Anna Foglietta Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 30 Sep 2022 12:20:00 +0000 it-IT hourly 1 Per niente al mondo, ascesa e caduta di un onesto chef https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/per-niente-al-mondo-ascesa-e-caduta-di-un-onesto-chef/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/per-niente-al-mondo-ascesa-e-caduta-di-un-onesto-chef/#respond Thu, 15 Sep 2022 08:17:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17682 In Un giorno all’improvviso Ciro D’Emilio esordiva ottimamente con la spirale percorsa da una donna dipendente dal gioco. Era un’Anna Foglietta mai così ispirata, tant’è che il ruolo le fruttò un meritatissimo Nastro d’Argento nel 2019. Impersonava una donna della provincia campana, una sconfitta in partenza che cercava di lottare a modo suo contro una […]

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In Un giorno all’improvviso Ciro D’Emilio esordiva ottimamente con la spirale percorsa da una donna dipendente dal gioco. Era un’Anna Foglietta mai così ispirata, tant’è che il ruolo le fruttò un meritatissimo Nastro d’Argento nel 2019. Impersonava una donna della provincia campana, una sconfitta in partenza che cercava di lottare a modo suo contro una vita amara. Questa volta il regista si sposta in una provincia di confine tra Friuli e Veneto guardando alla storia di uno chef di successo alle prese con l’ulteriore scalata per rinnovare narcisisticamente il suo ristorante. Il protagonista di Per niente al mondo è Guido Caprino. Intenso e potente il suo Bernardo subisce una netta caduta che lo porterà ingiustamente dietro le sbarre.

Intorno a questo atletico gastronomo con gli hobby di vino e rally si muovono complici gli amici di una vita. Un ex-calciatore di Serie A, Diego Ribon (recentemente visto nella Siccità di Virzì), e un politico locale in carriera, Antonio Zavattieri (visto su Netflix come Arrigo Sacchi nel Divin Codino). Il loro legame sarà messo a dura prova proprio dai fatti intorno a quelle sbarre che devieranno drasticamente tutto e tutti. Così anche la figura del coprotagonista Boris Isakovic, nella parte del compagno di cella di Bernardo, assumerà pericolose ambivalenze.

Ispirato a una vera storia di cronaca, il regista ha dichiarato di aver seguito anche alcune suggestioni da «Il Profeta di Jacques Audiard, per la forza stilistica e la modalità di messa in scena; 21 Grammi di Alejandro Iñárritu, per la potenza del racconto visivo e ravvicinato dei personaggi, oltre che per la coraggiosa narrazione non-lineare; The Wrestler di Darren Aronofsky, per come la regia metteva in valore sia gli aspetti umani sia gli aspetti spettacolari del film». E infine «My name is Joe di Ken Loach, per come viene esplorato il valore della resilienza del protagonista».

A differenza di questi film e del suo stesso esordio D’Emilio non osa abbastanza. La sua storia questa volta è ancora più estrema e amara, il suo protagonista è un Caprino maturo che lo segue in toto, ma il pastiche non ci restituisce quel fascino che meriterebbe anche il bel montaggio di Gianluca Scarpa. Un buon lavoro di flashback e flashforward con allacci su dettagli che amalgamano i piani temporali. Insomma, Per niente al mondo rotola forte e incisivo come una pietra sullo stomaco, sì, ma non riesce a trovare la forza di far volare lo spettatore al momento giusto. Di librarlo su quell’aura di fascino che, nel bene o nel male dei protagonisti, e a prescindere dal tipo di finale, hanno in comune tutti i film citati dal regista. Ecco, manca di fascino perché l’anima rubata al protagonista non viene fuori dal film per conquistarci del tutto.

