animazione Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:24:47 +0000 it-IT hourly 1 La fabbrica italiana dei cartoons https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/la-fabbrica-italiana-dei-cartoons/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/la-fabbrica-italiana-dei-cartoons/#respond Wed, 24 Jul 2024 15:07:17 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19228 Negli ultimi anni l’industria dell’animazione ha registrato un notevole successo commerciale, che però ha portato anche a una sovrapproduzione. Con un numero sempre maggiore di cartoons rilasciati ogni anno, il rischio è quello di saturare il mercato e ridurre l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico per le nuove uscite. Perciò sia gli studi cinematografici che i […]

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Negli ultimi anni l’industria dell’animazione ha registrato un notevole successo commerciale, che però ha portato anche a una sovrapproduzione. Con un numero sempre maggiore di cartoons rilasciati ogni anno, il rischio è quello di saturare il mercato e ridurre l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico per le nuove uscite.

Perciò sia gli studi cinematografici che i creativi si trovano a dover bilanciare la domanda del pubblico con la necessità di mantenere la qualità e l’originalità delle loro produzioni. Anche in Italia.

Secondo l’Osservatorio europeo dell’audiovisivo, nel nostro Paese l’animazione è in crescita, anche grazie alla Legge Cinema che ha permesso di fissare il tax credit al 40%, riportando la proprietà intellettuale nelle mani delle produzioni italiane, che prima erano costrette a cederle ai coproduttori stranieri. Da noi l’animazione ha trovato terreno fertile soprattutto, ma non solo, nel campo della serialità e, se prima si guardava ai rating televisivi, adesso è fondamentale la sentiment analysis: le produzioni cercano di percepire attraverso social, siti e canali digitali l’effettivo gradimento dei prodotti e delle rispettive campagne di comunicazione.

A ogni modo, il panorama italiano di oggi è caratterizzato da una vivace comunità di animatori, registi e artisti che lavorano sia nell’ambito del lungometraggio che delle serie tv animate. Il successo di film come La gabbianella e il gatto, Leo da Vinci: Missione Monna Lisa, Yaya e Lennie – The Walking Liberty e Mary e lo spirito di mezzanotte ha dimostrato che c’è un mercato per il cinema d’animazione italiano, e numerosi talenti emergenti o affermati stanno collezionando riconoscimenti a livello internazionale. Nel caso della serialità animata, invece, il prodotto più famoso resta il Winx Club, iconica serie animata italiana trasmessa in oltre 150 paesi; creata da Iginio Straffi e prodotta dalla casa di produzione Rainbow, la serie ha debuttato nel 2004 e da allora ha generato un vasto franchise che include serie tv, film, giocattoli e molto altro ancora. Sono tante le medie realtà italiane del settore, come Mondo Tv, creatrice di La famiglia Passaguai, Sissi – La giovane imperatrice e Pocoyo, Gruppo Alcuni, che ha dato vita a Lupo Alberto, Pet Pals e Leonardo, e la divisione di Rai Ragazzi, con Geronimo Stilton e Il piccolo principe. Sono sempre di più anche gli studi indipendenti che contribuiscono ad arricchire il panorama, come Lanterna Magica per i corti e le serie animate, Studio Bozzetto & Co del famoso animatore Bruno Bozzetto e le napoletane MAD Entertainment, fondata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella, con il loro premiatissimo Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Marino Guarnieri, Ivan Cappiello, Dario Sansone, e Uanèma Entertainment, con Fiammetta di Nicola Barile, che celebra uno degli amori più famosi della letteratura italiana, quello tra Fiammetta e Boccaccio. Titoli, questi ultimi, che mostrano l’importanza dell’ancoraggio al territorio e alla cultura locale.

Diversity strategy

Gli eventi e i festival che forniscono dei report dettagliati sull’andamento dei contenuti animati in Europa sono numerosi: il CartoonNext di Marsiglia, il Cartoon Movie a Bordeaux, il Cartoon Springboard di Madrid e il Cartoon Forum di Tolosa. Si tratta solo di alcuni dei panel del settore, insieme a quelli organizzati dai grandi festival dell’animazione come Imaginaria e Annency. Ed è dal 2022 che i dibattiti ospitati dal CartoonNext evidenziano fra l’altro la necessità di stabilire nuove coproduzioni internazionali, per dar vita a un nuovo modello europeo, solido abbastanza da competere con quelli dominanti: il modello giapponese e quello americano.

