Armie Hammer Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 11 May 2017 16:38:07 +0000 it-IT hourly 1 Festival di Berlino: “Call me by your name”, l’idillio cinechic di Guadagnino https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-call-me-by-your-name-lidillio-cinechic-di-guadagnino/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-call-me-by-your-name-lidillio-cinechic-di-guadagnino/#respond Tue, 14 Feb 2017 15:03:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4161 La bolla di “Call Me by Your Name”, di Luca Guadagnino, è un’estate afosa da spendere in giardini rigogliosi, mordendo con pigrizia frutta senza imperfezioni, perfettamente rotonda, lascivamente succosa. È una bolla dei sensi, consumata all’ombra di fronde messe in piega da invisibili giardinieri: l’acqua fredda (lago, mare, piscina, fate voi: nella bolla c’è tutto) […]

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La bolla di “Call Me by Your Name”, di Luca Guadagnino, è un’estate afosa da spendere in giardini rigogliosi, mordendo con pigrizia frutta senza imperfezioni, perfettamente rotonda, lascivamente succosa.

È una bolla dei sensi, consumata all’ombra di fronde messe in piega da invisibili giardinieri: l’acqua fredda (lago, mare, piscina, fate voi: nella bolla c’è tutto) che increspa la pelle al contatto, l’umido della notte che impregna gli anfratti di ville-labirinto, il sole d’agosto che invita a godere, a prendersi tutto, a inseguire qualsiasi desiderio – senza distinzione fra uomini, donne, cose.

La bolla di Guadagnino è un banchetto dei sensi apparecchiato su una tavola idilliaca, l’Italia agreste-chic del countryshire, del vino buono, del pescatore/contadino che porta a tavola il pesce ancora vivo, l’Italia delle rovine fascinose e dei reperti che sbucano dal mare, un’Italia di fantasia dove in casa si parlano quattro lingue, si studia il greco, si suona Bach, dove a nessuno frega niente di politica o lavoro e i padri perdonano, le madri amano incondizionatamente, gli amanti si piegano al desiderio senza sforzo alcuno.

È una bolla, il film di Guadagnino, perché esiste e funziona solo se si accetta il patto scritto all’inizio del viaggio. Siamo “da qualche parte nel Nord Italia”, dicono i titoli di testa, e Craxi, gli orecchini a cerchio e i Talking Heads ci suggeriscono il setting anni ’80: bastino queste vaghe unità di tempo e luogo per dettare i confini del quadretto. La storia è un’impalcatura sottile, del resto a sostenere una bolla non serve chissà quale architettura. C’è un ragazzo giovane e sensibile (Timothée Chalamet: bravissimo) e c’è un bell’uomo straniero (Armie Hammer: lanciatissimo) che vivrà per qualche tempo in casa sua. I due si scoprono, si piacciono, si amano. Non c’è antagonista né opposizione, non c’è l’ombra di un contrasto, non ci sono barriere a impedire l’incontro fra i due corpi: il film è tutto qui, consumato nell’atto del cercarsi, nel piacere di trovarsi, nel godimento del desiderio realizzato.

Sono due ore di benessere artificiale, quelle di Call Me by Your Name, iperchic cine-spa che intorpidisce leggermente i pensieri ma ammalia i sensi. Certo, per farla scoppiare basterebbe poco. Ma è una bolla così bella, così rotonda e così felice che la voglia di crederci, sia pure per lo spazio di un film, è più forte di ogni tentazione.

Inclusa quella di bucarla, sadicamente, con il pungolo della realtà.

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“Mine”: un passo avanti per il cinema di genere in Italia https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mine-un-passo-avanti-per-il-genere-in-italia/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mine-un-passo-avanti-per-il-genere-in-italia/#respond Mon, 19 Sep 2016 08:10:38 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3575 Fabio Guaglione e Fabio Resinaro si incontrano tra i banchi di scuola nella metà degli anni Novanta, in un liceo scientifico di San Donato Milanese. Vogliono fare il cinema. È però subito chiaro che non hanno intenzione di seguire il percorso fenotipico del giovane “cinematografaro”: è il 2004, e loro si mettono in testa di […]

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Fabio Guaglione e Fabio Resinaro si incontrano tra i banchi di scuola nella metà degli anni Novanta, in un liceo scientifico di San Donato Milanese. Vogliono fare il cinema.

È però subito chiaro che non hanno intenzione di seguire il percorso fenotipico del giovane “cinematografaro”: è il 2004, e loro si mettono in testa di girare un cortometraggio di fantascienza spaziale in 35 millimetri, con scenografie ricostruite in studio e un gran numero di effetti digitali. Eppure solo due anni dopo E:D:E:N è pronto, e sbaraglia la concorrenza ai festival di genere di mezzo mondo. Poi un mediometraggio, insieme a SKY. Poi un altro corto, che li porta al Festival di Sitges nel 2008. Lì però, ancora non lo sanno, in ballo c’è molto più che un premio. In giuria c’è il loro Big Fish, nel senso proprio di un pesce grosso: un producer della 20th Century Fox. E così arriva la telefonata. Fabio e Fabio volano in America, i produttori vogliono fare un film proprio dal loro cortometraggio. È presto chiaro però che la major vuole snaturare il progetto, e i nostri si trovano di fronte al dilemma: Hollywood o le proprie idee?