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Anna Foglietta tra cinema pop e indipendente: «Ma dentro tremo» https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/anna-foglietta/ Thu, 15 Apr 2021 08:50:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15443 Quattro candidature ai David, una ai Globi d’Oro, altre cinque ai Nastri d’Argento più due vittorie: quando le elenco tutti i riconoscimenti della sua carriera, come previsto Anna Foglietta ride e fa un gesto netto con la mano, come a dirmi “non è niente di ché”. Sappiamo che non è così, soprattutto perché del percorso […]

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Quattro candidature ai David, una ai Globi d’Oro, altre cinque ai Nastri d’Argento più due vittorie: quando le elenco tutti i riconoscimenti della sua carriera, come previsto Anna Foglietta ride e fa un gesto netto con la mano, come a dirmi “non è niente di ché”. Sappiamo che non è così, soprattutto perché del percorso di Anna Foglietta colpisce un insolito e invidiabile equilibrio.

Cammina, funambolica, tra la gavetta a teatro e l’esordio in televisione, fino a quel fortunato salto in lungo dritta nel cinema mainstream dei grandi incassi. Diventa un volto della commedia italiana, che si traduce anche in popolarità e guadagno economico, eppure continua a scegliere puntualmente l’incognita del cinema indipendente e delle opere prime. E, a dirla tutta, ci vede piuttosto lungo.

A oggi potresti rilassarti, comodissima, su progetti che incassano senza troppe fatiche. Che vuol dire per te scegliere di investire in un’incognita e non soltanto in grandi produzioni e registi noti?

Io la vedo come un’incognita solo in parte: anche i grandi registi possono commettere un errore e non centrare un film. Sono molto attratta dalle opere prime e dai giovani perché hanno uno sguardo sul reale che è completamente diverso dal mio e che mi aiuta a comprendere come comunicare con le nuove generazioni. È una questione anagrafica, ma è anche vero che ora le cose vanno talmente più veloci rispetto a prima, che un divario di dieci anni pesa come un trentennio di differenza.

A volte ho l’impressione che tu ti senta più a tuo agio nel cinema indipendente: ci ho preso?

Ci hai preso, è assolutamente così. Credo di sentirmi più libera. Se si va a snocciolare la mia carriera è un po’ particolare: ho fatto una grande gavetta ma ho avuto anche la fortuna di iniziare a lavorare nel mainstream super pop. Arrivando dal teatro ho esordito in TV con La squadra, che in realtà era un prodotto indipendente nel panorama televisivo dell’epoca: tra sceneggiatura, regia e cast, c’era un taglio che poi magari non ho ritrovato in Distretto di polizia. Poi ho iniziato a lavorare con i grandi maestri della commedia, in primis Carlo Vanzina, e ho fatto il cult movie di Massimiliano Bruno, Nessuno mi può giudicare. Insomma, sono stata lanciata nella grande commedia all’italiana diventandone uno dei volti, ma in parallelo sentivo che non era esattamente il ruolo per il quale avevo iniziato a fare questo mestiere.

Ti mancava qualcosa?

Non c’è un filone nel quale voglio rientrare, però ci sono delle cose che mi piace esplorare. Ecco, nel momento in cui ho avuto l’opportunità di essere lanciata da film che hanno incassato e mi hanno resa popolare, offrendomi anche candidature e premi, ho potuto permettermi di ritagliarmi delle piccole oasi di sperimentazione. Parallelamente al filone più pop, ho provato anche a crescere senza abbandonare la motivazione che mi ha spinto a fare questo mestiere: la ricerca.

Ora immagino ti capiti di dover scegliere tra un film “pop” e un’opera indipendente: come ti muovi di fronte a questi bivi?