animazione in Italia

È stato proprio Luca Milano – che sarà direttore di Rai Ragazzi con mandato fino al 2025 – a spingere sull’importanza del lavoro di squadra. Infatti oltre il 50% dei prodotti animati italiani coinvolge una coproduzione francese (Lupin Stories), tedesca (Leo Da Vinci) o spagnola (Annie & Carola). Questo tipo di coproduzioni dovrebbe indirizzare le aziende e i talenti verso un obiettivo comune, abbandonando una certa forma di protezionismo culturale che non ha fatto altro che nuocere al settore, impendendo al mercato europeo di diventare competitivo sul piano mondiale. Secondo Milano, un altro passo importante sarebbe stabilire una nuova forma di alleanza tra i brodcaster nazionali e i produttori indipendenti, ponendo fine a una rivalità interna del mercato che finisce per danneggiare entrambi.

Più di recente invece, nel corso dell’ultimo CartoonNext, il tema centrale è stato quello della diversity e dell’inclusività nei contenuti per bambini, in un’ottica critica verso la meccanizzazione di elementi applicati forzatamente, al solo scopo di far risultare il prodotto al passo con le nuove aspettative dei consumatori. La diversity infatti è un punto focale del nuovo dibattito sulle produzioni animate, ma è necessario che non sia una lista da spuntare per far approvare un contenuto, ma un’attitudine, parte della missione aziendale. La diversità e l’inclusione non sono questioni risolvibili solo ampliando il ventaglio etnico dei personaggi o evitando un certo tipo di umorismo; è una tema di accessibilità dei contenuti, di costante aggiornamento e revisione della diversity strategy, ma anche di lavoro fatto dietro le quinte nei team stessi di produzione.

Un tipo di impegno che, nel loro piccolo, tentano di portare avanti con successo molti giovani talenti dell’animazione italiana ed europea. Federica Carbone e Anita Verona ne sono un esempio con il loro Astrid and the School of Astronauts: Astrid è una bambina albina di sette anni che vuole fare l’astronauta e il cartone animato mostra una figura femminile in grado di promuovere con naturalezza lo studio delle discipline STEM da parte delle bambine, solitamente escluse o scoraggiate nell’intraprenderle. La serie spagnola Sex Symbols, di Paloma Mora, accosta invece edutainment, sessualità e affettività. I quattro protagonisti Carla, Mia, Max e Hugo, stanno per affrontare l’adolescenza e devono venire a patti con i cambiamenti del proprio corpo. La serie è supportata da Save the Children e, con la consulenza di medici e psicologi, il cartone animato affronta temi come il desiderio, l’orientamento sessuale, l’identità di genere e le malattie sessualmente trasmissibili.

Nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle questioni sociali attraverso l’animazione, la più grande difficoltà sta però nelle tempistiche: i minutaggi sono sempre più ridotti e ci si ritrova a dover affrontare e risolvere un tema complesso anche in un paio di minuti, correndo il rischio di semplificare troppo. Un’altra difficoltà risiede nella scelta di contenuti controversi o di temi sgradevoli o spaventosi, come la pandemia, l’estinzione delle specie animali a rischio, il riscaldamento globale o il genocidio, senza creare troppa distanza con lo spettatore o cadere vittime della censura. L’animazione deve sempre essere un terreno di incontro e i professionisti devono essere liberi e consapevoli, pronti a prendersi la responsabilità di cosa portano sugli schermi.

Rodari e Goldrake

Insomma, poiché è indubitabile che i cartoni animati sono elementi radicati nella nostra cultura, vanno padroneggiati in modo cosciente. Già negli anni Ottanta Gianni Rodari dichiarava in un articolo di schierarsi «dalla parte di Goldrake», e invitava gli spettatori a non focalizzarsi solo sugli aspetti eventualmente negativi dei cartoni, ma a riconoscere e comprendere i contenuti entrati a far parte della vita di milioni di ragazzi, per ampliare l’esperienza dei bambini e perché non restasse circoscritta o isolata. In quei disegni innocenti, colorati, pieni di fascino e mistero spesso si nasconde un significato insondabile, perché il segreto di un prodotto destinato a diventare un classico – anche per l’infanzia – non sta nella riduzione della complessità ma nella stratificazione del senso, che non ne riduce l’accessibilità ma ne democratizza la comprensione.

