Biennale College Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 25 Nov 2021 09:52:32 +0000 it-IT hourly 1 La santa piccola, un film capace di osare, apre la 20a edizione del Riff https://www.fabriqueducinema.it/festival/la-santa-piccola-un-film-capace-di-osare-apre-la-20a-edizione-del-riff/ Sat, 20 Nov 2021 13:32:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16407 Erotismo, bellezza, sacro e profano: questi gli ingredienti principali de La santa piccola, il film d’apertura della 20a edizione del Riff–Rome Independent Film Festival. L’opera prima di Silvia Brunelli, tratta dall’omonimo romanzo di Vincenzo Restivo, ci porta a Napoli, in un rione soleggiato dove tutti si conoscono. I protagonisti sono Mario (Vincenzo Antonucci) e Lino […]

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Erotismo, bellezza, sacro e profano: questi gli ingredienti principali de La santa piccola, il film d’apertura della 20a edizione del RiffRome Independent Film Festival. L’opera prima di Silvia Brunelli, tratta dall’omonimo romanzo di Vincenzo Restivo, ci porta a Napoli, in un rione soleggiato dove tutti si conoscono. I protagonisti sono Mario (Vincenzo Antonucci) e Lino (Francesco Pellegrino), due amici inseparabili le cui giornate sono intrappolate nella routine. Tutto però è destinato a cambiare quando Annaluce (Sophia Guastaferro) la sorellina di Lino, inizia a fare miracoli diventando la santa protettrice del rione. Per i due ragazzi si apre un mondo nuovo che li porterà a prendere percorsi diversi, fino a mettere in repentaglio la cosa più importante: la loro amicizia.

La santa piccola, vincitore della Biennale College veneziana, è l’opera scelta per aprire la rassegna diretta da Fabrizio Ferrari, che quest’anno presenta 95 opere tra lungometraggi, documentari e corti da Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Spagna, Portogallo, Brasile, Argentina, Cile, Usa, Canada, Burkina Faso, Libano. Tra queste, 21 anteprime mondiali, 9 anteprime europee, 45 anteprime italiane.

Nella conferenza stampa che si è tenuta al rinnovato Cinema Troisi, Silvia Brunelli, accompagnata dalla co-sceneggiatrice Francesca Scanu, ha detto emozionata: «Per me è doppiamente simbolico trovarmi qui, al Cinema Troisi. È la prima proiezione dopo Venezia e avere l’opportunità di debuttare a Roma in questa sala storica è una grande gioia. Io sono trasteverina e questa era la sala dove passavo i pomeriggi con mia nonna a vedere i cartoni animati».

Come nasce l’approccio all’erotismo del film, che invece ultimamente è sempre più è “bandito” dal nostro cinema?

SB: Attraverso il sesso ho voluto raccontare l’arco di trasformazione dei due protagonisti, seguendone l’emotività e lo sviluppo. Ho voluto mostrare integralmente i loro corpi perché volevo mettermi alla prova, sapevo che era il mio primo lungometraggio e se non avessi trovato il coraggio di osare ora non lo avrei più fatto.

Qual è il suo rapporto con Napoli?

SB: Questo film non avrebbe potuto essere ambientato in nessun’altra città perché il folklore, l’umanità e il sentire religioso che lo pervadono sono interamente napoletani. Durante la pandemia avevamo proposto per ragioni di comodità di girare qui a Roma, alla Garbatella, ma ci siamo subito resi conti che la storia non funzionava. Amo Napoli, è una città piena di contrasti e conflitti.

In definitiva, che cosa prova Lino per Mario?

Francesca Scanu: Questa domanda ha messo in crisi anche noi per tutto il processo di scrittura. Raccontiamo un momento di transizione nella vita di questi due ragazzi e pensiamo che non sia fondamentale dare una risposta chiara al fatto se Lino sia o non sia omosessuale. Lino si sta ancora scoprendo o molto più semplicemente vive la sua sessualità in modo più libero e disinibito. Abbiamo lasciato Lino avvolto in questo velo di ambiguità.

SB: Mario è un personaggio che non agisce in termini di direzione e movimento ma solo internamente ed emotivamente. Lino, invece, non si ferma mai, deve colmare le sue difficoltà emotive ed è per questo che forse neanche si accorge che Mario inizia a guardarlo in un altro modo. Lino è contemporaneo perché è estremamente fluido, ricerca solo qualcuno che non lo faccia sentire abbandonato ma amato.

