Aurora Giovinazzo Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 14 Jul 2023 07:34:51 +0000 it-IT hourly 1 Aurora Giovinazzo: “Voglio essere unica” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/aurora-giovinazzo-voglio-essere-unica/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/aurora-giovinazzo-voglio-essere-unica/#respond Wed, 05 Jul 2023 07:38:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18545 La carriera di Aurora Giovinazzo, che a 21 anni vanta già una decina di lungometraggi e altrettante apparizioni in serie tv e fiction, è frutto di una volontà di ferro e di un ostinato perfezionismo che la spinge ad affrontare ogni ruolo come una sfida fisica, oltre che psicologica. Dopo la ginnasta di Freaks Out […]

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La carriera di Aurora Giovinazzo, che a 21 anni vanta già una decina di lungometraggi e altrettante apparizioni in serie tv e fiction, è frutto di una volontà di ferro e di un ostinato perfezionismo che la spinge ad affrontare ogni ruolo come una sfida fisica, oltre che psicologica. Dopo la ginnasta di Freaks Out e la nuotatrice di L’uomo sulla strada, in The Cage di Massimiliano Zanin, attualmente in post-produzione, la vedremo addirittura nei panni di una lottatrice di MMA allenata da Valeria Solarino. «Il mio metodo di lavoro non è così speciale» si schernisce lei. «La mente va di pari passo col fisico. Qui in Italia non abbiamo i mezzi del cinema americano e non possiamo fare il lavoro che fanno attori come Robert De Niro in Toro scatenato, che si allenano per un anno. Lui è diventato un vero pugile, ha combattuto sul ring. Io faccio quello che posso con quello che ho. Per The Cage ho avuto a disposizione poche settimane che ho cercato di sfruttare allenandomi sei ore al giorno. Per essere credibile devo sentire il dolore, i muscoli sofferenti, così ho chiesto alla produzione la possibilità di allenarmi il triplo. L’impegno è la base di tutto».

E a giudicare dalla risposta di pubblico e critica, tanto impegno ha dato i suoi frutti. D’altronde anni e anni di danza (Aurora Giovinazzo è campionessa europea e mondiale di bachata e si allena sei giorni su sette per svariate ore al giorno) l’hanno abituata a dare il massimo. Ed è ciò che ha fatto anche al provino per Freaks Out, raccontato dal regista Gabriele Mainetti con un colorito post su Facebook in cui mette in luce lo spirito battagliero che l’ha spinto a scegliere la giovanissima Aurora tra una marea di candidate. «Le selezioni sono state talmente lunghe e faticose che non vedevo l’ora di non essere presa» ricorda lei ridendo. «Non avevo capito niente del personaggio, ho sostenuto quattro provini diversi e ogni volta sono durati ore. Sono un’atleta, tengo botta, ma l’ansia mi divorava». Alla fine l’ha spuntata proprio lei e Mainetti le ha affidato il ruolo di Matilde, fiera e combattiva circense dotata di poteri paranormali che lotta per proteggere i propri compagni, freak come lei, in una Roma immaginaria invasa dai nazisti in piena Seconda Guerra Mondiale.

Il film, che ha avuto una lavorazione lunga e difficoltosa per via della massiccia quantità di effetti speciali, presentava un surplus di difficoltà visto che il metodo di lavoro richiesto è inedito per i set italiani, come ammette la stessa Aurora: «È stata estasi pura. Essere sollevata da cavi e lavorare in sospensione, col green screen, i ventilatori puntati contro, a simulare la scena in cui vengo sparata dal cannone è stato fantastico. Ma questo tipo di riprese ha richiesto un grande sforzo di immaginazione. Nella scena in cui accarezzo la tigre, in realtà avevo davanti a me un pupazzo verde senza occhi e dovevo immaginare di avere a che fare con un felino di 350 chili. E chi ha mai accarezzato una tigre? All’epoca non l’avevo mai fatto, Gabriele Mainetti mi ha aiutato tantissimo a comprendere la situazione. Ma dopo aver girato The Cage, dove il mio personaggio lavora in uno zoo, posso dire di aver toccato una tigre e perfino un leone».