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Mariacarla Norall costruisce mondi fantastici https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/mariacarla-norall-costruisce-mondi-fantastici/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/mariacarla-norall-costruisce-mondi-fantastici/#respond Mon, 27 May 2024 09:34:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19145 Regista, sceneggiatrice e scenografa di animazione di origine italo-inglese, Mariacarla Norall inizia la sua carriera studiando architettura a Manchester per poi trasferirsi a Napoli e lavorare alla MAD Entertainment, la factory creativa e produttiva fondata a Napoli nel 2010 e amministrata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella. Alla MAD, insieme a un team fluido e […]

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Regista, sceneggiatrice e scenografa di animazione di origine italo-inglese, Mariacarla Norall inizia la sua carriera studiando architettura a Manchester per poi trasferirsi a Napoli e lavorare alla MAD Entertainment, la factory creativa e produttiva fondata a Napoli nel 2010 e amministrata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella. Alla MAD, insieme a un team fluido e affiatato, lavora per vari reparti ai film Gatta Cenerentola, Yaya e Lennie – The walking Liberty e alla serie animata Food Wizards disponibile su Netflix Italia.

Mariacarla Norall diventa una costruttrice di mondi fantastici e con il suo talento si affianca a una nuova generazione di giovani donne che si stanno facendo strada nel mondo dell’animazione 2D e 3D. Il suo primo corto animato Lizzie and the Sea, prodotto da MAD e presentato nella sezione International Showcase al Cartoons on the Bay 2023, ne mostra tutta la capacità narrativa: gli sforzi che la piccola Lizzie compie per affrontare la paura del mare sono accompagnati da un lavoro compositivo pieno di grazia che fa presagire un brillante futuro.

Come sei arrivata all’animazione?

Ho studiato architettura all’università di Manchester ed è stato un percorso di laurea bellissimo. Purtroppo, ero meno interessata alle leggi della fisica e alle restrizioni delle normative di legge… insomma, a tutto ciò che rende reale e fruibile un progetto. Eppure, per come la vedo io, tutto ciò che mi ha entusiasmato della laurea in architettura, lo ritrovo nel mestiere che faccio oggi. Per me il mondo del cinema e dell’animazione, in particolare della scenografia, è un rifugio nel quale posso e devo vivere come se la mia fantasia fosse realtà. Certo, ci sono restrizioni anche qui – perché anche l’immaginario più incredibile ha bisogno di una logica per poter apparire credibile agli spettatori – ma alla fine dei conti passo le mie giornate a creare luoghi e situazioni che… in realtà non esistono! Mi piace dire che faccio l’architetto delle cose inventate.

Al centro del tuo corto di esordio, Lizzie and the Sea, c’è il tema della paura e di come rischia di bloccarci, mentre è appena l’inizio di un’incredibile avventura trasformativa.

La paura è un sentimento che conosciamo tutti. Anche se a volte ci aiuta a proteggerci dal dolore, spesso non fa che alzare un muro tra le abitudini che ci sono familiari e le nuove entusiasmanti esperienze di cui potremmo godere se solo avessimo il coraggio di affacciarci all’ignoto. L’ironia della sorte vuole che Lizzie, impaurita dell’acqua, abiti proprio in riva al mare. La sua fobia le impedisce di godersi i piccoli grandi momenti di gioia come il bagno a mare o schizzarsi in acqua con il fratello. Per affrontare la paura, suo malgrado, Lizzie deve tuffarsi letteralmente nell’ignoto, che si rivela meno terribile di quanto pensava.

“Lizzie and the Sea”.

La produzione è di Mad Entertainment: mi racconti del rapporto che hai con loro e del lavoro che hai svolto nel corso del tempo da Gatta Cenerentola fino a Lizzie and the sea?

Sono con MAD ormai da otto anni. Dopo la laurea ho lavorato in uno studio di render architettonici a Londra, ma ero alla ricerca di lavori in ambito cinematografico, pur non avendo ancora nessuna esperienza nel settore. Un amico di Napoli mi suggerì di fare domanda alla MAD, che in quel momento cercava una segretaria di produzione per il film Gatta Cenerentola. Non era il ruolo artistico a cui ambivo, ma pensai che potesse essere un buon modo per affacciarmi al mondo dell’animazione, quindi nel giro di pochissimo lasciai lavoro e casa a Londra, subaffittando la mia stanza e pensando di fare un’esperienza lavorativa a Napoli di solo pochi mesi. Otto anni dopo eccomi ancora qui! A poco a poco sono passata dalla produzione al concept e set design e infine alla regia. Con gli amici scherzo sul fatto che sono l’unica persona che ha lasciato l’Inghilterra per trovare lavoro a Napoli! Alla MAD mi sono state concesse delle libertà che non avrei trovato altrove, come sperimentare ciò che mi incuriosiva ma che non faceva parte del mio ruolo, per esempio concept art, post produzione e sceneggiatura. Così ho potuto imparare sotto l’ala dei miei colleghi, in particolare del regista Alessandro Rak che ha scelto di includermi nella squadra artistica e delle scenografe, sempre generose nel condividere con me il loro sapere.

