coronavirus Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 01 Apr 2020 09:01:09 +0000 it-IT hourly 1 Instagram interviews: Giorgio Pasotti https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/instagram-interviews-giorgio-pasotti/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/instagram-interviews-giorgio-pasotti/#respond Wed, 01 Apr 2020 09:01:09 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13733 Quando chiamiamo Giorgio Pasotti, bergamasco, la situazione per il picco di contagi da Coronavirus in città è nel momento peggiore: Giorgio è preoccupato per la famiglia e gli amici che vivono lì, e nel suo Instagram ha inserito un numero a cui poter fare una donazione per l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in prima […]

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Quando chiamiamo Giorgio Pasotti, bergamasco, la situazione per il picco di contagi da Coronavirus in città è nel momento peggiore: Giorgio è preoccupato per la famiglia e gli amici che vivono lì, e nel suo Instagram ha inserito un numero a cui poter fare una donazione per l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in prima linea nell’emergenza. Ma, come per le altre interviste di queste storie Instragram #TuttiacasaconFabrique, il nostro obiettivo è soprattutto quello di parlare di cinema con attori e registi, facendoci raccontare aneddoti ed episodi della loro carriera, proprio per guardare oltre a questo momento così difficile.

F: Giorgio, cominciamo con un paese importante per te: la Cina.

GP: Il mio rapporto con la Cina nasce parecchi anni fa. Sono partito il 12 dicembre del 1992, tre anni dopo la rivoluzione studentesca di Tienanmen. Era una Cina drasticamente diversa da quella di oggi. Io ho avuto la fortuna di poter pensare di fare un’esperienza unica e irripetibile, perché ho potuto vedere il processo di trasformazione di quelli che erano i confini con l’occidente. Prima di allora gli stessi studenti cinesi ai tempi avevano poco chiaro cosa ci fosse al di fuori dei loro confini.

F: Cosa studiavi?

GP: Medicina. Volevo diventare medico sportivo. Mio padre lavora nell’antiquariato, e casualmente era venuto a conoscenza di un’università a Pechino tra le migliori in Cina. Io avevo appena finito il servizio militare, era ottobre. All’epoca non ci si poteva più iscrivere all’università in quel periodo, così ho passato i due mesi successivi senza sapere con certezza cosa fare del mio futuro. Poi, sentendo di quest’università, decisi di fare la valigia e partire.

F: Ci vuole molto coraggio (o follia).

GP: Avevo diciannove anni, a quell’età non ci si rende davvero conto di quello che si fa.

F: Parli cinese?

GP: Si, anche se non lo parlo più bene come prima. L’ho imparato lì, perché non sono partito conoscendolo prima. La Cina all’epoca ti accoglieva in uno scenario completamente diverso. Non c’era nessuna scritta in inglese, e nessuno, o quasi, parlava inglese. Arrivo all’università faccio l’esame d’ammissione, e mi dicono che posso rimanere. La stanza in cui alloggiavo era di circa due metri per quattro, e la condividevo con un ragazzo del Gabon. Avevamo solo una brandina e uno scrittoio a testa distanti un metro l’uno dall’altro.

F: Quindi l’arrivo non è stato dei più positivi.

GP: È stato abbastanza scioccante. Non era certo una prigionia, ma il regolamento comunista all’epoca era molto restrittivo. Ci si alzava alle 5.30 del mattino, alle 6 c’era l’ora di educazione fisica nazional-popolare. Chiunque doveva mettersi in fila e l’istruttore dava gli esercizi ad ogni singola persona. Il jet-lag non aiutava, e anche se mi svegliavo estremamente presto trovavo già alle 5 persone che facevano attività.

F: Quand’è che hai scoperto la tua passione per la recitazione? Lì in Cina?