Posso dire con grande onestà intellettuale che per me l’aspetto economico e contrattuale ha sempre una rilevanza minore. Sono una donna che si è formata in una condizione socio-economica molto umile, quindi non ricerco per forza gli agi. Negli ultimi dieci anni le mie scelte sono state dettate solo dall’interesse, ma prima era diverso. Ricordo bene quando sono arrivati i primi guadagni. La mia prima pubblicità fu nel 2000. Fa davvero molto ridere, immagina: mi chiama Gabriele Muccino per uno spot delle Pagine Gialle. Mi danno 5 milioni di lire per due giorni di riprese. Io guadagnavo 30 mila lire a replica a teatro, facendomi un mazzo incredibile. All’epoca con mia madre ci prendevamo il Porto, il liquore, alle cinque del pomeriggio: sembravamo due anziane, parlavamo nel nostro salottino e ci dicevamo: «Ma ti rendi conto? Secondo me si so’ sbagliati».

Ci si abitua mai a guadagnare bene?

Forse crescendo. Credo sia parallelo a un discorso di dignità: le scelte che fai devono ricevere anche una gratificazione economica per iniziare davvero a goderti quello che hai costruito. Ci si abitua davvero? Io vengo da una famiglia modesta e il fatto che sono diventata una persona che può permettersi degli agi l’ho vissuto quasi come un tradimento. Il denaro però per me ha un’importanza, soprattutto rispetto ai miei figli: non mi piace che abbiano l’idea che sia tutto semplice, lo trovo volgare e raccapricciante. Di contro, se c’è da concedermi il lusso di un regalo, ora penso che me lo sono sudato e quindi è giusto che io me lo conceda.

Mi fa sorridere che tu abbia utilizzato il concetto di «tradimento»: è lo stesso che uso con la mia psicoterapeuta quando parlo del rapporto con i soldi.

Infatti ci ho scritto uno spettacolo su questo, si intitola La bimba col megafono e parla proprio del percorso di elaborazione in cui deve emanciparsi dalla sua condizione proletaria, per usare un termine un po’ marxista. Ma non ho mai dimenticato le mie origini e ne sono orgogliosa.

Anna Foglietta in Un giorno all'improvviso
Anna Foglietta in “Un giorno all’improvviso”.

Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio è stato un “cavallo indipendente” vincente: come è nato quell’incontro?

È arrivato nella mia vita nel 2014. Succede che sto girando Tutta colpa di Freud di Paolo Genovese, dove Emanuela Ianniello, la moglie di Ciro D’Emilio, è l’assistente di edizione. È lei a segnalarmi a Ciro per Un giorno all’improvviso. Io davvero non so come abbia fatto ad intravedere in me quel personaggio mentre sul set interpretavo una trentenne rampante, super up e omosessuale, che poi decide di diventare etero: piena commedia. Le devo molto per aver colto qualcosa ed essere stata così lungimirante. A detta sua potevo essere adatta a interpretare una madre affetta da narcisismo patologico che viene accudita dal figlio quindicenne. Ed è così che arrivo a leggere la sceneggiatura: è potente e dolorosissima, do la mia disponibilità e firmo la lettera d’intenti. Poi passano tre anni finché Ciro non mi richiama e cominciamo a lavorare.

E non passano tre anni qualsiasi: Noi e la Giulia, Perfetti sconosciuti, Il premio, uno dietro l’altro. Qualcuno, al tuo posto, forse ci avrebbe ripensato…

Questa è una di quelle scelte che non fai minimamente per soldi. Mio marito mi diceva: «Ti vai a fare ’sto bagno di dolore, ma sei sicura? Con tre figli, pensaci, lavori tanto, sei stanca». Ma sapevo che era una di quelle cose importanti che dovevo fare nella vita, e col senno del poi devo riconoscermi un certo fiuto per queste storie. E poi è come andare in palestra: prima ti dedichi alle spalle, poi tapis roulant e poi un po’ di trazioni. Ogni linguaggio dell’attore va allenato come fosse un muscolo diverso. L’attore deve sempre essere molto tonico: nel flaccidume la recitazione non trova un terreno fertile.

Deve essere tosto, però, il passaggio continuo tra una grande produzione e «un bagno di dolore». Non hai mai paura?