 

 

 

 

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Beautiful Things, sinfonia dei cinque sensi https://www.fabriqueducinema.it/festival/beautiful-things-sinfonia-dei-cinque-sensi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/beautiful-things-sinfonia-dei-cinque-sensi/#respond Mon, 23 Oct 2017 11:39:35 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9505 Documentario, sinfonia visiva, partitura musicale su schermo, urlo e insieme canto: Beautiful Things è un oggetto strano, un’opera visionaria che durante la scorsa Mostra del cinema di Venezia ha lasciato la laguna a occhi spalancati e bocca chiusa. Il film è infatti un assordante elogio al silenzio che calpesta i 5 sensi costringendo lo spettatore […]

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Documentario, sinfonia visiva, partitura musicale su schermo, urlo e insieme canto: Beautiful Things è un oggetto strano, un’opera visionaria che durante la scorsa Mostra del cinema di Venezia ha lasciato la laguna a occhi spalancati e bocca chiusa. Il film è infatti un assordante elogio al silenzio che calpesta i 5 sensi costringendo lo spettatore a una profonda riflessione sul dietro le quinte della macchina che muove la nostra società: il consumismo

Selezionato da Biennale College – bottega d’arte alla sua quinta edizione che ogni anno dà la possibilità a tre giovani autori di realizzare film low budget – Beautiful Things è l’opera prima di Giorgio Ferreri, fotografo ma soprattutto compositore e musicista torinese, che ha avuto 8 mesi per realizzarla. Il film, molto più che sperimentale, è un eccentrico tentativo – assolutamente riuscito – di racchiudere immagini, parole e suoni in un’ipnotica sinergia.

una scena da Bbeautiful Things

In Beautiful Things s’intrecciano 4 storie, 4 personaggi che probabilmente non si incontreranno mai, 4 esistenze ai limiti dell’isolamento, 4 eremiti della società, imperatori di regni fantasma e sotterranei che a nessuno interessa scoprire. 4 capitoli (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere)per svelare chi c’è dietro alla gigantesca macchina produttiva di quelle “cose bellissime” di cui noi esseri umani siamo ghiotti, per raccontare le 4 fasi principali, dalla nascita alla morte, dalla creazione alla distruzione, passando per il trasporto e la commercializzazione, di qualsiasi cosa teniamo in mano, guidiamo, indossiamo.

C’è Van, manutentore di pozzi petroliferi, che nel deserto texano conduce la vita dell’ultimo uomo sulla terra; Danilo, che ricorda tanto il Novecento di Alessandro Baricco, un ingegnere meccanico filippino che vive su una nave cargo; Andrea, che da sempre trascura l’aspetto esteriore per curare la mente, scienziato bolognese votato al silenzio che si occupa di testare le proprietà acustiche di oggetti d’ogni tipo nelle immobili e silenziosissime camere anecoiche e, infine, Vito, che indossa sempre una maschera e trascorre le sue giornate dentro a una fossa di rifiuti.

Uomini soli per scelta, il “lato oscuro” della nostra bulimia consumistica, che ogni giorno creano, misurano, testano e poi distruggono quegli oggetti che amiamo, odiamo, annusiamo, collezioniamo, che a volte ci precedono e sempre ci sopravvivono.

Il punto di vista del regista è preciso ma mai imposto: lo spettatore è messo di fronte a uno specchio ed è lui a dover decidere se guardarsi dritto negli occhi o trovare l’ennesimo escamotage per non riflettersi. D’altronde siamo sempre noi a rinunciare al nostro stesso spazio vitale per fare posto a oggetti che ci ricordano qualcosa o che semplicemente crediamo ci possano rendere migliori.

Le 4 storie sono orchestrate da una regia e un ritmo rigorosi, simmetrici, ma è la musica a rendere questo documentario un’opera che sarà difficile dimenticare: tutto diviene colonna sonora, dai movimenti cadenzati della mostruosa Pumpjack petrolifera, fino a una musica diegetica realizzata da un bambino con un bastone e alcuni oggetti trovati nel deserto,per un risultato che toglie il fiato.

Giorgio Ferreri regista di Beautiful Things

Storditi e quasi feriti da immagini, parole e suoni che insieme collaborano fino a fondersi, ancora confusi sul senso del film, la scena finale arriva inaspettata: un incredibile piano sequenza accompagnato da una musica capace di entrare davvero nel cervello. Due ballerini si esibiscono in un centro commerciale in una coreografia precisa e insieme scatenata che non è né la soluzione, né tantomeno la via d’uscita al nostro modo di vivere, ma in qualche modo ha il sapore della liberazione, della catarsi.