GP: Non ho mai sognato di fare l’attore, non ho mai avuto una formazione recitativa classica. Mentre ero in Cina coltivavo parallelamente allo studio la mia passione per le arti marziali, e un giorno venne una produttrice di Hong Kong che cercava un ragazzo occidentale da scritturare per una produzione locale. Il primo film a cui ho partecipato si chiamava Treasure Hunt, con protagonista Chow Yun-Fat. Io interpretavo un ragazzo di origine americana cresciuto dai monaci shaolin. Ottenni la parte solo perché non c’erano altri attori occidentali disponibili. Non volevo assolutamente fare l’attore, ma ho pensato anche che partecipare in una produzione cinese sarebbe stata un’esperienza che non sarebbe più ricapitata. Per farla breve, il film esce e ha un grande successo, e in seguito mi chiamano per fare un secondo film, poi un terzo e un quarto.

F: Erano film sulle arti marziali?

GP: Tutti sulle arti marziali. Non dovevo recitare ma solo tirare calci. Facevo una cosa che sapevo fare ma in uno spazio diverso. Vado ad Hong Kong per l’anteprima del film e scopro di aver raggiunto una certa notorietà in quanto unico occidentale. Capitava anche che girando per le strade di Hong Kong qualcuno ogni tanto mi fermasse e mi chiedesse l’autografo.

F: Lasciando da parte la Cina, qual è il personaggio che hai interpretato che ti è rimasto più dentro?

GP: Ce ne sono parecchi, ma sono molto legato al primo film che ho fatto. È un film di Daniele Luchetti ed è I piccoli maestri, tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Meneghello. Racconta la storia di un gruppo di ragazzi universitari durante la seconda guerra mondiale che abbandonano gli studi a Padova per abbracciare la resistenza. Quando sono tornato in Italia non ero ancora certo di voler fare l’attore, ma erano usciti degli articoli su di me e sulla mia carriera cinematografica in Cina. Non so come queste notizie arrivarono all’orecchio di Daniele Luchetti, non gliel’ho mai chiesto, ma disse che stavano cercando dei ragazzi per fare il suo film. Il fratello più grande di mio padre morì partigiano a 16 anni proprio sulla linea gotica, e dunque sono cresciuto con questa storia che i miei parenti mi raccontavano. La storia del film era molto simile, e quindi io sono andato a fare il provino quasi come per ripagare ciò che questo zio che non ho mai conosciuto aveva fatto. Daniele mi offrì subito il ruolo da protagonista, perché per lui gli attori erano “quelli che con una valigia o uno zaino facevano il giro del mondo e poi tornavano”.

F: Nella tua carriera hai lavorato con molti grandi registi, tra cui Monicelli. Puoi raccontarci qualche aneddoto?

GP: Di Monicelli ne posso raccontare parecchi, lavorare con lui è stata una grandissima esperienza soprattutto a livello umano oltre che professionale. È uno degli uomini più intelligenti che abbia mai incontrato. Durante le riprese de Le rose del deserto abbiamo lavorato tre mesi in Tunisia, e ogni tanto arrivavano delle forti tempeste di vento. Non si poteva fare molto, l’opzione migliore era ripararsi dietro qualcosa e aspettare che la tempesta passasse. Durante una di queste tempeste sento gridare “Mario! Mario!”. Io mi affaccio da dietro il carro armato che faceva parte del set e vedo nella polvere Monicelli con un elmo in testa da seconda guerra mondiale e un cappotto di tre taglie più grande di lui che avanzava per inerzia. Io tra me e me pensavo “ma dove va quest’uomo? Ma come fa?”.

F: E sul lavoro com’era?

GP: Aveva le sue simpatie e le sue antipatie. Aveva un rapporto esclusivo con Alessandro Haber in cui gliene diceva di tutti i colori, ma era una cosa che si era sviluppata negli anni. A me no invece; a me ha sempre voluto bene, rispettato e stimato. Diceva della nostra generazione di attori che “tu e la tua generazione prendete questo lavoro troppo sul serio; non ridete mai”.

F: Opinioni su Muccino e Sorrentino?

GP: Gabriele Muccino lo conosco da sempre. È un rapporto di amicizia e stima che ci unisce da anni. La prima volta che lo vidi era in un ufficio, stava realizzando la sua opera prima Ecco fatto. Ero lì per un provino, vidi Gabriele entrare con i roller blade e pensai subito che fosse una persona poco seria. Invece poi ne ho scoperto il talento e penso che l’abbia anche ampiamente dimostrato.