Io ho molta paura. Sono una donna che risulta assolutamente risoluta e forte, ma facendo questo mestiere ovviamente non lo sono. Mi auto-convinco ma dentro tremo. Ogni volta che inizio un nuovo progetto, soprattutto questi film “da salto nel vuoto”, ho crisi di ansia, non dormo, ho mal di testa. Si instaura uno schema fisico di malessere che quasi è diventato un rito scaramantico: spero che il mio corpo lo produca perché così mi preparo. In realtà è un travaglio: ho paura ma poi mi dico anche che si può sbagliare, non è detto che ogni volta la scelta sia giusta. Però mi ritrovo quasi sempre a riguardare il progetto e dirmi che ho fatto bene.   

Per esempio Il contagio di Botrugno-Coluccini è un’opera prima indipendente che avrebbe meritato più risonanza, non trovi?

Parliamo di due pezzi di cuore, Matteo e Daniele sono due amici fraterni per me, come Ciro. Un giorno all’improvviso è stato in concorso a Orizzonti a Venezia, Il contagio alle Giornate degli Autori, sono due riflettori diversi nello stesso Festival. Credo che il film di Ciro abbia avuto una strategia di comunicazione e un impatto mediatico differente, e che la critica lo abbia amato particolarmente, era una partitura perfetta. In maniera diversa, Il contagio è piaciuto ma non completamente, veniva da un romanzo apprezzatissimo e il confronto tra letteratura e cinema è sempre complicato. Resta il fatto che rispetto al panorama generale è una spanna sopra alla media.

E poi nel cinema indipendente non è neanche detto che il termometro del successo arrivi nelle mani del pubblico. Come ti spieghi allora certi exploit di popolarità?

Vabbè, dipende anche molto dal sapersi proporre e vendere. Non cito nessuno perché rischierei di essere fuori luogo e sgradevole [ride]. Ci sono film che sono stati osannati dalla critica e li trovo più che mediocri, anzi, ruffiani e furbetti. Però evidentemente non ci capisco niente io e ci capiscono tutto gli altri.

La cosa ti fa arrabbiare?

Rispetto a questo mercato e a queste logiche di venerazione io mi trovo francamente impreparata e incredula. Ho smesso di arrabbiarmi perché penso che certe cose vadano comprese, piuttosto che opporsi. Ma continuo a preferire l’onestà di certi altri progetti.

Anna Foglietta in Il contagio
Anna Foglietta in una scena de “Il contagio”.

Qui entrano in gioco anche le piattaforme streaming on-demand. Stiamo andando nella stessa direzione del giornalismo online? Un “dentro tutti” in cui pesci buoni e cattivi convivono nello stesso acquario?

Tante volte inizio un film ma se non mi piace, dopo dieci minuti lo interrompo. Questa è la risposta che credo debba essere più analizzata: lo facciamo tutti. I film sulle piattaforme streaming non si vedono: si consumano. Li mettiamo, li cambiamo, non ce ne frega niente di arrivare fino in fondo ma ci permettiamo di giudicarli senza averne visto nemmeno la metà. Ma che vuol dire? Al cinema sei lì, ti concentri, cerchi di entrare in una storia e coglierne gli aspetti, poi hai tutti gli elementi per poter valutare. È inevitabile che i film sulle piattaforme siano visti con meno attenzione. Ormai esiste il fenomeno del Double Screen: mentre guardo la TV consulto il cellulare. Però si è capito quanto margine di fruizione ci sia sulle piattaforme e quindi si produce tantissimo, e di conseguenza nella massa dell’offerta la qualità a volte rischia di venire meno. Parlo soprattutto della scrittura, che ha bisogno di tempo e sedimentazione per emergere in tutta la sua unicità. Di certo il settore dell’audiovisivo ne sta guadagnando, perché non c’è mai stato tanto lavoro come in questo periodo. E di questo sono felice, soprattutto considerando l’anno terribile che abbiamo vissuto.

