Antonio Dikele Distefano Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 19 Jul 2023 13:12:16 +0000 it-IT hourly 1 Dalla pagina allo schermo: Dikele e Autumn Beat https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/dalla-pagina-allo-schermo-antonio-dikele-distefano-e-autumn-beat/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/dalla-pagina-allo-schermo-antonio-dikele-distefano-e-autumn-beat/#respond Sun, 13 Nov 2022 09:20:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17927 Nei giorni dell’uscita su Prime Video della sua opera prima Autumn Beat, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Antonio Dikele Distefano. Ex-rapper, romanziere per Mondadori, editore multimediale per il suo magazine, sceneggiatore di Zero, serie Netflix, Dikele è un trentenne iperattivo e parla quattro lingue. Racconta la Milano del 2010 immersa nella cultura black, agli albori […]

L'articolo Dalla pagina allo schermo: Dikele e Autumn Beat proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Nei giorni dell’uscita su Prime Video della sua opera prima Autumn Beat, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Antonio Dikele Distefano. Ex-rapper, romanziere per Mondadori, editore multimediale per il suo magazine, sceneggiatore di Zero, serie Netflix, Dikele è un trentenne iperattivo e parla quattro lingue. Racconta la Milano del 2010 immersa nella cultura black, agli albori di una nuova scena hip hop con giovani italiani di seconda generazione.

Tito non parla bene ma scrive pezzi rap per il fratello Paco, più spregiudicato e ambizioso. Tra loro una ragazza, tanta musica da scrivere e far conoscere in giro, e intorno tanti amici della crew. A partire da screzi e fraternità, fino alla corsa per il successo, Dikele parla dei figli dell’immigrazione, una nuova fetta di società italiana che sta iniziando a raccontarsi anche nei film.

Il cinema, come la letteratura, risulta spesso un insieme di rimodulazioni drammaturgiche sul vissuto degli autori. Il tuo esordio in regia è una storia di due fratelli, della loro dualità, e in qualche modo ricorda quella tra te e Ghali.
Può essere. Dai, sì, si può dire che siamo stati fratelli, e in un modo o in un altro lo siamo ancora. Ci sono alcune cose in comune. Non abbiamo amato la stessa donna, ma magari la stessa donna era la musica. Però sì, il rapporto fraterno c’era. Nel film si rivedono mie esperienze nel mondo della musica. Ci sono dei momenti dove sono più Tito, e altri dove sono più Paco. Perché anch’io sono un bel “testa di…”.

 

Autumn Beat sembra anche il titolo di un pezzo musicale. Racconti presente, passato e futuro di questa storia rap. Il ritmo narrativo fa pensare a una partitura. Insomma, qualcosa di ancor più profondo dei temi trattati o della colonna sonora.
Se ci pensi l’Autumn Beat è ciò che dà speranza ai due fratelli, ma poi li divide. David ha l’intuizione di fare questo beat. Ma invece di realizzare il loro sogno, è ciò che li allontanerà. Ti dico, inizialmente il titolo del film era diverso. Era quello del mio romanzo, Qua è rimasto autunno. Nonostante mi piacesse molto l’idea, mi rendevo conto che cambiava ogni volta che veniva menzionato da altri. Forse non era così incisivo, lo tradivano. Così abbiamo pensato a Autumn Beat.

Quali sono le suggestioni cinematografiche con cui sei cresciuto, che ti hanno accompagnato, magari anche fino a questo set?
Tra tutti, Wong Kar-wai. Nella mia vita è successa una cosa, e di questo ringrazierò sempre mio cugino. C’è stato un prima e un dopo. Un giorno mi portò a casa un DVD di Old Boy. Dopo questo film, che mi sfracella, inizio a scoprire il cinema asiatico, fino a trovare Kar-wai. Nel progetto, la mia prima ispirazione era vicina a Ferro3 di Kim Ki-duk. Questo ragazzo che entra nelle case degli altri, invisibile, per poter vivere con la donna che ama. Non è andato avanti perché non era possibile. Qui invece ho subito suggerito al direttore della fotografia di Amazon un film ben preciso: 2046 di Kar-wai. Puntavo a quel lavoro over-the-shoulder e a quei colori caldi.

In un’intervista hai dichiarato: “In Prime Video non hanno paura della mia voce e della mia storia”. Cosa spaventa della tua storia?
Ci sono tante regole non scritte, per cui si cerca di soddisfare un pubblico che poi però non esiste. Spesso, quando parliamo di un target, sbagliamo. Le persone non sono tutte uguali, i sedicenni non sono tutti uguali. La cosa che ho trovato in Prime è stata la volontà di mettere prima la storia e poi tutte quelle regole non scritte che ci sono oggi nel mercato. Per esempio abbiamo avuto una chiacchiera lunga e intensa, piacevole, sulla parola “negro”. Non c’è stato subito un “no, non si può dire”, ma un confronto; “ragazzi, voi cosa ne pensate?”. È stato interessante mettere la storia al centro e poi tutto il resto. Per me un’esperienza super. Con loro ho avuto la possibilità di potermi esprimere senza timori, e senza certe regole che per me non hanno alcun senso.

