Beatrice Grannò Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Sun, 12 Feb 2023 18:09:13 +0000 it-IT hourly 1 Beatrice Grannò: Meglio la verità della perfezione https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/beatrice-granno-meglio-la-verita-della-perfezione/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/beatrice-granno-meglio-la-verita-della-perfezione/#respond Fri, 23 Dec 2022 08:05:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18068 Se Beatrice Grannò è il talento emergente sulla cover di Fabrique n. 38 è anche doveroso chiedersi dove e come stia emergendo, dopo anni di carriera: all’estero, intanto. E nella musica, presto. Perché in mezzo a tanta recitazione, datele un pianoforte, un microfono e un po’ di folk… e non è detto che si volti […]

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Se Beatrice Grannò è il talento emergente sulla cover di Fabrique n. 38 è anche doveroso chiedersi dove e come stia emergendo, dopo anni di carriera: all’estero, intanto. E nella musica, presto. Perché in mezzo a tanta recitazione, datele un pianoforte, un microfono e un po’ di folk… e non è detto che si volti indietro a guardarvi.

Era sul set di Doc – Nelle tue mani 2 quando ha scoperto di aver vinto il provino per The White Lotus: Sicilia. In pochi giorni è scappata a Taormina per iniziare le riprese di una serie internazionale amatissima dalla critica, che di lì a poco avrebbe dominato gli Emmys in mondovisione. Viaggiando tra Italia e Stati Uniti, ovvero tra Rai ed HBO, ma anche tra un personaggio drammatico e tormentato (Carolina in Doc) e una nuova versione di sé impudente e maliziosa (Mia in The White Lotus), Beatrice Grannò si porta già dietro un bagaglio da mestierante: l’accademia di Londra, il teatro di strada, il film di Cristina Comencini in cui è co-protagonista accanto a Giovanna Mezzogiorno (Tornare, del 2019) e quello di Leonardo Guerra Seràgnoli tratto da Gli indifferenti di Moravia (con un paio di scene durissime, insieme ad Edoardo Pesce). E poi, certamente, Security di Peter Chelsom, la serie Netflix Zero e quel film di nicchia a cui lei resta sempre legata: Mi chiedo quando ti mancherò di Francesco Fei.

Quindi sei con un piede nella serie di punta Rai, e l’altro nella HBO: sogni o sei desta?

Pensa che ero sul set di Doc e mi sono ritrovata a fare il provino per The White Lotus, mi sembrava una realtà così lontana. Quando Mike White [nda: autore della serie] è venuto a Roma per l’audizione dal vivo, il tutto è durato dieci minuti… E dopo una settimana ero già sul loro set. Mi ci sono ritrovata catapultata.

Serialità mainstream e serialità di nicchia: parliamone.

La cosa interessante di White Lotus è che oggi è molto popolare in America, ma quando uscì la prima stagione rientrava nelle serie con una grande identità autoriale, osannata dalla critica. Quindi di primo impatto per me non aveva l’aria di essere una serie-evento tipo Euphoria o Succession. Il successo enorme è arrivato con gli Emmys: lì si è iniziato a capire che la nicchia poteva diventare popolare. Allo stesso tempo ricordo che mentre stavamo girando The White Lotus a Taormina era appena uscita Doc2 ed io ero in copertina su TuStyle. I miei colleghi americani pensavano che fossi chissà chi, e a me veniva da ridere.

Il contrasto tra i due personaggi è piuttosto forte: in Doc sei la fragile figlia di Argentero, in The White Lotus una giovane donna ammiccante e spregiudicata.

Quello che mi piace del personaggio di Mia, in contrapposizione a ciò che ho sempre fatto anche con Carolina in Doc, è che inizialmente lei è reticente ma quando poi prende il via non ha mai un momento di vulnerabilità. E invece tutto ciò che è dramma per me funziona. Io mi sento molto serena nel raccontare personaggi in difficoltà, mentre Mia in un certo senso non dubita mai di sé, è quasi comica quando ripete “I’m a great pianist, I can sing very well”. Non fa che dire: “Sono pazzesca, sono bravissima e mi merito tutto”.

Quindi una drama queen come lavora sull’anti-drama?

Spesso scherzavo con Mike: “Ma questa Mia non ha mai un momento di crollo? Perché io questa cosa la so fare benissimo, fammi versare una lacrima, dai!”. In realtà è stata una grande sfida per me raccontare un personaggio così pieno di sicurezza, con una forza femminile che tuttavia non rientra nello stereotipo, perché Mia è determinata quanto maldestra.

Hai vinto un provino ambitissimo: come è andata?