Mentre The Cage la vedrà impegnata a combattere sul ring, il pubblico avrà presto l’occasione di vedere Aurora Giovinazzo alle prese con un ruolo diametralmente opposto in Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek, storia d’amore impossibile tra due giovani che si snoda lungo un arco di trent’anni. «Ferzan è un uomo dolcissimo, pieno di calore, è molto protettivo» lo descrive lei. «Ti trascina dentro il suo mondo per ottenere ciò che vuole, il suo set era molto emotivo e coinvolgente». Nonostante la giovane età, Aurora Giovinazzo ha le idee chiare e adotta una buona dose di prudenza quando snocciola i suoi progetti futuri perché non vuole precludersi niente. «Non ho un regista preferito con cui vorrei lavorare, prendo quello che viene» ci spiega. «L’importante è che siano progetti stimolanti, che mi aiutino a crescere. Voglio interpretare ruoli diversi, che mi diano soddisfazione». L’attrice nega anche di avere modelli di riferimento precisi. «Tanti idoli sì, ma nella recitazione, come nel ballo, cerco di non ispirarmi a nessuno. Non voglio copiare, anche se a livello inconscio so di aver assorbito alcune caratteristiche degli artisti che stimo e sul set a tratti riemergono. Ma voglio costruire la mia strada in maniera originale. Voglio essere unica». La serietà con cui Aurora Giovinazzo affronta il mestiere della recitazione, di cui nega di sentirsi esperta anche se ammette di calcare i set fin da quando era piccola (accompagnata dalla madre nel tentativo di incanalare tutta la sua energia drammatica), si ripercuote anche nei suoi gusti di spettatrice.

A differenza dei suoi coetanei tutti presi da laptop e telefonini, Aurora Giovinazzo ribadisce la fedeltà al grande schermo «che ti permette di assaporare ogni dettaglio. Oddio, è vero che oggi a casa abbiamo tutti schermi super fighi, ma la sala cinematografica è un’altra cosa. Anche i registi che lavorano per il cinema hanno un approccio più personale, è come se dentro di loro ardesse un fuoco diverso». Parlando di streaming, l’attrice rivela di essersi imposta di non guardare più serie tv per un motivo piuttosto originale: «Non riesco a smettere. Quando inizio una serie, devo andare avanti tutta la notte finché non l’ho finita e poi la mattina non riesco ad alzarmi. Ho visto dieci ore de Il padrino tutte di seguito». Parlando del suo film preferito, l’interprete di Freaks Out si infervora: «Il gladiatore, l’avrò visto 100 volte.  A vedermi così non si direbbe, sono minuta, alta un metro e cinquanta, ma sono una fan sfegata di film di guerra, thriller, horror. La commedia, invece, non la sento tanto nelle mie corde. Anche come attrice, mi sento più portata per il dramma».

Pur avendo già dimostrato ampiamente il suo talento, la carriera di Aurora Giovinazzo è ancora agli inizi. Con la sua disciplina e la sua forza di volontà, l’attrice romana si pone obiettivi sempre più ambiziosi e mentre si apre alle offerte in arrivo dagli autori italiani (e chissà, magari presto anche internazionali), ammette di avere una sola grande paura: «Non riuscire a essere credibile. Quando mi trovo di fronte a un personaggio di cui non riesco a capire l’intenzione, mi fermo, mi riguardo e cerco di capire bene l’errore commesso per non ripeterlo. Sono molto esigente e cerco di dare il massimo. Volere è potere». L’energia che incanala nella recitazione e nella danza (dove sta anche conseguendo i brevetti per insegnare) è tale da non farle venire voglia, almeno per adesso, di ipotizzare un futuro dietro la macchina da presa: «Col tempo potrei cambiare idea, ma oggi mi sento un’attrice e voglio far bene il mio mestiere. Un domani chi lo sa?».

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Fotografa Roberta Krasnig
Assistenti Marcello Mastroianni e Davide Polese 
Stylist Flavia Liberatori Assistente Vittoria Pallini 
Hairstylist Adriano Cocciarelli e Giulia Mirabelli per Harumi
Makeup Ilaria Di Lauro

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L’uomo sulla strada, la caccia all’uomo è un thriller classico https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luomo-sulla-strada/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luomo-sulla-strada/#respond Wed, 26 Oct 2022 07:20:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17884 Si apre con una scena di gioco, l’opera prima di Gianluca Mangiasciutti L’uomo sulla strada. Il gioco tipico dell’infanzia e dell’ingenuità che precede ogni male. Una bambina corre nel bosco insieme a suo padre: i due si nascondono, si cercano e poi si ritrovano. Ma non stavolta. L’età dell’innocenza, infatti, si macchia improvvisamente di un […]