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“Orecchie”: cinema chiama teatro https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/orecchie-cinema-chiama-teatro/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/orecchie-cinema-chiama-teatro/#respond Thu, 09 Mar 2017 13:58:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4326 Farsi finanziare come opera seconda una “commedia storta” dai toni grotteschi, in bianco e nero e con un protagonista esordiente è già un’impresa che meriterebbe un approfondimento a parte. È infatti un piccolo caso quello di Orecchie, secondo lungometraggio del 41enne Alessandro Aronadio interpretato da Daniele Parisi, freschi vincitori del Premio del pubblico e del […]

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Farsi finanziare come opera seconda una “commedia storta” dai toni grotteschi, in bianco e nero e con un protagonista esordiente è già un’impresa che meriterebbe un approfondimento a parte.

È infatti un piccolo caso quello di Orecchie, secondo lungometraggio del 41enne Alessandro Aronadio interpretato da Daniele Parisi, freschi vincitori del Premio del pubblico e del Premio per il miglior attore al Festival della Commedia di Montecarlo. Orecchie aveva avuto già ottimi riscontri alla Mostra del Cinema di Venezia (era peraltro uno dei quattro progetti internazionali sostenuti e prodotti da Biennale College), dove Parisi aveva riportato anche il Talent Award NuovoIMAIE come miglior attore emergente.

Un’impresa che dimostra come sia possibile, anche nel nostro paese, fare un cinema che esca dal canone e che non abbia paura di sottrarre temi e volti alla nicchia più misconosciuta (e bistrattata) della cultura italiana: il teatro off, quello da pochi posti in sala, autori giovani e palchi pieni di energia, pubblico poco ma motivato, luci della ribalta nessuna.

In realtà, Daniele, tu non sei affatto un esordiente…

Faccio teatro da sedici anni. Ho cominciato a diciotto, nel 2000, poi ho continuato in quei localetti romani dove si fa cabaret, posti come il Teatro Studio Uno. Facevo spettacoli ma non rideva nessuno. Per me era una cosa tristissima. Ma ero all’inizio, dovevo ancora imparare a manipolare la scrittura. Allora ho cercato una scuola, le ho provate tutte e alla fine sono entrato alla Silvio D’Amico. Per quattro anni sono stato in tournée. Ma sono entrato in crisi: fare l’attore scritturato è un po’ come timbrare il cartellino…

Sì, ma di questi tempi è una fortuna. Avere un lavoro, intendo.

Io però non mi sentivo soddisfatto, volevo esprimermi come autore ma non sapevo come fare. Nel 2011 incontrai Paolo Rossi, in uno stage organizzato dall’Accademia, e quei venti giorni con lui mi hanno aiutato a mettere a fuoco quello che volevo fare: il teatro popolare. Ho mollato tutto e ho cominciato a scrivere. Dal 2011 a oggi ho messo in scena tre spettacoli 8Inviloop, Ab hoc et ab hac, Abbasso Daniele Parisi, ndr) e sto preparando il quarto. Sull’apocalisse…

Con Aronadio come vi siete incontrati?

Avevo fatto una piccolissima parte nel suo primo film, che poi è stata tagliata. Ma siamo diventati molto amici. Lui veniva spesso a vedermi a teatro. Poi mi ha chiamato per il provino.

Che effetto ti ha fatto il circo del cinema?

Bello, ma… io sono un teatrante e resterò tale. L’idea che ho in testa è quella di continuare a scrivere e portare con me gli spettacoli che faccio. Sono degli one man show, e vorrei che i miei personaggi invecchiassero con me. Riuscirò da vecchio a fare le stesse cose che faccio oggi? O dovrò cambiare?

A sentirti parlare sembra quasi che il teatro sia un’opzione appetibile. Ma non era in crisi?

A teatro ci facciamo molti problemi. Il teatro è in una crisi terribile. La percezione, da fuori, è che sia passato di moda. È obsoleto, sa di museo. A differenza di chi fa cinema noi attori di teatro siamo umanità disperse. In Italia non sei considerato un attore se il pubblico non ti ha visto in TV, se non sei immediatamente riconoscibile.

Ma oggi un attore giovane può vivere di teatro?

A meno che tu non faccia parte di una compagnia stabile che lavora tantissimo è molto difficile. C’è poco lavoro ed è pagato male. Da questo punto di vista sono un outsider anche in questo settore, visto che vengo da quel teatro ma ne sono uscito. Scrivo, dirigo, recito e promuovo, vado nelle cantine, parto con la valigia e la chitarra e giro l’Italia. Credo che questo sia oggi l’unico modo per fare quel tipo di teatro. L’unico modo per crearsi una rete, un piccolo ritorno, un pubblico.