A livello tecnico quali programmi o tecniche (digitali o meno) preferisci usare in questo momento?

Il primo passaggio di qualsiasi idea per me avviene sempre a mano, anche in forma di un incomprensibile sketch a penna bic. In un secondo momento mi aiuto a visualizzare gli spazi creando un’immagine di pittura/collage digitale in Photoshop. Oppure creando delle forme in 3D, con Blender, un software open source. Tendo però a preferire il mondo visivo dell’animazione in 2D, motivo per cui per Lizzie and the Sea siamo stati attenti a creare personaggi, set e metodi di render che potessero avere come effetto finale un risultato apparentemente in 2D.

Quali personalità del cinema tradizionale e d’animazione ti ispirano?

Apprezzo moltissimo il lavoro di Cartoon Saloon, lo studio di animazione irlandese che ha creato film come Wolfwalkers e Song of the Sea. Quest’ultimo, diretto da Tom Moore, è stato di grande ispirazione visiva per Lizzie and the Sea. Adoro sia la sua scelta di raccontare storie legate alla mitologia del luogo in cui abita, sia l’impasto visivo di colori e texture che rende corposo e fiabesco ogni frame del film. Sono poi una grande fan di Wes Anderson, in particolare del suo modo di inscenare film live action come se fossero rappresentazioni teatrali: ho sempre pensato che sarebbe divertentissimo lavorare alle scenografie per un suo film. Adoro anche il suo modo di sottolineare e valorizzare gli aspetti più strampalati dei personaggi, è un’ode all’eccentricità che rende ognuno di noi unico e umano.

C’è un aneddoto emblematico che ha segnato il tuo percorso?

Un aneddoto che mi sta molto a cuore risale a quando vincemmo il premio per i Migliori Effetti Speciali ai David di Donatello per Gatta Cenerentola. Registi e produttori del film erano nel pubblico per seguire la premiazione, mentre il nostro team artistico aveva deciso di incontrarsi quella sera e aprire lo studio in via del tutto eccezionale, per guardare tutti insieme la trasmissione. Ordinammo delle pizze e scrivemmo un messaggio a uno dei quattro registi – Marino Guarnieri – con una lunga lista dei nostri nomi per chiedergli di leggerli sul palco se avessimo vinto. Un gesto che, col senno di poi, sfidava ogni regola della scaramanzia, ma che si rivelò di buon auspicio perché poco dopo venne annunciata proprio la nostra vittoria. L’emozione e l’adrenalina nel ricevere quel premio raggiunse il suo apice quando Marino sfilò dalla tasca il cellulare e, in prima visione, ci elencò uno a uno come promesso.

Mariacarla Norall
Mariacarla Norall.

Hai partecipato a molti festival, come Giffoni e Cartoons on the Bay. Com’è interagire con il pubblico?

Non immaginavo che partecipare ai festival mi sarebbe piaciuto così tanto! Ogni volta che si conclude un festival torno a casa con un’energia rinnovata. Il Giffoni, in particolare, è un’esperienza che non mi scorderò di certo. In inglese usano l’espressione to dive in at the deep end, che letteralmente vuol dire “tuffarsi dove non si tocca”, ovvero trovarsi in una situazione completamente nuova senza nessuna preparazione, e per me il Giffoni è stato così! Alla mia prima proiezione sono entrata in un tendone pieno di migliaia di bambini, con un livello di decibel inimmaginabile, e mi chiedevo come avrebbero fatto a seguire i corti. Ma li avevo sottovalutati: al termine si è formata una lunga fila di bimbi con le domande più disparate, alle quali gli altri registi e io ci siamo divertiti moltissimo a rispondere. Negli ultimi festival è stato indubbiamente incoraggiante ricevere complimenti e approvazione da altri professionisti del settore, ma nulla mi ha entusiasmata tanto quanto vedere interesse e curiosità nei volti dei bambini che hanno visto il mio corto.

A cosa stai lavorando in questo momento e a quale target pensi di rivolgerti nei tuoi prossimi progetti?