La verità è che a volte, quando ottieni questi ruoli, la vera fortuna sta nell’essere molto vicina all’idea che il regista ha di un personaggio in sceneggiatura. Mike stava cercando un’attrice italiana, che avesse un’energia innocente ma che fosse disposta a tutto per realizzare il sogno di cantare e suonare. Mi sono detta: “Ok Beatrice, questa è roba tua”. Mi sono presa vari giorni per allenarmi con il siciliano e una domenica ho convocato a casa un gruppo di persone che mi aiutassero a preparare il selftape. Io e Simona Tabasco eravamo sul set di Doc mentre studiavamo entrambe per i provini di Mia e Lucia, e ci siamo divertite così tanto che le dicevo: “Simo’, ma ci pensi se questa cosa succede davvero?”.

Mi piace l’idea di chiedere a un’attrice che debutta in una serie internazionale pluripremiata: quanto ti è tornata utile l’esperienza della lunga serialità italiana?

Il set di Doc mi ha insegnato a mantenere una concentrazione costante con dei ritmi sempre incalzanti, perciò quando sono arrivata a girare The White Lotus ero allenata. Però era un lavoro del tutto diverso, perché dal dramma sono passata alla commedia. Mi sembrava di essere tornata a Londra, con il mio direttore di accademia che ci ricordava di essere liberi e spontanei. Bisognava che trovassi delle cose mie da portare nel personaggio, per renderlo comico ma anche unico. L’obiettivo era che Mia e Lucia tenessero sempre un’energia molto alta nell’economia della storia. Io dico sempre che sono come due biglie che vengono lanciate in questo albergo di lusso per alterare gli equilibri delle famiglie…

E tu, guarda caso, sei una biglia che canta e suona il piano.

Tutto in live session. Per la prima volta mi stavo esibendo dal vivo con un pianoforte a coda, e lo stavo facendo davanti a tutti, su un set americano così importante. Ero preoccupata ma il regista voleva che la performance fosse reale, anche con dei piccoli errori e dei momenti di respiro. È stato liberatorio, mi ha fatto staccare dall’idea di dover sempre ottenere la performance perfetta: ho sacrificato la perfezione in cambio della verità.

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Foto di Roberta Krasnig; Stylist Stefania Sciortino; Makeup Ilaria di Lauro per IDLMakeup; Capelli Adriano Cocciarelli per Harumi; Prodotti per capelli: Body e Sun Schwarzkopf Professional 

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Mi chiedo quando ti mancherò, la libertà di essere se stessi https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/mi-chiedo-quando-ti-manchero-la-liberta-di-essere-se-stessi/ Tue, 06 Jul 2021 09:23:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15833 Il concetto di “grassofobia” è una nozione che negli ultimi anni si sta pian piano dilagando nei social, con numerose modelle o attrici o figure di spicco che si oppongono al “body shaming”. Ultime fra queste Kate Winslet che ha accusato l’HBO di “fat shaming” per aver photoshoppato la sua pancia in occasione del poster […]

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Il concetto di “grassofobia” è una nozione che negli ultimi anni si sta pian piano dilagando nei social, con numerose modelle o attrici o figure di spicco che si oppongono al “body shaming”. Ultime fra queste Kate Winslet che ha accusato l’HBO di “fat shaming” per aver photoshoppato la sua pancia in occasione del poster pubblicitario di Mare of Eastown. La lotta contro l’idea che sia necessario avere un corpo sempre perfetto e impeccabile naviga sul web a una velocità impressionante, spesso però perdendo “corporeità” ed è proprio per questo che un film come Mi chiedo quando ti mancherò, uscito in sala il primo luglio, assume ancora più importanza.

Tratto dal romanzo di Amanda Davis, Wonder When You’ll Miss me, e coprodotto con la Slovenia, il secondo lungometraggio di Francesco Fei (che nel frattempo ha dedicato la sua carriera a numerosi videoclip e documentari) vede come protagonista Amanda, una liceale che si ritrova a lottare contro lo stigma di non avere un corpo “magro”. Stigma che non solo la isola (aspetto in effetti già trattato in diversi film statunitensi), ma che la catapulta dentro violenze sempre più gravi, che se per chi si è trovato in una situazione simile a quella della protagonista non hanno nulla di scioccante, allo stesso tempo permettono ai restanti spettatori di comprendere la gravità di un dramma del genere.  