Tornano in Italia, back to square one. Realizzano faticosamente un lungometraggio nel 2012, True Love, che in Italia non riesce a uscire nelle sale, e poi hanno l’idea di Mine.

Mine racconta la storia di un soldato americano che si trova solo, in territorio straniero, con il piede sopra una mina. Pensando alla vostra carriera, quanto c’è di autobiografico?

F.G. [ride] Beh, il film parla dell’importanza di non perdere la determinazione e andare avanti, soprattutto quando sembra che non ci sia nessuna direzione in cui sia meglio andare. Molto, direi!

F.R. C’è sempre tanto di autobiografico nei nostri film, anche perché cerchiamo di prendere una situazione che può essere tipica, e guardarla da un punto di vista diverso e personale.

mine_low4Questo punto di vista personale si sente nel film, anche se vedendolo in anteprima ho avuto più volte l’impressione di trovarmi di fronte a un’opera più mainstream che indipendente, un film “americano”. Voi come lo definireste?

F.R. Per noi è assolutamente un film indipendente, a partire dal budget. Senza dare numeri, il film è costato la metà di quanto costa una tipica commedia italiana! Per raggiungere quello standard qualitativo ci siamo occupati di tutto, dalla scrittura agli effetti visivi. Il nostro approccio è quello dei filmmaker, non abbiamo fatto scuole, ci siamo buttati subito imparando sul campo nei quindici anni di esperienza insieme.

F.G. Siamo cresciuti in Italia, ma le nostre influenze culturali vengono dal cinema americano e dalla cultura asiatica. Personalmente credo che il nostro, così come Jeeg Robot, faccia parte di una volontà di rinascita e realizzazione di prodotti competitivi a livello internazionale. Poi che il film si faccia a Hollywood o a San Donato Milanese non ci interessa.

Però a differenza del film di Mainetti, Mine è girato all’estero, in inglese, e con un cast di rilievo tutto americano.

F.G. Ci sono storie che hanno bisogno di un certo registro: per quanto mi riguarda, se sto vedendo un film di sci-fi ambientato su un’astronave e il personaggio parla italiano mi sento “espulso” dal film immediatamente. È una questione culturale. Jeeg Robot ha fatto un lavoro splendido, e diverso.

mine_low1E quindi per quale mercato è Mine?

F.R. Pensa soltanto che il film uscirà prima in Italia, e solamente nel 2017 nel resto del mondo. Bisogna iniziare a ragionare in maniera diversa, solo non siamo abituati.

F.G. Come spesso si sente purtroppo quando si parla di questi nuovi progetti fuori dagli schemi, anche noi abbiamo avuto problemi a trovare un produttore in Italia. Ma perché fermarsi al nostro paese? Siamo andati all’estero perché là c’erano i soldi per fare il film, Peter Safran [il produttore] aveva già realizzato Buried – Sepolto vivo, sapevamo che poteva capire la nostra storia. Lui si è fidato a mandare due esordienti su un’isola in Spagna, con un attore americano, Armie Hammer, che veniva dall’esperienza di The Social Network di David Fincher. Qui non sarebbe successo.

A proposito di fiducia, quanta libertà avete avuto, e come ve la siete guadagnata?

F.R. Abbiamo convinto il produttore con le nostre idee, per esempio la sceneggiatura era lunga 94 pagine, meno dello standard americano, eppure avevamo già tutto il film in testa, e sapevamo che alla fine non sarebbe stato corto, anche perché si tratta di un plot difficile, poteva anche annoiare. Se non stanca è stato anche merito di Armie Hammer, che ha retto con il suo magnetismo un film che lo vedeva per gran parte del tempo bloccato su una mina nel deserto. Sul set certe volte rimanevamo incantati mentre lui a fine take improvvisava anche solo con un gesto, che però era sempre perfetto.

F.G. E poi alle volte per superare alcuni ostacoli basta farsi furbi. Per esempio nel film si parla della Manovra Shuman, un modo disperato per sfuggire all’esplosione di una mina. Avevamo un consulente ex-marine sul set e pensavamo che avrebbe scoperto che l’avevamo inventata, così siamo andati prima da lui e gli abbiamo detto “la conosci la Manovra Shuman, giusto?”, e lui “Sì, certo”.

F.R. Lo abbiamo spiazzato.

mine_low2Ci ho creduto anche io! Anche per il suo valore simbolico all’interno del film. E devo dire che il vostro è un film carico di simbologie.

F.G. È la nostra cifra. Ci piace costruire rimandi e ci fa piacere che anche gli spettatori se ne accorgano. Mine parla di un soldato su una mina, ma anche di tutte quelle situazioni in cui ci siamo trovati bloccati, e abbiamo dovuto confrontare le nostre paure. Parla a tutti.

E adesso la domanda classica. Dopo Mine?

F.G. In America ci rappresenta un’agenzia, lì funziona che ti mandano i copioni senza il regista e tu scegli, ma non è sempre facile lavorare su un copione di altri… Abbiamo le nostre idee.

F.R. Intanto aspettiamo che esca! Mine ci ha rubato la vita dal 2012 più o meno. Abbiamo delle idee, ma prima vogliamo vedere il nostro esordio al cinema.

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