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Si apre con una scena di gioco, l’opera prima di Gianluca Mangiasciutti L’uomo sulla strada. Il gioco tipico dell’infanzia e dell’ingenuità che precede ogni male. Una bambina corre nel bosco insieme a suo padre: i due si nascondono, si cercano e poi si ritrovano. Ma non stavolta. L’età dell’innocenza, infatti, si macchia improvvisamente di un evento tragico: quando Irene vede suo padre morire vittima di un pirata della strada, capiamo che il vero gioco continuerà nella vita adulta, sotto forma di un perverso nascondino. La caccia all’uomo è aperta, e da questo momento ogni azione sarà irreversibile.

Unica testimone dell’omicidio, Irene cresce e diventa una giovane donna (interpretata da Aurora Giovinazzo) con un obiettivo morboso: ottenere giustizia, come suggerisce la sinossi del film. In realtà scopriremo d’essere a tutti gli effetti nel terreno della vendetta personale, dove il bisogno di pareggiare i conti diventa un’ossessione. Poiché nel film il destino si diverte a sbeffeggiare le sue stesse vittime, senza sospettarlo la ragazza verrà assunta proprio nella fabbrica dell’uomo che avrebbe ucciso suo padre (un Lorenzo Richelmy cupissimo, in giacca e cravatta).

Non solo le colpe dei padri, ma qualsiasi storia familiare a un certo punto ricade sui figli: questo sembra volerci dire Gianluca Mangiasciutti con il suo esordio al lungometraggio (presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Panorama Italia di Alice nella città). Lo fa affidandosi ad una sorta di coming of age strutturato sulle insolite premesse del thriller. Ma lo fa anche scegliendo – non a caso – un’attrice come Aurora Giovinazzo per dar corpo a una protagonista tormentata, semplice nella caratterizzazione ma magnetica sullo schermo. Perché in questo caso tifare per lei, nel bene e nel male, dev’essere anche una questione di chimica tra spettatore e messa in scena.

La rabbia di Irene trova una sua dimensione nell’interpretazione ancora rude e viscerale di Giovinazzo, più matura rispetto agli inizi già promettenti di Freaks Out, e senz’altro libera da molti tic del mestiere. Proprio per questo, però, si tratta di una spontaneità tecnicamente difficile da domare, e di fronte ad alcune scene viene da chiedersi se gli alti e bassi di Irene-Aurora siano funzionali a un personaggio ‘sopra le righe’ o avrebbero potuto essere diretti con più minuzia.

L'uomo sulla stradaMentre nella sceneggiatura va riconosciuto, purtroppo, l’aspetto più dolente del film (a causa di personaggi collaterali che rimangono bloccati nell’etichetta dello stereotipo, e di un ritmo sempre troppo teso, che non riesce a valorizzare i momenti di vera suspense), è interessante notare l’uso che Mangiasciutti fa della composizione visiva e della fotografia (di Luca Ciuti), eleggendole a veri e propri strumenti narrativi. Rispettando la cara vecchia scuola del genere thriller (e quindi optando per chiaroscuri ‘premonitori’ e palette eleganti, senza cedere alla tentazione del prototipo estetico Netflix), i tagli di luce dedicano un’attenzione particolare al personaggio di Lorenzo Richelmy, e il posizionamento dei personaggi nell’inquadratura non è mai casuale. È così che il regista riesce a suggerirne l’ambiguità, partendo dall’immagine per creare un distacco tra buoni e cattivi. O meglio: tra chi caccia e chi viene cacciato.

Convinti che nelle opere prime conti più il potenziale espresso che il fattore mancante, allora L’uomo sulla strada ci mostra il gusto di un regista affezionato alla narrazione classica, alla tradizione di un cinema di genere che difende il decoro estetico dall’omologazione mainstream. E, soprattutto, che dà valore al ruolo dell’essere umano nella scelta delle storie da raccontare, ai legami familiari, alla crescita degli eroi e anche a quella degli antieroi. Tanto sullo schermo quanto sul set, poiché le riprese del film sono state discrete e preservate dai social media. «Fare un film non è una vetrina né tanto meno significa farsi pubblicità» scriveva Mangiasciutti qualche mese fa. «Ho preferito rimanere isolato e concentrarmi su una cosa che aspettavo da anni». E a noi questa dimensione intima di un cinema fatto senza aspettative, guidato dalla passione e dal bisogno di indagare le emozioni, piace.