Ma qualche bella scoperta l’hai fatta ultimamente sulle piattaforme?

Sono reduce da SanPa e ne sono rimasta colpita, mi è piaciuto moltissimo. E poi Fleabag, The Marvelous Mrs. Maisel e Ozark che ha una fotografia bestiale, sono tutte cose che ho amato tanto. 

Alessandro Borghi, Matilda De Angelis, Benedetta Porcaroli, i tantissimi usciti da Skam: talenti che noi fabriquers avevamo anticipato, sono stati nostre cover in tempi non sospetti. Anche tu li avevi intercettati?

Con Benedetta abbiamo fatto Perfetti sconosciuti, ricordo di aver subito detto: «È pazzesca, che viso e che determinazione!». Mi piace perché è una ragazza molto concentrata. Con Borghi andavamo in palestra insieme ai tempi di Un medico in famiglia, poi lo ritrovai durante il provino di Non essere cattivo: aveva fatto una trasformazione fortissima, glielo dissi. Mi sono trovata davanti un attore con un’emotività, un cuore e una preparazione unica in Italia. Da quel provino ho capito che era un talento, un outsider. Con Matilda ho fatto Il premio e tante di quelle chiacchierate: io amo quella donna. Trovo che sia un talento a tutto tondo, a Sanremo potrebbe fare anche la conduttrice, e poi canta divinamente! Recita con verità e spontaneità, è bellissima, ha testa, è interessante, studia tutto e non solo il settore. È una immersa nella vita.

È anche la prova che stiamo assistendo al ritorno di una vecchia maniera di fare scouting: giovani attori con gavetta minima o nulla alle spalle, che però vengono lanciati subito in serie A e iniziano a studiare solo dopo. C’è poco da dire, alcuni sono forti davvero. Il tuo invece è un percorso di gavetta serrata e lunghe attese: come guardi a questo cambiamento?

Il nostro mestiere, soprattutto quando ti lancia in una grande popolarità e sei molto giovane, ti rende impreparato. Questo è l’unico vero rischio. Non vedo criticità nel diventare popolari, acquisire un ruolo e solo dopo approfondire il mestiere: il processo accademico, se non hai davvero un quid in più, può appiattirti e livellare il tuo vero estro. Questo è un lavoro che più lo fai e più lo impari (anche se una grande attrice un po’ âgée mi ha detto che invece col tempo si può anche diventare dei cani). Ma farei attenzione al sistema che ti osanna, soprattutto adesso con i social: quando non hanno il riflettore puntato magari lo devono ricreare, e quindi sono sempre accesi. Però stare sempre “on” nel nostro mestiere non porta quasi mai alla felicità.

Ma poi è così bella tutta questa storia dei riflettori?

No, è molto faticoso in realtà. Devi sempre stare in parte. Io cerco sempre di mantenere inalterata la mia spontaneità, ma è inevitabile che io stia facendo una performance. Anche ora, durante quest’intervista.

 

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Venezia 75: Un giorno all’improvviso, la gioventù secondo D’Emilio https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-75-un-giorno-allimprovviso-la-gioventu-secondo-demilio/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-75-un-giorno-allimprovviso-la-gioventu-secondo-demilio/#respond Wed, 05 Sep 2018 15:38:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11265 Dopo Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri e Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire, debutta nell’ottava giornata della Mostra del Cinema di Venezia una nuova opera prima italiana, presentata questa volta nella sezione Orizzonti. Un giorno all’improvviso segna l’esordio di Ciro D’Emilio che, dopo una serie di cortometraggi e collaborazioni come sceneggiatore, decide […]

