/feed/ 0