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Slim Dogs: quando l’unione fa la forza https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/slim-dogs-quando-lunione-fa-la-forza/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/slim-dogs-quando-lunione-fa-la-forza/#respond Thu, 17 Mar 2022 07:00:24 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16919 Slim Dogs è un gruppo di giovani professionisti nel campo degli audiovisivi. Personalità ed esperienze diverse si fondono per dare vita a progetti creativi e innovativi, fra i quali la recente collaborazione con i Fabrique du Cinéma Awards: la loro diretta Instagram dalla Sala Umberto con interviste ai vincitori è stata seguitissima, portando un traffico […]

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Slim Dogs è un gruppo di giovani professionisti nel campo degli audiovisivi. Personalità ed esperienze diverse si fondono per dare vita a progetti creativi e innovativi, fra i quali la recente collaborazione con i Fabrique du Cinéma Awards: la loro diretta Instagram dalla Sala Umberto con interviste ai vincitori è stata seguitissima, portando un traffico esagerato sui i loro e i nostri canali. Un’unione nata un po’ per caso, un po’ per incoscienza, ma che ha portato lontano i suoi protagonisti. E noi ci siamo fatti raccontare com’è nato tutto.

Da che tipo di formazione proviene un gruppo come il vostro? 

Ognuno di noi ha provenienze diverse. Marco ha studiato economia e marketing, Adriano ingegneria gestionale, Matteo si è sempre occupato di videomaking e Giovanni ha studiato cinema e montaggio. Il gruppo di lavoro Slim Dogs nasce dalla necessità di fare ordine. Eravamo tutti freelance, ognuno con il suo percorso, ma abbiamo unito le forze e ci siamo detti: strutturiamoci! Il primo obiettivo è stato creare la realtà di produzione video e poi piano piano, nel tempo, ci siamo dati un’organizzazione più stabile, com’è fisiologico per qualsiasi società.

Come si sono incrociate le vostre strade?  

Marco: Ci siamo conosciuti lavorando. Giovanni, Adriano e Matteo si sono incontrati grazie alla webserie Freaks!: Matteo era il direttore della fotografia, Adriano è stato fonico nella prima stagione e aiuto regia nella seconda e Giovanni era montatore del backstage nella prima e montatore della serie nella seconda. Io, invece, sono arrivato con il progetto Dylan Dog – Vittima degli eventi, l’ho finanziato come produttore e poi ho lavorato sul set. Ci siamo trovati bene e non ci siamo più lasciati: lì è nato tutto.

Slim Dogs Giovanni: Io vivevo a Parigi e stavo portando avanti un progetto di interviste per conoscere meglio i vari canali Youtube. Un giorno, convinto che non mi avrebbe mai risposto, ho scritto a Matteo tramite i messaggi privati di Youtube, quando ancora esistevano, e lui sorprendentemente mi ha risposto. Ho iniziato a fare delle cose piccoline per Freaks! giusto per parlarne sul mio canale YouTube, e poi sono venuto un paio di giorni a Roma per conoscere Matteo e Claudio. Con il tempo abbiamo cominciato a lavorare insieme e alla fine sono tornato in Italia.

Matteo: Sembra di parlare di secoli fa. Oggi un ventenne che avvia un progetto sul web ha chiaro cosa sta facendo, dieci anni fa eravamo tutti un po’ “arrangiati”. Io trovo sui messaggi privati di YouTube un tizio che vive a Parigi e gli do un hard disk con tutto il girato della serie, senza sapere chi sia: una follia! Fossi un ventenne oggi, non lo farei mai. Il Matteo ventenne oggi sarebbe troppo “skillato” e preciso, non manderebbe mai un hard disk a uno sconosciuto, sarebbe già conscio delle possibili conseguenze. Oggi li vedo tutti più sul pezzo ‘sti pischelli, ne sanno molto di più e sono meno incoscienti. A volte, però, l’incoscienza ti apre delle porte. Quelle cose che a posteriori ti sembrano delle cavolate, degli errori pazzeschi, ti danno magari quel gancio in più per creare un gruppo.