C’è solidarietà tra voi attori?

Sì, soprattutto a Roma si sta creando una nuova leva di teatranti. Ci vediamo spesso fra di noi, siamo tutti per la filosofia dell’autopromozione. Ivan Talarico per esempio, cantautore che viene dal teatro, o Claudio Morici, scrittore, Marco Andreoli, un regista di teatro. E Davide Grillo, un attore giovanissimo che fa stand up. Ci vediamo a San Lorenzo, pranziamo insieme in un posto dove si paga poco, e così nascono tante collaborazioni. Smettiamo di piangerci addosso: se la cultura ufficiale non forma una nuova leva di autori, la scuola romana ce la inventiamo noi.

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Roberto De Feo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/roberto-de-feo/ Thu, 11 Feb 2016 15:10:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2664 Una sala cinematografica, proiezione in corso, sullo schermo scorrono le immagini di un corto. A un certo punto però qualcosa va storto. Si accendono le luci in sala, gli spettatori sono abbagliati dall’imprevista interruzione. Cos’è successo? Nel corridoio del cinema c’è una persona a terra. E un uomo la sta trascinando via, tenendola per i […]

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Una sala cinematografica, proiezione in corso, sullo schermo scorrono le immagini di un corto. A un certo punto però qualcosa va storto. Si accendono le luci in sala, gli spettatori sono abbagliati dall’imprevista interruzione. Cos’è successo? Nel corridoio del cinema c’è una persona a terra. E un uomo la sta trascinando via, tenendola per i piedi.

Sembra una scena da thriller ma è successo davvero, a Milano, durante la proiezione del corto “splatter” Ice Scream di Roberto De Feo. Classe ’81, sei corti, un paio di lungometraggi in predicato, un’esperienza a Hollywood e la sua biografia già su Wikipedia, per comprendere il personaggio De Feo bisogna ripartire da quella scena. Perché l’uomo in piedi in mezzo alla sala, scoperto nell’attimo in cui sta occultando il corpo di uno spettatore svenuto, è proprio lui. E se scivolava via nel buio, in silenzio come un ladro, era solo per un motivo: evitare di interrompere la sacralità della proiezione del suo film.

In una decina d’anni di lavoro sui set, fino alla consacrazione internazionale proprio con Ice Scream (per la cronaca: unico cortometraggio italiano da cui sia mai stato tratto un lungometraggio hollywoodiano) De Feo si è imposto tanto per il talento quanto per il carattere passionale e determinato (ma la sintesi la offre lui: «rompiballe»). Da Bari se n’è andato a Hollywood, e dopo un anno e mezzo è tornato. Con un corto sulla via dell’Oscar, una foto con John Carpenter in tasca e una causa aperta con i produttori americani di Ice Scream Remake.

Ci racconti come hai cominciato?

Mi sono imbattuto per caso ai primi del 2000 in una scuola di cinema di Genova, la Scuola d’Arte Cinematografica, che mi ha convinto per due motivi: tutti i professori erano già inseriti nell’ambito lavorativo e c’era la possibilità di fare esperienza sui set in città. L’ho frequentata per quattro mesi, mi ha dato le basi.

Nel 2007 è arrivato H5N1, il corto apocalittico sull’aviaria: un piccolo caso…

Avevo girato il mio primo corto, Vlora 1991, qualche anno prima. Era un piccolo film sullo sbarco degli albanesi sulle coste italiane. Con H5N1 sono andato in un’altra direzione. Il tema ha creato subito interesse e ha fruttato un budget importante, 100.000 euro. Abbiamo vinto la sezione sci-fi del festival di Rhode Island, ma… sono critico. Oggettivamente in quel corto ci sono parecchi errori. Però quel successo ha permesso a me e al co-regista Vito Palumbo di tentare l’avventura di Ice Scream.

photoIce Scream è arrivato fino a Hollywood. Doveva diventare un lungo: cosa è successo?

Il lungo non credo che uscirà più. Io stesso remo contro.

Perché?

Il film era finito un anno e mezzo fa, pronto per essere distribuito. Solo che all’improvviso la produzione ha deciso che avremmo dovuto rimetterci le mani. La prima parte del film era stata costruita con una serie di video presi da YouTube, sui ragazzi vittime di bullismo. Peccato che nessuno si fosse premurato di chiederne i diritti. Cioè: vai in America a girare un film con gli stessi che hanno fatto American Psycho e pensi che queste siano le ultime cose di cui devi preoccuparti. E invece… non solo abbiamo perso un anno di lavoro, ma piano piano hanno cominciato a farci pressioni per fare altri cambiamenti. Il film è diventato un’altra cosa. Sono andato fuori di testa. Ho abbandonato tutto minacciando una causa alla produzione.