F: E Sorrentino?

GP: Sorrentino lo considero il più grande talento che oggi abbiamo in Italia. È una persona a cui bastano pochi fotogrammi per far riconoscere il suo stile, il suo gusto musicale. È vero che è accompagnato da professionisti come Lillo Macchitelli, che lo consiglia, ma è anche un meraviglioso DJ. Io sono un fan di tutto quello che Sorrentino ha fatto, non ultimo il lavoro su Young Pope che trovo una delle serie più belle degli ultimi anni.

F: Che tipo di film ti piace raccontare? So che il tuo secondo film come regista è in uscita, quando sarà possibile…

GP: Sono un grande appassionato del cinema scandinavo. Questa mia seconda regia è il remake proprio di un film danese dal titolo Le mele di Adamo, un film del 2005 di cui mi innamorai perdutamente. Mi rimase quest’ironia intelligente e attuale, forse più attuale ora rispetto a quando il film uscì. Questi film riescono a raccontare la vita senza accontentare nessuno, ma semplicemente raccontandola per quello che è, nella sua ferocia, a volte nella sua tristezza e a volte nella gioia che ti porta.

(ringraziamo per la collaborazione Giovanni Ardizzone)

 

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Autoprodurre mascherine si può: appello ai makers 3D https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/autoprodurre-mascherine-si-puo-appello-ai-makers-3d/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/autoprodurre-mascherine-si-puo-appello-ai-makers-3d/#respond Sat, 21 Mar 2020 15:02:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13675 Sappiamo tutti che uno dei problemi più urgenti dell’emergenza da coronavirus è la mancanza di mascherine, pressoché introvabili dall’inizio dell’epidemia. I numeri del contagio ci dicono che, anche nel caso si riuscisse, come garantiscono il governo e le organizzazioni sanitarie, a reperirle all’estero o riprenderne la produzione autoctona, probabilmente ci sarà bisogno ancora a lungo […]

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Sappiamo tutti che uno dei problemi più urgenti dell’emergenza da coronavirus è la mancanza di mascherine, pressoché introvabili dall’inizio dell’epidemia. I numeri del contagio ci dicono che, anche nel caso si riuscisse, come garantiscono il governo e le organizzazioni sanitarie, a reperirle all’estero o riprenderne la produzione autoctona, probabilmente ci sarà bisogno ancora a lungo di grandi quantità di dispositivi atti a frenare la trasmissione del virus.

È di questi giorni la notizia che l’Aitasit (Associazione italiana amministratori di sistema e telemedicina) ha messo online suo sito alcuni progetti open source per la produzione autonoma di mascherine. Si tratta, precisano gli ideatori, di mascherine che non hanno la certificazione standard ma progettate in modo da essere più protettive delle semplici mascherine chirurgiche usa e getta o di quelle che molti si fabbricano da soli seguendo istruzioni trovate chissà dove in rete.

E da qui il nostro appello a tutti i makers: per autoprodurre queste mascherine c’è bisogno di una stampante 3D che non tutti hanno, ma che sicuramente è nella disponibilità di molti professionisti che lavorano nel cinema, come scenografi e attrezzisti. Perché non creare dunque una rete di persone che possono produrre e stampare per sé, la propria famiglia e magari anche per altri a prezzi contenuti, mascherine che hanno ad esempio il grande pregio di poter essere riutilizzate una volta disinfettate?

Su un tema così delicato abbiamo sentito il parere di Eugenio Barone, professore associato di Biochimica alla Sapienza.

La questione ‘mascherine antivirus’ è ostica dall’inizio: poca chiarezza sulla loro reale efficacia, anche tra i vari modelli disponibili, e un rifornimento così basso da farle risultare introvabili. Ora si affaccia la possibilità di creare delle mascherine attraverso le stampanti 3D: ti sembra un’opzione valida?