Marco: Io li ho conosciuti attraverso internet, perché ho partecipato al crowdfunding che Claudio Di Biagio e Luca Vecchi avevano avviato per Dylan Dog – Vittima degli eventi. Adriano, invece, era il vicino dello zio di Matteo, ci siamo conosciuti grazie a una festa di Natale.

Matteo: Esatto. io sapevo che lui suonava la batteria quindi nella mia testa il passaggio è stato: batteria, musica, fonico.

Adriano: Mi ha detto vuoi venire a fare il fonico? E io ho risposto: «Ma sì, vabbè, vengo a fare il fonico».

Marco: In effetti possiamo dire che ci ha unito l’incoscienza!

Slim Dogs

Singolarmente ognuno di voi ha una sua forte identità, ma la cosa fantastica è che funzionate ancora meglio insieme. Come fate a incastrare questo puzzle?

È fondamentale la capacità di capire che gli altri possono aggiungere qualcosa a quello che stai facendo tu. Come gruppo ci scontriamo, ma sappiamo che ognuno ha le sue capacità e che lì dà il 100%. Siamo consapevoli che un prodotto passato attraverso tutti e quattro, e quindi dalle quattro fasi che rappresentiamo, è più figo rispetto a un prodotto gestito da una persona sola. Adriano è equilibrato e nella produzione è la persona giusta a cui affidarsi. Matteo è quello che ha la telecamera in mano da quando è nato e so che se scrivo un format posso affidarmi a lui per dargli forma, come so che posso contare su Giovanni per il montaggio. Da singolo riesci a fare esattamente quello che vuoi tu, quello che hai in testa. In gruppo, quello che all’inizio ti destabilizza è che cominciano ad arrivare altri pensieri, altre idee. Ma se accetti di farti contaminare il risultato è qualcosa che è comunque migliore. Il valore che possono aggiungere persone diverse è il motivo per cui ha senso lavorare in gruppo. Siamo quattro teste che pensano cose completamente diverse, ma che sono riuscite ad equilibrarsi per la buona riuscita di un progetto. Il cinema è l’arte della collaborazione, da solo non fai niente, inizi, capisci cosa ti piace fare ma poi il gruppo è essenziale. A livello lavorativo, inoltre, è più semplice presentarsi come gruppo, come società.

Voi avete sempre avuto un legame con il cinema: nei vostri video affrontate diverse discipline e interessi, ma con il cinema c’è una sorta di attrazione fatale.

In realtà l’obiettivo di Slim Dogs non è fare film per il cinema, ma prendere delle idee di qualsiasi tipo (spot, videoclip, documentari ecc.) e trasformarle in immagini, nel modo più efficace possibile, per colpire l’immaginazione del target di riferimento. Detto questo, ovviamente, il cinema ci piace. Ci piace vederlo ma soprattutto ci piace raccontarlo.

Parlateci del vostro ultimo progetto cinematografico, un corto “interattivo”. 

Si tratta di un progetto legato a Twitch. Un’idea folle che nasce dalla volontà realizzare un cortometraggio mostrando agli utenti le diverse fasi che ne compongono la realizzazione: la creatività, la scrittura la pre-produzione, le riprese e il montaggio. In questo modo possono passare una giornata sul set con noi in streaming e viverne tutti i momenti. In una live, ad esempio, abbiamo raccontato tutto il processo che porta dal concept iniziale fino alla stesura della sceneggiatura. Gli utenti sono coinvolti nel processo attivamente: hanno scelto tre punti della sceneggiatura tramite i sondaggi, decidendo in che direzione sarebbe andata la storia del cortometraggio. In realtà, anche  l’idea iniziale deriva dagli utenti. Tutto nasce da una nostra richiesta: «Ragazzi, vogliamo fare un corto, avete idee? Mandatecele!». Ne abbiamo ricevute 210 e ne abbiamo selezionate 20 che fossero produttivamente e creativamente realizzabili. Successivamente, abbiamo organizzato una diretta invitando gli utenti a presentare il loro pitch e ne abbiamo scelto uno. Il più complesso, forse, a dire il vero: post-apocalittico. Ciò ha dato vita a  Nostos, un cortometraggio ambientato nel 2059, in un mondo al collasso in cui il Silicio è diventato una risorsa preziosissima. È diretto da Mauro Zingarelli e adesso affronterà il percorso dei festival nazionali ed internazionali. Siamo contenti di poter sfruttare piattaforme come Twitch e YouTube per realizzare questo tipo di progetti e per raccontare tutte le maestranze che ci sono dietro il cinema. È stato bellissimo, ad esempio, mostrare che il mestiere dello sceneggiatore non è soltanto saper scrivere. Esiste una geometria della sceneggiatura, non ci si può improvvisare, bisogna aver studiato per farlo. Abbiamo anche fatto vedere il lavoro enorme che si fa in pre-produzione, fase che molti ignorano. Questo ci dà la possibilità di far vedere a 360 gradi cosa significa realizzare un prodotto audiovisivo e, al tempo stesso, permette a chi ci segue di finanziare il progetto con il crowdfunding. È un processo di co-creazione, tutto è condiviso con gli utenti.