Cos’hai imparato da questa esperienza?

Per quanto tu possa credere di vivere in un sogno, prima o poi ti devi scontrare con la realtà. Avevamo una produzione che ha messo in mano il film alle persone sbagliate. Gente che ha fatto errori di valutazione incredibili, e poco conta che fra di loro ci fosse il produttore esecutivo di Killer Joe. Non si manda in final mix un film senza avere le garanzie sul primo blocco del girato. Fa rabbia pensare che siano stati sbagli dettati da un presuntuoso “siamo americani, lo possiamo fare”.

Lavoreresti ancora negli Stati Uniti?

Con le persone giuste sì… certo, vallo a capire prima.

Come si conoscono le “persone giuste”?

Attraverso i festival. L’importante è riconoscere il festival capace di darti credito agli occhi dei produttori, di farti curriculum. Negli Stati Uniti ci sono tanti festival del circuito degli Oscar che vale la pena provare. Lì arrivano migliaia di corti ogni anno, e se vieni preso vuol dire che una possibilità di fare il regista ce l’hai. Tutto sta poi nel sapersi vendere dopo che un festival ti ha selezionato.

Un consiglio pratico per questo vago “sapersi vendere”?

Posso dire quel che ho fatto io. Ho scelto il tema di Ice Scream dopo aver fatto a tavolino un ragionamento strategico, quasi da psicopatico. Ho pensato: come posso fare qualcosa che faccia parlare di me, che non sono nessuno? Nei festival italiani per tanti anni ho visto sempre le stesse storie. Mancava uno splatter, un film diverso, dall’impatto emotivo violento. E allora mi sono detto: ci provo. Nel giro dei festival hanno cominciato a invitarci perché volevano il corto “estremo”. E dopo che un ragazzo è svenuto al cinema, a Milano, si è scatenato l’inferno: ottanta festival l’hanno preso senza nemmeno vederlo…

Da fan del pulp: hai mai cercato di contattare Tarantino?

Figuriamoci: Ice Scream si apriva con un’introduzione animata in cui Tarantino uccide Nanni Moretti. L’ho mandato a Nanni Moretti e…

… e come l’ha presa?

Malissimo. Si è offeso, pare.

child k stills (3)Non sarebbe stato più strategico mandarlo a Tarantino?

Tarantino l’ho incontrato a Venezia quando era presidente di giuria. L’ho incrociato fuori da una delle sale, era in ciabatte: un mito. Disse di lasciargli il film nella sua cassetta personale nell’hotel in cui alloggiava. L’ho fatto, ma quella cassetta era già gonfia di DVD. Dubito che l’abbia mai visto.

La diplomazia non è il tuo forte, ma con i colleghi della tua generazione come ti trovi?

Mi piacerebbe fare gruppo, anche se caratterialmente sono un solitario. Il sistema cinematografico italiano purtoppo non invita a unire le forze: quando il rapporto è di due produttori per dieci registi…

Il tuo corto Child K è in preselezione agli Oscar. Da dove arriva l’idea?

L’idea è stata di Vito. Ha visto in tv un monologo di Paolini sulla storia di un contadino che scrive a Hitler per autorizzare l’uccisione del figlio disabile, e mi ha subito chiamato. Il soggetto è stato sviluppato da Colorado Film e finanziato anche da due case di produzione pugliesi. Circa 70.000 euro, tutti investiti nel progetto. Il produttore di Schindler’s List ci ha notati, chiamati al festival di Zagabria e sostenuti nell’uscita in sala a Los Angeles.

Altri lunghi in cantiere?

Colorado ha opzionato alcune mie storie. Avremmo dovuto girare il primo film questa estate, ma le riprese sono state rimandate. Ora ho appena finito l’esperienza con Biennale College, che mi ha selezionato insieme ad altri undici registi da tutto il mondo, e sto aspettando che scelgano i progetti da sviluppare. Il mio, Ngujuar, è un film da girare in Albania: parla di gente che vive segregata in casa per il timore di essere uccisa per vendetta. È la legge medievale del Kanun a stabilirlo: lo stesso testo cui si è ispirata Laura Bispuri per il suo Vergine giurata.

L'articolo Roberto De Feo proviene da Fabrique Du Cinéma.

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