Ho tante idee che mi frullano in testa per nuovi corto/mediometraggi, anche se credo che a questo giro il target non saranno i bambini (per loro ho in mente un libro illustrato di racconti, ho già delle bozze). Mi sento molto ispirata da ciò che mi circonda: abitare a Napoli, e più specificamente nel mio quartiere, è come avere dei biglietti in prima fila a teatro. Gli spettacoli sono quasi quotidiani, basta affacciarsi al balcone per vedere inscenate commedie, drammi e, purtroppo, anche tragedie. Ma anche la mia personale storia familiare è fonte di grande ispirazione. Crescere a cavallo di due culture, figlia di due famiglie che competono tra loro per ricchezza di aneddoti strampalati e fuori dal comune, è una ricchezza che un giorno mi piacerebbe poter raccontare attraverso il cinema. Nel frattempo sto lavorando ai concept e al set design del lungometraggio Sono ancora vivo prodotto da MAD e diretto da Roberto Saviano, presentato al Cartoon Movie 2023. In questi giorni il mio pane quotidiano sono le planimetrie, per cui si può dire che la mia laurea in architettura è tornata pienamente a dare i suoi frutti e, come mi auguravo, sono diventata architetto delle cose inventate.

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Questo mondo non mi renderà cattivo. Ma ci regala Zerocalcare https://www.fabriqueducinema.it/serie/questo-mondo-non-mi-rendera-cattivo-ma-ci-regala-zerocalcare/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/questo-mondo-non-mi-rendera-cattivo-ma-ci-regala-zerocalcare/#respond Thu, 08 Jun 2023 14:10:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18500 S’intitola Questo mondo non mi renderà cattivo la nuova serie Netflix creata da Zerocalcare. Perché dovrebbe renderci cattivi questo mondo? Perché le ingiustizie si nascondono dietro ogni vicissitudine del nostro eroe Zero. Lui oramai è uno scrittore affermato anche se non ha mai dimenticato le sue origini, lottando o resistendo ogni giorno per i propri […]

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S’intitola Questo mondo non mi renderà cattivo la nuova serie Netflix creata da Zerocalcare. Perché dovrebbe renderci cattivi questo mondo? Perché le ingiustizie si nascondono dietro ogni vicissitudine del nostro eroe Zero. Lui oramai è uno scrittore affermato anche se non ha mai dimenticato le sue origini, lottando o resistendo ogni giorno per i propri ideali. Ma più che altro cerca di non svenderli asfaltandoli come intorno accade a troppi. L’ultimo lavoro di Michele Rech guarda proprio al modo in cui si è cambiati crescendo, ma stavolta nel quartiere Rebibbia il passato ritorna indossando la tuta e la faccia da schiaffi di un vecchio amico bullo. Tornano anche gli amici di sempre come Sara e l’inossidabile Secco, ma soprattutto l’Armadillo impersonato da Valerio Mastandrea.

Il mondo di Rebibbia rappresenta un microcosmo italiano capace d’incamerare, rappresentandole, tutte le beghe e le pecche del Paese a partire da un’effettiva imparità di genere che aspira sempre alla parità. Questa volta i temi scottano più del solito, c’è la preoccupazione per termini inquietanti come “sostituzione etnica” intorno a un centro d’accoglienza che rischia la chiusura. Si parla in maniera tragicomica di un’Italia che bolle di rabbia, ma senza perdere mai leggerezza, comicità e poesia l’autore ci porta proprio vicino al fuoco scatenante spiegandocene le dinamiche. La periferia di Zerocalcare trascende dall’esistenzialismo metropolitano assurgendo a commedia di vita e raggiungendo sempre catarsi su amare prese di coscienza.

Se Strappare lungo i bordi si poneva come un coming of age, un diario di rivelazione, accettazione di sé stessi e crescita dei vari personaggi, nel 2023 si fanno i conti con le aspettative tradite dal proprio operato e con certe scelte adulte che potrebbero minare quanto messo insieme finora. Cosa si cela dietro lo sconforto per la sconfitta? E perché nella vita si continua a perdere? Viene da chiedersi di fronte ai personaggi vinti. “A me non me se bevono! Io ho fatto ‘na serie co’ Netflix, ormai faccio come cazzo me pare!” Si lascia sfuggire Zero sfogandosi al telefono con la mamma Chioccia. La sua posizione rispetto allo scenario che ha intorno è ultra-pasoliniana. Nel senso che se quest’ultimo raccontò la periferia vivendola in prima persona ma da estraneo che sceglieva di essere lì, Zero è la mosca bianca che gioca in casa e sceglie di restare per vivere e raccontare il suo habitat sociale dall’interno. L’imbarazzo del successo e la lotta per restare coerenti emergono chiaramente da questa nuova serie.