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“Per vestire Freaks Out mi sono ispirata anche a Slash dei Guns N’ Roses” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/per-vestire-freaks-out-mi-sono-ispirata-anche-a-slash-dei-guns-n-roses/ Mon, 22 Nov 2021 11:26:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16414 «Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti. Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma […]

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«Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti.

Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma li modella, ne rafforza le caratteristiche e ne accentua l’essenza. Come ci racconta, in Freaks Out ha potuto esercitare al massimo la sua creatività, realizzando costumi che sono l’incontro tra la più triste delle realtà e la più bella delle fantasie. 

Freaks Out è la storia di quattro amici: Matilde, la “ragazza elettrica”, Cencio, l’albino che controlla gli insetti, Fulvio, l’“uomo lupo”, e Mario, il nano che sa manipolare gli oggetti metallici. Siamo nel 1943 a Roma, quando la Capitale è scenario di bombardamenti e deportazioni. I quattro lavorano in un circo gestito dall’ebreo Israel, che per loro è una sorta di padre. All’aggravarsi della guerra la strada dei Freaks si incrocia con quella di Franz, il pianista nazista con sei dita per mano e poteri di chiaroveggenza che dirige il Zirkus Berlin.

Quale è stato il percorso professionale che ti ha portata a Freaks Out?

Mi sono iscritta all’Accademia di Moda e Costumi di Roma negli anni ’80, in quel periodo in cui un po’ tutti volevano fare gli stilisti. In quegli anni ho avuto la fortuna di conoscere Paola Marchesin, appena diplomata al Centro Sperimentale in Costumi, a cui era stato chiesto di firmare il suo primo film, Mignon è partita di Francesca Archibugi. La produzione aveva poco budget, cercavano un’assistente costumista volontaria ed è così che ho iniziato. Da allora è stato un lungo e costante percorso di che mi ha portato fino a Lo chiamavano Jeeg Robot e poi a Freaks Out, un film che sarebbe stato un invito a nozze per qualsiasi costumista!

In Freaks Out ognuno dei protagonisti è caratterizzato da uno stile unico. Da cosa hai tratto ispirazione?

Gabriele Mainetti ci tiene molto a partire dalla ricostruzione di un mondo reale per poi introdurre i suoi temi fantasy. Abbiamo iniziato con una documentazione fedele dell’epoca: dalla deportazione degli ebrei, alla guerra, a Roma devastata. Ogni personaggio aveva già un preciso tema e il costume in questi casi diventa una sorta di sotto-scrittura, un valore aggiunto che ne rafforza l’identità. Per il personaggio di Matilde [interpretata da Aurora Giovinazzo], ad esempio, la richiesta è stata molto precisa: colori freddi perché il suo calore è interno e non superficiale. Per questo ho scelto per lei un cappotto blu in contrasto con i guanti rossi che sono il suo punto di energia. Con Aurora la difficoltà stava anche nel doverla rendere più piccola della sua vera età e per questo l’abbiamo vestita con una gonna con le bretelle, una camicetta semplice e acconciata con delle treccine. Quanto poi alla bombetta che indossa, il primo richiamo è stato ai pilastri del cinema come Charlie Chaplin e Giulietta Masina. Poi con Gabriele abbiamo deciso di conferire a quest’accessorio un significato più profondo ed è diventato una specie di “ombrello paterno” che compie un percorso: parte da Israel [Giorgio Tirabassi], arriva a Matilde e infine a un bambino come segno di speranza per il futuro.

Freaks-Out

Per Cencio [Pietro Castellitto] invece il regista voleva un personaggio un po’ bullo e impolverato: «Lo vorrei come Terence Hill nel film Lo chiamavano Trinità», mi ha detto. E così è stato.