Se le mascherine non si trovano e c’è la possibilità di stamparle in 3D, è chiaro che è un’opportunità. Credo però che la mascherina 3D, a oggi, abbia ancora due limiti fondamentali: se ne possono produrre poche al giorno e non hanno una perfetta capacità di filtrare il virus. Questo però è il problema minore, visto che stiamo utilizzando mascherine di tutti i tipi. Come consigliano i virologi, in assenza di mascherine l’importante è coprirsi.

Peraltro le mascherine 3D non sono monouso, ma si possono riutilizzare più volte. In una classifica di ‘mascherine ideali’, dove potremmo posizionare le 3D?

Le uniche che riescono a proteggerti dall’infezione del virus sono quelle con la sigla FP2 e FP3, perché i filtri hanno dei pori con le apposite dimensioni che ti permettono, appunto, di filtrare l’aria che respiri. Comprese le famose “goccioline”. Le 3D costituiscono comunque una barriera alle stesse goccioline di saliva. Una protezione in più è importante, per noi e per gli altri. Se sei asintomatico o presenti solo dei lievi sintomi, senza sapere di avere il Coronavirus, con mascherina e guanti riduci matematicamente le possibilità di contagio. L’infezione è davvero semplice da contrarre, basta parlare, tossire o respirare per rischiare, soprattutto negli ambienti chiusi come il supermercato.

Quale potrebbe essere l’iter per richiedere una certificazione e dare la possibilità a questi makers 3D di fare mascherine FP2 e FP3?

Ci sono agenzie apposite che fanno test e rilasciano questo tipo di autocertificazione. L’ideale sarebbe che questi makers 3D, che per ora lavorano ‘in casa’, venissero supportati dalle aziende per una stampa numericamente significativa e sempre più avanzata, in direzione del modello FP2 e FP3.

Ogni giorno sui tuoi social fai un bilancio dell’andamento dell’epidemia in Italia: rispetto a dove ci troviamo oggi, qual è la vera urgenza per contrastare il virus?

Bisogna sensibilizzare alla prudenza e alla responsabilità. Anche il fratello o la sorella che ho visto ieri potrebbe essere una persona infetta, non sappiamo quali sono gli spostamenti effettivi degli altri nel corso delle giornate, nessuno può sapere se hanno incontrato persone infette. Un mio collega che lavora in Portogallo dice che ora dovremmo sentirci tutti infetti, per evitare ogni contagio reale.

Secondo te, con delle misure restrittive portate al massimo, quanto ci vorrà prima che l’Italia ne esca?

La Lombardia è stata chiusa da 2 settimane, l’Italia circa 10 giorni fa. Prima di vedere un cambiamento di tendenza nei numeri totali, di tempo ce ne vorrà. Credo che arriveremo almeno a giugno, e con misure molto restrittive. Non abbiamo i numeri, adesso, che ci permettono di dire che torneremo presto alla normalità.

Come sono fatte dunque queste mascherine, ripetiamo, non certificate ma vicine agli standard di riferimento? Utilizzano dei filtri di tipo Hepa, ovvero dello stesso tipo che viene impiegato nei condizionatori o negli aspirapolvere robot tipo Roomba, reperibili abbastanza facilmente. «Per costruire la mascherina è sufficiente scaricare e stampare il modello in .stl, inserire un elastico e caricare la cartuccia Hepa nell’alloggiamento dopo aver rimosso le linguette in plastica. Dopo qualche ora di utilizzo basta pulire la superficie della maschera con soluzione disinfettante e cambiare la cartuccia », dicono i medici dell’Aitasit.

E non è l’unico impiego creativo delle stampa 3D nell’ambito dell’emergenza da coronavirus: ad esempio si è studiato anche una maschera respiratoria d’emergenza riadattando una maschera da snorkeling in commercio, con un raccordo realizzato appunto tramite una stampante 3D. Il dispositivo è stato collaudato con successo all’ospedale di Chiari.

Anche in questo caso occorre ricordare come si tratti di strumenti non certificati da usare solo nelle situazioni di assoluta necessità. Ma certamente bisogna rallegrarsi di come il mondo della tecnologia e della creatività italiana si sia messo in moto per cercare soluzioni efficaci a contrastare una situazione mai vista prima.

(ringraziamo Chiara Del Zanno)

 

 

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