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Dopo Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri e Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire, debutta nell’ottava giornata della Mostra del Cinema di Venezia una nuova opera prima italiana, presentata questa volta nella sezione Orizzonti. Un giorno all’improvviso segna l’esordio di Ciro D’Emilio che, dopo una serie di cortometraggi e collaborazioni come sceneggiatore, decide di raccontare una toccante storia di formazione ambientata in una piccola cittadina della provincia campana. Antonio è un ragazzo di diciassette anni che, tra allenamenti e lavoretti, sogna di diventare un calciatore professionista. La sua vita non è però facile come quella di molti suoi coetanei: mentre il padre l’ha abbandonato da bambino senza alcun rimpianto, la madre è estremamente problematica, tanto che spesso lo stesso Antonio è costretto ad occuparsene. Le cose sembrano cambiare quando la squadra di calcio del Parma lo nota e lo invita ad un provino.

un giorno

Raccontando i sogni e le speranze di un giovane, il lungometraggio di D’Emilio si allinea con la nuova ondata di pellicole di formazione che sta investendo il cinema tricolore nel corso degli ultimi anni. Rispetto ai predecessori veneziani e non, Un giorno all’improvviso non colpisce sicuramente per inventiva, ma ricorre ad alcune soluzioni narrative e rappresentative comunque molto interessanti.

Più dei precedenti, la storia si focalizza anzitutto su un singolo protagonista che, pur dialogando costantemente con altri personaggi, monopolizza interamente la scena. Proprio per questo, a sorprendere è il giovane Giampiero De Concilio che, al suo esordio sul grande schermo dopo marginali esperienze televisive e teatrali, propone un’interpretazione già estremamente matura ed equilibrata: il suo Antonio si delinea come un personaggio realmente a tutto tondo, capace di mutare i diversi stati d’animo e le conseguenti emozioni senza mai perdere la propria identità. Accanto a lui, si muove anche la brava Anna Foglietta che, nel ruolo minore della madre psicologicamente instabile, offre un ritratto veritiero della malattia mentale, senza sfociare mai nella parodia.

un giorno

Da un punto di vista creativo, la regia di Ciro D’Emilio si presta ad una verosimiglianza linguistica e rappresentativa, votata naturalmente all’intrattenimento del pubblico. Al contrario di molte opere prime, D’Emilio non tenta di caricare il proprio lavoro di echi artistici e cinematografici, ma indaga in modo pulito e ordinato il micro-cosmo che desidera raccontare. Come un moderno cantore, il cineasta piega il proprio stile alle esigenze del racconto, seguendo con costanza Antonio nei suoi confronti con la madre, con gli amici e con la giovane guagliona che gli ha rubato il cuore.

Costretto a diventare adulto prima del previsto, Antonio non è solo il centro focale della narrazione, ma è anche il cuore pulsante della messa in scena che, partendo proprio dallo sguardo innocente del ragazzo, dipinge un affresco mai banale della campagna napoletana, scissa tra il grigio delle strade semi-urbane e il verde dei campi da calcio. Con coerenza ed equilibrio, il regista ha quindi nuovamente evidenziato l’importanza che il protagonista ricopre in quest’opera, riuscendo – a discapito però di qualsiasi rischio – ad intrattenere e convincere.

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“Perfetti sconosciuti”: metti, una sera a cena https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perfetti-sconosciuti-metti-una-sera-a-cena/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perfetti-sconosciuti-metti-una-sera-a-cena/#respond Tue, 16 Feb 2016 08:33:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2700 I film ambientati in una sola location sono perfetti per tirar fuori dai personaggi le sfumature caratteriali meno prevedibili. Sono sufficienti una cena e un gruppo di personalità differenti e ben definite che nel lasso di tempo limitato di una serata entrano in conflitto a causa dello spazio ristretto in cui si trovano e di […]

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I film ambientati in una sola location sono perfetti per tirar fuori dai personaggi le sfumature caratteriali meno prevedibili. Sono sufficienti una cena e un gruppo di personalità differenti e ben definite che nel lasso di tempo limitato di una serata entrano in conflitto a causa dello spazio ristretto in cui si trovano e di un pretesto come, in questo caso, un gioco basato sulla sincerità: tutti decidono di mostrare, infatti, da un certo momento in poi, il contenuto dei propri telefoni cellulari. Chiamate, messaggi, email. Quel che è privato viene svelato. Non ci sono più segreti, e il film così ci mostra senza freni e senza timidezza per la sua intera durata ogni possibile conseguenza derivante dalla sospensione della sfera privata.