Freaks Out

Anche il personaggio di Mario [Giancarlo Martini] doveva essere reso più infantile, nel film ha un carattere magico e incantato, ma nella realtà a interpretarlo è un uomo adulto, signorile. Per questo abbiamo scelto per lui grandi scarpe, pantaloni alla zuava, giacchetta a quadretti e un fiocco da scolaro che gli conferisse quasi un aspetto clownesco.

Freaks Out

Per Fulvio [Claudio Santamaria] abbiamo voluto creare un personaggio dalla grande eleganza, esemplificata dalla sigaretta con il bocchino e dal pelo curatissimo. Per lui mi sono ispirata a Clark Gable, a mio parere negli anni uno degli attori più eleganti del cinema! Il cappotto ottocentesco di Fulvio è stato un’intuizione. Ho trovato in sartoria questo soprabito fuori epoca ed ho pensato che potesse essere in linea con il suo essere retrò: un uomo colto, che aveva letto libri e che per lungo tempo era rimasto chiuso in una torre.

Freaks Out

Il personaggio più complesso da vestire è stato però Franz [Franz Rogowski], uno showman fissato con l’esercito. La ricerca per lui è stata duplice: da una parte c’è stato uno studio storico sulle divise naziste e dall’altra mi sono ispirata ai grandi frontman del palcoscenico come David Bowie, Mick Jagger e Michael Jackson. La scelta del cilindro che indossa inoltre è stata influenzata in parte dal Ringmaster della Marvel e in parte da Slash, il chitarrista dei Guns N’ Roses.

Freaks Out

Quanto tempo ti ha richiesto questo lavoro di ricerca?

Lo studio preliminare ha richiesto circa 4 settimane, con una bozza del progetto e una prima stima dei preventivi. La preparazione effettiva è durata 3 mesi circa a cui hanno seguito 3 mesi di riprese. Senza considerare che quando lavori a un progetto del genere anche quando sei a casa ci pensi in continuazione, ma ne è valsa la pena!

Un costume tra quelli realizzati per questo film che ti ha particolarmente colpito?

È stato particolarmente divertente vestire il gobbo e i Diavoli Storpi, uno scalcagnato gruppo di ribelli antifascisti. I costumi di questi personaggi sono inventati, anche se per crearli ho studiato le immagini dei partigiani e delle partigiane, che portavano i pantaloni come gli uomini.  Il gobbo [Max Mazzotta], a capo della squadra dei Diavoli, doveva portare una fascia in testa stile Rambo come un vero combattente, un uomo dei boschi. Peraltro Max è un attore straordinario e un uomo di una cultura eccezionale, ha una sua compagnia teatrale a Cosenza e insegna all’Università.

Freaks OutI costumi realizzati che fine fanno?

I costumi dei protagonisti sono stati disegnati, tagliati e cuciti da noi in laboratorio con due sarte e sono di proprietà della produzione. Adesso alcuni di questi sono in viaggio verso Dubai per l’Expo in rappresentanza del Cinema per la Regione Lazio.  Il resto rimane come repertorio, ritornano nelle sartorie e vengono ri-smistati nei magazzini per essere utilizzati poi per altri film. È il ciclo vitale dei costumi, un vero e proprio patrimonio in cui noi italiani non siamo secondi a nessuno e che dovremmo valorizzare di più: per questo è nata anche la nostra associazione (ASC-Associazione Italiana Scenografi Costumisti e Arredatori).

Come è stato vedere Freaks Out dopo tutti questi mesi di lavoro?

Guardando il film mi sono detta “ma perché questi parlano romanesco?”. Sembra una pellicola americana! [ride]. È un film di genere, quindi ovviamente c’è a chi è piaciuto e a chi no, ma sono orgogliosa che sia stato un film pensato e realizzato in Italia. Siamo stati tutti coraggiosi, abbiamo tenuto botta in momenti difficili e faticosi dicendoci “ce la possiamo fare” e in questo Gabriele è stato il grande capitano della nave.