Poi non manca il carrozzone di battute destinate a diventare tormentoni dei millenial e situazioni paradossali di pura comicità keatoniana. Buster Keaton era il comico triste, che non rideva mai. In un certo modo anche il personaggio fumettistico Zero è così, riuscendo a ottenere sempre il sorriso del suo pubblico. La risata qui però non è l’obiettivo, ma il mezzo, uno dei tanti, quello più facilmente intercettabile in superficie per catapultarci in un mare di contraddizioni sociali, mancanze politiche e insoddisfazioni popolari che ritrae a perfezione il sottobosco emotivo dell’Italia di oggi.

Così Mastandrea col suo Armadillo dispensa consigli per laurearsi all’Università della Strada mentre i “falliti rancorosi” vengono contrapposti dall’amara riflessione di Calcare a “quelli magnati dar senso de colpa, gli esecrabili, quelli che hanno svoltato da soli”. Svoltare da soli lasciando indietro gli altri, il gruppo. E tra questi Cesare, l’amico bullo, ritornerà da un inferno ancora fumante. Alla fine sono gli amici quelli che contano nella vita di Zero. E il rispetto degli altri, il vero bug, ostacolo, che questo mondo dimentica cercando di renderci cattivi.

Prodotto di punta per la lungimirante Netflix che si è accaparrata il genio di Rech, debutterà dal 9 giugno con tutte le sue sei puntate da circa mezz’ora l’una. La serie di Rech fa bella mostra di un’animazione già iconica e di una regia sempre sua piena di raffinatezze e rimandi stilistici a tanto cinema cult spaziando da Robocop a Guy Ritchie, non evitando mai frecciatine a prodotti della nostra industria culturale, sonnolenti come i Don Matteo o adrenalinici come Breaking Bad, resi parodia di sé stessi nelle locandine che spesso appaiono sullo sfondo. E forse i più gustosi easter egg di questa serie.

 

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Strappare lungo i bordi, parla il produttore: “All’estero non ci credevano capaci di fare una serie così” https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-parla-il-produttore-allestero-non-ci-credevano-capaci-di-fare-una-serie-cosi/ Thu, 25 Nov 2021 09:50:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16435 Da quando il 17 novembre è approdata su Netflix, Strappare lungo i bordi, la serie d’animazione scritta da Zerocalcare, continua la scalata verso il successo. Un punto di svolta per il noto fumettista che, ritrovandosi tra nel catalogo della piattaforma di streaming più famosa al mondo, ha avuto l’occasione di allargare ulteriormente il proprio pubblico. […]

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Da quando il 17 novembre è approdata su Netflix, Strappare lungo i bordi, la serie d’animazione scritta da Zerocalcare, continua la scalata verso il successo. Un punto di svolta per il noto fumettista che, ritrovandosi tra nel catalogo della piattaforma di streaming più famosa al mondo, ha avuto l’occasione di allargare ulteriormente il proprio pubblico. Ma si tratta di una tappa importante anche per l’animazione italiana tutta. Dietro alla serie c’è Movimenti Production, una realtà indipendente e lungimirante che ha saputo puntare sul prodotto giusto al momento giusto, quello che potrebbe cambiare le carte in tavola per l’intero settore. In attesa di vedere se ciò accadrà davvero, abbiamo parlato con Giorgio Scorza, che della serie originale Netflix più di tendenza del momento è il produttore.

Quando e perché nasce Movimenti Production?

Nasce nel 2004 da me e Davide Rosio. Ci siamo conosciuti che ero ancora uno studente, abbiamo iniziato a fare dei corti insieme, ma dopo un paio di videoclip ci siamo resi conto che con la partita iva non andavamo da nessuna parte e abbiamo quindi deciso di aprire una società. La nostra idea era quella di fare il più possibile cose firmate da noi, anche se sono stati fondamentali all’inizio i lavori di advertising per altre agenzie. Ma Movimenti Production è nata perché volevamo fare il nostro lavoro senza essere ridotti alle offerte che ci arrivavano dagli altri.

Cosa significa occuparsi di animazione in Italia?

Significa sicuramente avere tanta buona volontà. Il nostro paese adesso è molto più alfabetizzato al linguaggio dell’animazione, grazie a internet e alle piattaforme, ma fino a qualche anno fa non era così. Fare animazione significa quindi formare da zero diverse figure, andare a studiare anche all’estero senza però tradire l’unicità italiana. Di certo non è facile. Negli ultimi anni però sono stati inseriti il tax credit e altri supporti, fondamentali per recuperare terreno ad esempio rispetto al cinema, che riceveva invece sovvenzioni statali a noi negate. Quindi è complicato fare animazione in Italia, ma fortunatamente lo è sempre meno.

strappare lungo i bordi

Parlando invece di Strappare lungo i bordi, da dove deriva l’idea di produrre una serie di Zerocalcare?