Seguiamo così la giovane protagonista in una fuga, raccontata con numerosi flashback che disvelano a mano a mano cosa le è successo, ma soprattutto come si sente. Amanda, infatti, in seguito a una “sfida” che la vede coinvolta in un episodio molto simile al revenge porn, si spezza, scindendosi in due. Improvvisamente mostra la sua voglia di non stare in silenzio e subire, di non essere semplicemente gentile, ma di essere irriverente, audace e forte. Giunta in un circo, incomincia pian piano a capire cosa voglia davvero e, di conseguenza, cosa debba fare per riunire i pezzi della sua vita e poter andare avanti, sebbene ciò la porti a un necessario addio a una parte di sé (da qui il titolo), ponendo fine a quella scissione tra ciò che si è davvero e ciò che si è secondo il pensiero stereotipato degli altri.

Mi chiedo quando ti mancherò
Claudia Marsicano e Beatrice Grannò in Mi chiedo quando ti mancherò.

La penna di Chiara Barzini, Luca Infascelli e dello stesso Francesco Fei non si limita semplicemente a tracciare la vicenda di Amanda, ma ci porta visivamente dentro questa scissione, senza mai fare ricorso all’uso di una spiegazione verbosa. Ed è proprio per questo, infatti, che il concetto di “body shaming” assume nuovamente tutta la sua forza. Sia a livello di sceneggiatura che di regia, infatti il racconto trova un modo elegante e profondo di entrare nei pensieri di Amanda, nelle sue gestualità, in ogni sua piccola piega, a partire dal battito cardiaco iniziale, fino al modo in cui la macchina da presa si sofferma a presentare la propria protagonista non nella sua totalità, ma attraverso piccoli dettagli.  

Dettagli sia visivi, che narrativi, come per esempio il camion dove appare la scritta “Thelma” (in riferimento proprio a Thelma e Louise, ma, non a caso, senza Louise), la cover del cellulare, o il fatto che decida di chiamarsi “Annabella”, sottolineando come voglia con tutte le sue forze ricominciare una nuova vita per essere semplicemente “bella”. Concetto, quello della bellezza, come quello della diversità, che con sottigliezza e dolcezza percorre tutto il film, ricordando a tratti le famose parole di De Gregori e della sua Donna cannone.

La bellezza di Mi chiedo quando ti mancherò risiede proprio nella semplicità in cui mostra tutto questo, ricorrendo, appunto, a piccole sfumature di stile che giocano più sul visivo che sul parlato (d’altronde Show, don’t tell” diceva un grande maestro del cinema come Hitchcock). Questo aspetto, che si manifesta armoniosamente dalla scrittura, alla regia, alla fotografia (che abilmente gioca con le ombre e le luci sul volto e intorno alla protagonista), insieme alla recitazione intensa di Beatrice Grannò, ma soprattutto di Claudia Marsicano, rende l’opera di Francesco Fei un film che supera le barriere di genere (del classico teen movie). Così, nelle note dolci e amare del finale, voliamo via anche noi, non più solo pensando, ma capendo realmente che cosa significhino la grassofobia, il body shaming e il bullismo, nell’ipocrisia generale e nella forza di chi, rialzandosi a testa alta, si chiede se alla fine le mancherà quella parte vulnerabile di sé che, canticchiando, saltella sotto un ombrello arcobaleno.

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Zero, la nuova serie italiana Netflix: young, gifted and black https://www.fabriqueducinema.it/serie/zero-serie-netflix/ Wed, 21 Apr 2021 07:52:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15459 Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata […]

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Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata a Milano nel 2018) e liberamente ispirata al romanzo, edito da Mondadori, Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, una delle stelle nascenti nel contemporaneo panorama editoriale italiano. La ruvidezza dell’asfalto e della lente della macchina da presa, che cerca una precaria stabilità, esprime fin da subito come la serie voglia agganciarsi alla realtà con uno sguardo rivolto verso i margini. Il movimento d’apertura mostra, in modo chiaro e conciso, cosa Zero vuole essere e donare ai propri spettatori, allontanandosi da un primo misunderstanding che la tagline di presentazione – “Essere invisibile è il vero potere” – potrebbe creare nel suo ipotetico pubblico. Ma facciamo un passo indietro.

Zero nasce dalla mente di Menotti (qui in veste di showrunner), che s’ispira al romanzo di Distefano, portandolo però nel suo mondo: quello dei fumetti e dei supereroi periferici italiani (come nel celebre Lo chiamavano Jeeg Robot, del quale ha curato la sceneggiatura). L’idea di parlare di un supereroe nero e al contempo di una persona comune alletta subito la mente di Distefano, che quindi accoglie il progetto, non solo come autore del romanzo di partenza (di cui la serie, però, mantiene solo il mood dei personaggi), entrando a far parte attivamente anche del gruppo di sceneggiatura. Il motivo di questa enfasi, però, come ha sottolineato il giovane autore alla conferenza stampa di presentazione dei primi quattro episodi, non è legato tanto al concetto della diversity, ma a quello della normalizzazione di qualcosa che è già nel quotidiano, anche se si fa ancora fatica a percepirlo come tale.