 

 

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Freaks Out, un Gabriele Mainetti senza limiti https://www.fabriqueducinema.it/festival/freaks-out-un-gabriele-mainetti-senza-limiti/ Wed, 08 Sep 2021 18:00:27 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16000 Quarto film italiano in concorso a Venezia 78, arriva Freaks Out, opus magnum di Gabriele Mainetti e suo secondo lungometraggio dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che è stato uno spartiacque nella storia recente del cinema italiano. Se le ambizioni di Jeeg Robot erano già coraggiose e il tentativo di importazione di modelli cinematografici esterni era […]

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Quarto film italiano in concorso a Venezia 78, arriva Freaks Out, opus magnum di Gabriele Mainetti e suo secondo lungometraggio dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che è stato uno spartiacque nella storia recente del cinema italiano.

Se le ambizioni di Jeeg Robot erano già coraggiose e il tentativo di importazione di modelli cinematografici esterni era da ritenersi riuscito, quantomeno premiato dall’accoglienza del pubblico, qui Mainetti si spinge ancora oltre, con un film la cui lavorazione ha richiesto un numero di settimane di riprese inedito per il nostro sistema produttivo, un dispendio di effetti speciali e effetti visivi altrettanto magniloquente, una confezione che francamente non ha nulla da invidiare a prodotti di nazionalità più abituate alla grandeur: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Corea del Sud, la Russia.

Il pretesto narrativo per questo affresco fantastico sulla Roma occupata dai nazisti nel 1943 è un piccolo teatro di strada gestito da Israel, interpretato da Giorgio Tirabassi, che recluta fra i suoi fenomeni da baraccone quattro strambe figure: Fulvio, l’uomo lupo di Claudio Santamaria, Cencio, il domatore di insetti interpretato da Pietro Castellitto, Mario, nano con poteri magnetici col volto di Giancarlo Martini e la ragazza elettrica, Matilde, che è Aurora Giovinazzo, il personaggio più complesso e anche quello decisivo.

I quattro freak della storia passeranno attraverso molte peripezie e molti incidenti di percorso che riassumere qui sarebbe impossibile – anche vista la durata del film, 141 minuti -, si separano, si ritrovano, vengono fatti prigionieri, si liberano, combattono, a volte nulla possono neanche i loro superpoteri, altre volte sono invece determinanti. Incontreranno anche un altro gruppo di personaggi, una curiosa e agguerrita brigata di partigiani con l’accento pugliese, ciascuno con una menomazione o una deformità, ma ciascuno pure dotato di abilità straordinarie, e saranno loro gli eroi di un immancabile “arrivano i nostri” pienamente inserito dello schema del film d’avventura, rispettato dall’inizio alla fine.

I cattivi sono, naturalmente, i nazisti, pure tratteggiati con qualche miracoloso potenziale, per esempio l’interessante trovata di rendere Franz, l’assoluto antagonista dei freak, un sublime pianista e anche “la Cassandra del Reich”, con il potere di prevedere il futuro: futuro che va dalla caduta del regime – quindi sulla breve distanza – fino all’invenzione dell’iPhone. Ebbene sì, proprio l’iPhone, generatore della sequenza più visionaria e coraggiosa del film.

Come si può vedere, gli elementi nel calderone sono tantissimi e a Mainetti va riconosciuto il coraggio di aver fatto di tutto, produttivamente parlando, per mettere dentro Freaks Out tutte le idee, le situazioni, le coreografie, le battaglie che ha immaginato e sognato, senza porsi limiti, senza timore reverenziale dei riferimenti cinefili sparpagliati lungo il percorso, che vanno da Tarantino a Burton, da Spielberg fino ad arrivare addirittura al Rossellini di Roma città aperta. Anche a costo di sembrare prolisso, anche a costo di sfiorare la bulimia visiva e sonora, è ammirevole la tenacia nel tenere insieme ogni cosa, pur di realizzare l’opera agognata.

Ma pur all’interno di un impianto produttivo così gigante, a prendere felicemente il sopravvento sono gli attori: il cast è azzeccatissimo, sono bravissimi tutti i quattro freak, Castellitto che si lascia andare alla romanità borgatara spinta, Santamaria animalesco e colto insieme, Martini è bravo a non diventare macchietta (il pericolo, con il suo personaggio, era dietro l’angolo), Aurora Giovinazzo è commovente nella gestione del dolore legato al proprio superpotere, in ogni sua apparizione è memorabile Tirabassi, e una menzione particolare va a Max Mazzotta, il capo dei partigiani, in grado di dare un fuoco al personaggio del gobbo che per espressività e per presenza scenica animalesca è destinato a rimanere.

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