Noi da sempre abbiamo cercato di spingere sull’animazione adult animation e non per bambini. L’abbiamo fatto con i videoclip e con delle serie da noi scritte. Senza Zerocalcare però fare un prodotto d’animazione adult in Italia e in così poco tempo non sarebbe stato possibile, perché c’era bisogno della garanzia di un nome forte. Quando Michele [Michele Rech, il vero nome di Zerocalcare], dopo l’esperienza di Rebibbia Quarantine, voleva imparare ad animare meglio e con un software più evoluto, si è appoggiato al nostro studio grazie al consiglio di un amico. Il suo intento iniziale era quindi quello di imparare. Noi non abbiamo mai forzato la mano per fare qualcosa insieme. Quando ha avuto l’idea giusta, passando per altre cose che non lo convincevano, collaborare è stato scontato.

A livello pratico quale è stato il processo di lavorazione di Strappare lungo i bordi e quanto è durato?

Il processo in totale è durato circa nove mesi parlando di produzione stretta, undici se si considerano tutti i passaggi, dallo script alla consegna del master: sono tempi follemente brevi per l’animazione, anche se non tutti lo sanno. Michele ha scritto le sceneggiature, ce le ha passate e a quel punto abbiamo cominciato a prendere le prime decisioni registiche, scegliendo il ritmo sostenuto che caratterizza la serie. Tant’è vero che le sceneggiature erano di trenta pagine, ma noi promettevamo a Netflix di ricavarne puntate di diciotto minuti. Michele ha poi cominciato a registrare i dialoghi su degli sketch che montava e ci mandava per dirci come si era immaginato le varie scene. Noi quindi facevamo lo storyboard, lavorando sulle inquadrature, sulla messinscena e sul respiro del racconto. Parallelamente sviluppavamo i personaggi, cercando di ricreare l’universo di Zerocalcare in una versione che fosse animabile, che avesse continuità con il suo lavoro ma al tempo stesso qualcosa di diverso. La sfida è stata mantenere la sua unicità, ma inserire delle differenze che lo rendessero un prodotto vivo e non semplicemente “un fumetto in movimento”. Abbiamo poi registrato le voci definitive di Michele e Valerio Mastandrea e sulle voci montato i primi effetti sonori per dare atmosfera, per poi mandare tutto in animazione. Quando ci arrivavano le scene facevamo dei test di compositing, per capire come tenere insieme i vari momenti delle puntate, che sono tanti e diversi tra loro. Bisognava trovare un modo per incastrate tutto quanto perfettamente. Michele in tutto ciò è stato davvero un professionista perché ci ha permesso di fare tranquillamente ciò che serviva per far funzionare la serie.

Come è stato quindi lavorare con un autore il cui tratto e la cui identità sono così riconoscibili?

Chi fa animazione è davvero un artigiano certosino e Michele anche, quindi ci siamo trovati subito. C’era una precisione maniacale che portava tutti a non essere soddisfatti finché non si raggiungeva il risultato desiderato. Michele poi è una persona molto collaborativa, nonostante abbia sempre lavorato da solo. All’inizio infatti era terrorizzato, ma una volta ricevute le prime tavole quella paura si è dissolta e ha lasciato spazio all’eccitazione. Certo, c’è stato chi ha dovuto studiarsi il suo stile grafico nel dettaglio, ma come sottolineavo prima, in parte lo abbiamo variato. Il contributo di Michele è stato ovviamente necessario, ad esempio molte scene sono ambientate in casa sua e lui ci ha mandato foto e piantine, ma poi ci ha lasciato espandere il suo universo. Siamo stati meticolosi e filologici, ma anche propositivi. Sembra banale, ma dal momento che i suoi fumetti sono in bianco e nero per lui un grande cambiamento è stato l’inserimento del colore. Abbiamo ragionato tanto su che colori usare e su come usarli, ci siamo inventati ad esempio delle campiture a pennellate secche che dessero profondità e unicità stilistica alla serie, cercando anche di restituire l’effetto analogico della carta.

Strappare lungo i bordi

E invece doversi confrontare con un colosso dello streaming come Netflix ha cambiato qualcosa del vostro normale processo di lavorazione?