Autumn Beat Dikele Pequeno
Antonio Dikele Distefano e Gue Pequeno.

Infatti con Prime hai firmato un contratto che ti porterà non solo a film, ma anche a progetti più trasversali.
Si, assolutamente. Io nasco sul web e ho un rapporto decuplicato con i social. Mi piace molto lavorare a contenuti e format web, e con loro sto facendo questo. L’obiettivo è quello di riuscire a portare format e contenuti che possono vivere sulle piattaforme di Prime, Twitch, TikTok, YouTube. Ma il mio obiettivo è sempre quello di riportare al cinema, e voglio provare a mettere la mia voce anche lì. Questo perché non sto mai fermo. Tra un film e l’altro dovrei star fermo un anno e mezzo, e per me è impossibile.

La musica si può ascoltare praticamente ovunque e in qualsiasi modo. Un film puoi guardarlo al cinema, in tivù o sui device. Avendo girato per una piattaforma, perdi il gusto del grande schermo. Un obiettivo o una rinuncia?
È qualcosa a cui ho dovuto rinunciare. Lo avrei voluto moltissimo, perché quando uno va al cinema stringe un patto: “ti pago e per un’ora e quaranta mi dedico solo a te”. Invece con la piattaforma non avviene: “ti pago per vedermi tutti i contenuti disponibili, con la possibilità di distrarmi e fare quel che voglio”. Il cinema resta il luogo sacro, la casa dei film. È la cosa che mi dispiace. Ma per come sono fatto, penso già a cose nuove. Spero di poter andare in sala e ai festival con un progetto futuro, se il film sarà di livello.

Da romanziere, come hai vissuto il salto dalla scrittura alla direzione di un set?
Quando fai un percorso di questo tipo, la prima cosa che scopri è che non puoi affezionarti a quello che c’è scritto sulla carta. Se lo fai, sbagli. C’è un continuo confronto, tante terre di mezzo. L’altra cosa che ti sbatte un po’ è il rapporto col tempo. Sul set parlavo con un operatore, Michel, che ha lavorato con Kechiche per La vita di Adele: facevano tre mesi di set! Vorrei anch’io lavorare così. La scrittura invece è come parlare senza essere mai interrotti. Io ho voluto fare la regia perché volevo avere il controllo di un progetto mio. Sono una persona disposta all’ascolto, ma ci tenevo a mantenere l’ultima parola.

Rispecchia anche la modalità di creazione di un pezzo in sala d’incisione.
La capacità vera, per me, è quella di sapersi scegliere le persone. Se ti circondi di persone che vogliono fare il tuo film, è fatta. Spesso invece ci circondiamo di persone che vogliono fare il loro film, ed è un limite. Io ho avuto la fortuna di incontrare persone che avevano tutte la volontà di fare il nostro film.

Invece sui tempi, avete fatto prove con gli attori prima del set?
Assolutamente sì. Abbiamo fatto quattro mesi di prove; avevo paura di sbagliare. Magari alcune cose sono meno riuscite, ma ci siamo massacrati di lavoro. Ad agosto del 2021 eravamo già negli uffici a parlare dei personaggi con il cast. Il percorso è stato lunghissimo e intenso, ma devo ringraziare gli attori.

L'articolo Dalla pagina allo schermo: Dikele e Autumn Beat proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/dalla-pagina-allo-schermo-antonio-dikele-distefano-e-autumn-beat/feed/ 0
Zero, la nuova serie italiana Netflix: young, gifted and black https://www.fabriqueducinema.it/serie/zero-serie-netflix/ Wed, 21 Apr 2021 07:52:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15459 Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata […]

L'articolo Zero, la nuova serie italiana Netflix: young, gifted and black proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata a Milano nel 2018) e liberamente ispirata al romanzo, edito da Mondadori, Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, una delle stelle nascenti nel contemporaneo panorama editoriale italiano. La ruvidezza dell’asfalto e della lente della macchina da presa, che cerca una precaria stabilità, esprime fin da subito come la serie voglia agganciarsi alla realtà con uno sguardo rivolto verso i margini. Il movimento d’apertura mostra, in modo chiaro e conciso, cosa Zero vuole essere e donare ai propri spettatori, allontanandosi da un primo misunderstanding che la tagline di presentazione – “Essere invisibile è il vero potere” – potrebbe creare nel suo ipotetico pubblico. Ma facciamo un passo indietro.