In questo tentativo di normalizzazione si sceglie allora come protagonista un rider. Se, in un primo momento, questa scelta, visto che la serie è ambientata a Milano, può richiamare alla mente l’attuale situazione pandemica, subito sia Distefano che i quattro registi (Paola Randi, Mohamed Hossameldin, Margherita Ferri e Ivan Silvestrini) specificano un intento differente. Il rider rappresenta, nella realtà di tutti i giorni, il cliché dell’invisibilità: di coloro che, senza nome, sono identificati semplicemente come “quelli della pizza”. Su questo concetto verte tutto il primo episodio, che vedrà il protagonista, Omar (Giuseppe Dave Seke), presentarsi agli spettatori solo a metà puntata, quando incontra Anna (Beatrice Grannò), una ragazza che a un primo sguardo può sembrare totalmente diversa da lui, ma con il quale condivide, invece, questo dramma giovanile dell’invisibilità.

Zero la serie
Una scena di “Zero”, prodotta da Fabula con la collaborazione di Red Joint.

L’invisibilità, che  nella serie da stigma vuole diventare un potere (ispirandosi, ha detto Distefano, a Ferro tre, in cui il protagonista ha la capacità di diventare invisibile quando si emoziona), si trasforma quindi in una metafora più ampia. Non solo simbolo di un lavoro, quello dei rider, ma anche simbolo di una generazione, qui rappresentata con una doppia valenza.  Intanto, si parla di una seconda generazione a cui appartengono lo stesso Distefano, ma anche quasi tutto il cast d’attori (a Seke vanno aggiunti Haroun Fall, Daniela Scattolin, Virginia Diop, Richard Dylan Magon e Madior Fall): ragazzi italiani, che però vengono ancora identificati come “quelli nuovi” («A ventott’anni, tutto mi sento eccetto che ancora “nuovo”», afferma il giovane scrittore alla conferenza stampa). Così, questa generazione diventa invisibile, perché considerata non abbastanza italiana, sebbene ne condivida mentalità e gusti culturali, né abbastanza straniera dalla propria famiglia d’appartenenza. Rispetto a quest’ultimo punto, già nelle prime linee di dialogo del primo episodio il protagonista sottolinea come l’incomunicabilità che ha con il padre non sia solo una questione di lingua. Qui, si apre allora allo spettatore la seconda valenza del termine “generazionale”.

L’invisibilità infatti non è quella solo della seconda generazione, ma in generale di tutti i ragazzi troppo timidi per avere il coraggio di affermare fortemente e ad alta voce le proprie scelte e i propri pensieri. L’invisibilità diventa quindi un segno di riconoscimento per una fascia di pubblico ancora più vasta, che si cerca di agganciare anche tramite una regia energica che stimola lo spettatore (rimediando a dialoghi spesso troppo didascalici, che funzionano meglio su carta che su schermo). Si ha dunque un piano d’ascolto emotivo particolarmente forte che, tornando alla figura del rider, trova un’ampia risonanza nella rappresentazione della città e, nello specifico, nella periferia (Zero è ambientata nel Barrio, quartiere periferico di Milano). Un ambiente anche questo, popolato dai giovani, spesso invisibile e che la nuova cultura musicale ha pian piano iniziato a far emergere.

Ruolo centrale nella serie, che vuole trattare una “storia di strada”, è quello assunto dalla colonna sonora, che si scandisce tra le musiche ideate appositamente da Yakamoto Kotzuga (già autore della colonna sonora di Baby), ai brani di Mahmood (che per la serie ha composto anche un inedito e che ha ricoperto il ruolo di music supervisor dell’ultimo episodio), fino ad arrivare a quello scenario che si muove tra R&B, urban, rap e trap.

Insomma, Zero (le cui prime quattro puntate su otto escono oggi su Netflix) è una serie che, nel raccontare la storia di un ragazzo timido con lo strano superpotere di diventare invisibile ogni qualvolta provi una forte emozione, cerca di allargare il panorama audiovisivo nostrano, per i protagonisti che sceglie, la regia e il genere che si apre al fantasy, seppur lasciandolo ancorato, tramite il racconto di formazione, a una realtà totalmente italiana e quotidiana.

 

 

 

 

 

 

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