La forza di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese sta nell’utilizzare al meglio il potere del cinema di rendere parlato il pensiero per mezzo di una sceneggiatura che non si vergogna di scavare a fondo. La nascita di vari equivoci provoca difatti reazioni che mostrano i lati oscuri dei caratteri, la polvere celata sotto il tappeto della coscienza. Una volta frantumato l’involucro del comune buon senso, l’immondizia accantonata è pronta a incendiarsi attraverso dialoghi feroci e intelligentemente scritti, pronunciati da attori a loro agio proprio perché liberi di incattivirsi laddove necessario. È la scrittura, ancor prima della regia, che quindi aiuta un cast ben assortito come questo (con le vette raggiunte dal trio Giallini – Mastandrea – Battiston) a scaldarsi e dominare la scena.


Nel frattempo, fuori dalla casa in cui i commensali litigano, è in corso un’eclissi lunare, metafora di una minaccia incombente così come il passaggio di una cometa lo era nell’indipendente Coherence (altro caso di film su una cena che prende una piega imprevedibile), o l’imminente impatto del pianeta Melancholia nell’omonima e più nota opera di Von Trier. Sembra che certi film ambientati soprattutto in interni, nel momento in cui si aprono all’esterno, abbiano bisogno di guardare a qualcosa di incredibilmente distante eppure angosciante come l’universo per raffigurare paure inconsce. E nel nostro caso il lato oscuro della luna sta a rappresentare il più grande terrore, il più grande tabù, che è quasi sempre lo stesso nel cinema e nell’arte in generale: il tradimento. La paura che il vincolo dell’esclusività possa rompersi, per via di quel delitto che risiede nel desiderare qualcun altro al di fuori del sistema-coppia.

Quest’angoscia la avvertiamo anche noi spettatori, che ci riconosciamo nei brevi e intensi scambi di sguardi tra i protagonisti, colti dai numerosi cambi di inquadratura con cui Genovese interviene registicamente, anche se è pur vero che qualche stacco in meno ci avrebbe fatto godere maggiormente della contemporaneità delle risposte emotive di ciascun personaggio. Il regista tuttavia preferisce la sottolineatura, con singoli (primi) piani d’ascolto che per fortuna non sfociano mai nella didascalia.
Anche la musica ha il compito di sottilineare, ma se fosse stata completamente assente non ne avremmo sentito più di tanto la mancanza, così come non ne sentiamo in altri film di “tavolate” come Il fascino discreto della borghesia, per citare un esempio eccellente.

Va detto però che c’è il preciso intento da parte di Genovese di movimentare dall’interno l’impostazione teatrale della narrazione mediante gli strumenti resi disponibili dal cinema come, oltre al commento musicale e al montaggio, alcune lievissime ma frequenti carrellate presenti in situazioni in cui non sarebbe stato un problema lasciare la macchina da presa fissa su un treppiedi. Al di là di questo, in ogni modo, il risultato è efficace, pungente e l’amaro che lascia in bocca ci ricorda quello assaggiato su vecchie terrazze scoliane.

E chissà se è un caso che il film si chiuda con la visione di un palazzo in Piazzale delle Belle Arti che appariva proprio in quel film del 1980, che portava via con sé tutta la vecchia commedia all’italiana, la quale però a quanto pare continua a pulsare, pronta a esplodere con buoni risultati come è successo stavolta, nel cuore di ogni italiano, di ogni perfetto sconosciuto.

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