Zero nasce dalla mente di Menotti (qui in veste di showrunner), che s’ispira al romanzo di Distefano, portandolo però nel suo mondo: quello dei fumetti e dei supereroi periferici italiani (come nel celebre Lo chiamavano Jeeg Robot, del quale ha curato la sceneggiatura). L’idea di parlare di un supereroe nero e al contempo di una persona comune alletta subito la mente di Distefano, che quindi accoglie il progetto, non solo come autore del romanzo di partenza (di cui la serie, però, mantiene solo il mood dei personaggi), entrando a far parte attivamente anche del gruppo di sceneggiatura. Il motivo di questa enfasi, però, come ha sottolineato il giovane autore alla conferenza stampa di presentazione dei primi quattro episodi, non è legato tanto al concetto della diversity, ma a quello della normalizzazione di qualcosa che è già nel quotidiano, anche se si fa ancora fatica a percepirlo come tale.

In questo tentativo di normalizzazione si sceglie allora come protagonista un rider. Se, in un primo momento, questa scelta, visto che la serie è ambientata a Milano, può richiamare alla mente l’attuale situazione pandemica, subito sia Distefano che i quattro registi (Paola Randi, Mohamed Hossameldin, Margherita Ferri e Ivan Silvestrini) specificano un intento differente. Il rider rappresenta, nella realtà di tutti i giorni, il cliché dell’invisibilità: di coloro che, senza nome, sono identificati semplicemente come “quelli della pizza”. Su questo concetto verte tutto il primo episodio, che vedrà il protagonista, Omar (Giuseppe Dave Seke), presentarsi agli spettatori solo a metà puntata, quando incontra Anna (Beatrice Grannò), una ragazza che a un primo sguardo può sembrare totalmente diversa da lui, ma con il quale condivide, invece, questo dramma giovanile dell’invisibilità.

Zero la serie
Una scena di “Zero”, prodotta da Fabula con la collaborazione di Red Joint.

L’invisibilità, che  nella serie da stigma vuole diventare un potere (ispirandosi, ha detto Distefano, a Ferro tre, in cui il protagonista ha la capacità di diventare invisibile quando si emoziona), si trasforma quindi in una metafora più ampia. Non solo simbolo di un lavoro, quello dei rider, ma anche simbolo di una generazione, qui rappresentata con una doppia valenza.  Intanto, si parla di una seconda generazione a cui appartengono lo stesso Distefano, ma anche quasi tutto il cast d’attori (a Seke vanno aggiunti Haroun Fall, Daniela Scattolin, Virginia Diop, Richard Dylan Magon e Madior Fall): ragazzi italiani, che però vengono ancora identificati come “quelli nuovi” («A ventott’anni, tutto mi sento eccetto che ancora “nuovo”», afferma il giovane scrittore alla conferenza stampa). Così, questa generazione diventa invisibile, perché considerata non abbastanza italiana, sebbene ne condivida mentalità e gusti culturali, né abbastanza straniera dalla propria famiglia d’appartenenza. Rispetto a quest’ultimo punto, già nelle prime linee di dialogo del primo episodio il protagonista sottolinea come l’incomunicabilità che ha con il padre non sia solo una questione di lingua. Qui, si apre allora allo spettatore la seconda valenza del termine “generazionale”.

L’invisibilità infatti non è quella solo della seconda generazione, ma in generale di tutti i ragazzi troppo timidi per avere il coraggio di affermare fortemente e ad alta voce le proprie scelte e i propri pensieri. L’invisibilità diventa quindi un segno di riconoscimento per una fascia di pubblico ancora più vasta, che si cerca di agganciare anche tramite una regia energica che stimola lo spettatore (rimediando a dialoghi spesso troppo didascalici, che funzionano meglio su carta che su schermo). Si ha dunque un piano d’ascolto emotivo particolarmente forte che, tornando alla figura del rider, trova un’ampia risonanza nella rappresentazione della città e, nello specifico, nella periferia (Zero è ambientata nel Barrio, quartiere periferico di Milano). Un ambiente anche questo, popolato dai giovani, spesso invisibile e che la nuova cultura musicale ha pian piano iniziato a far emergere.

Ruolo centrale nella serie, che vuole trattare una “storia di strada”, è quello assunto dalla colonna sonora, che si scandisce tra le musiche ideate appositamente da Yakamoto Kotzuga (già autore della colonna sonora di Baby), ai brani di Mahmood (che per la serie ha composto anche un inedito e che ha ricoperto il ruolo di music supervisor dell’ultimo episodio), fino ad arrivare a quello scenario che si muove tra R&B, urban, rap e trap.

Insomma, Zero (le cui prime quattro puntate su otto escono oggi su Netflix) è una serie che, nel raccontare la storia di un ragazzo timido con lo strano superpotere di diventare invisibile ogni qualvolta provi una forte emozione, cerca di allargare il panorama audiovisivo nostrano, per i protagonisti che sceglie, la regia e il genere che si apre al fantasy, seppur lasciandolo ancorato, tramite il racconto di formazione, a una realtà totalmente italiana e quotidiana.

 

 

 

 

 

 

L'articolo Zero, la nuova serie italiana Netflix: young, gifted and black proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>