Sicuramente Netflix è una major internazionale, ma per noi non era un’esperienza del tutto nuova avendo lavorato con Disney. Eravamo quindi a conoscenza dei meccanismi, della regolamentazione e della gerarchizzazione che vige in ambienti simili. L’approccio è sicuramente molto americano, ma dato che noi siamo particolarmente meticolosi quel tipo di controllo non è stato un ostacolo. Non c’è stato neanche alcun problema editoriale, grazie allo scudo protettivo che rappresenta in Italia il nome di Zerocalcare. Devo dire che siamo stati sempre rispettati in quanto professionisti e artisti, persino il dipartimento adult animation londinese è rimasto stupito da quanto stava succedendo in quello che secondo loro era un paese senza una tradizione forte di animazione alle spalle.

Avete altri progetti in cantiere e pensi cambierà qualcosa per Movimenti Production dopo Strappare lungo i bordi?

Sì, abbiamo altri progetti che erano pronti prima della collaborazione con Michele, ma che sicuramente ne gioveranno soprattutto per quanto riguarda il rapporto con gli editori: se prima potevano essere titubanti sul fatto che stessimo in Italia e che determinate cose potessero non funzionare ora non c’è più questa preoccupazione. Quindi sì, stiamo andando avanti e stiamo lavorando molto con Stati Uniti e Inghilterra, cosa che per il nostro settore è davvero importante. Poi c’è anche tutta la parte dedicata ai bambini la quale a sua volta sta procedendo spedita, sia con delle serie che con un lungometraggio. Siamo molto carichi insomma, perché se prima qualcuno non sapeva che fossimo sulla mappa adesso non può fare a meno di saperlo.

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Strappare lungo i bordi: Zerocalcare alle prese con il senso (ironico) della vita https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-zerocalcare-alle-prese-con-il-senso-ironico-della-vita/ Mon, 15 Nov 2021 08:32:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16383 E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece […]

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E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece vagassimo senza sapere cosa vogliamo nella vita? Ragionandoci, ci rendiamo conto che alla fine «è dal tempo degli antichi Greci che l’uomo se domanda se è meglio conoscere l’ignoto col rischio che sia un accollo o rimane’ nell’ignoranza, dove però nessuno te caga il cazzo».

Questa è la premessa della nuova miniserie disponibile dal 17 novembre su Netflix: Strappare lungo i bordi, ideata da Michele Rech, alias Zerocalcare (qui, a pag 10, una nostra intervista agli esordi). Prodotta da Movimenti Production in collaborazione con BAO Publishing, questa miniserie italiana (dalla forte risonanza internazionale) nasce dopo il successo raggiunto dall’artista romano durante i lockdown con i suoi corti trasmessi a Propaganda Live Rebibbia Quarantine. Così, collaborando nuovamente con Valerio Mastandrea (come in La profezia dell’armadillo, presentato nella sezione Orizzonti alla 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica del cinema di Venezia), Zerocalcare ha incorporato lo stile delle pillole (ogni puntata dura tra i 15 e i 20 minuti) in una struttura più compatta, costruendo un mosaico ricco e complesso al di fuori delle Mura romane.

Se infatti le opere di Michele Rech hanno da sempre avuto come sfondo la cultura capitolina (basti anche pensare al suo minicorto su Instagram, sul perché il carciofo fosse il male, o al suo accento che non nasconde le flessioni del romanaccio), i temi che decide di trattare e il modo in cui lo fa non possono non ritrovare un riscontro emotivo su un pubblico molto più ampio, com’è ancora più evidente nella miniserie.

Strappare lungo i bordi
Un’immagine da “Strappare lungo i bordi”.

In un racconto costellato di flashback e aneddoti che spaziano dalla sua infanzia, a lezioni di storia e filosofia, fino ai problemi di tutti i giorni, Zerocalcare tratteggia un percorso fatto di pochissime certezze, ma che proprio grazie a questo lascia un forte impatto nello spettatore. Lo stile è sempre quello, il suo marchio di fabbrica, la sua capacità di costruire un pensiero acuto e profondo, per poi catarticamente ironizzare su ciò che ha appena detto, decostruendolo con citazioni di ogni tipo.

Seguendo la caratteristica voce a macchinetta del fumettista, in ogni puntata lo spettatore viene catapultato in un pastiche di eventi, ricordi e considerazioni, che, oltre a non marcare nettamente la distinzione tra personale e universale (come lo spezzone sulla spinosa questione del “visualizzato” o dell’”online” su Whatsapp), si incastrano, come dei tasselli, con elementi della cultura mondiale.

Si parte da citazioni più implicite, come le strade di Roma di notte che ricordano La notte stellata di Van Gogh (non a caso la scena successiva, ambientata in un museo con L’urlo di Munch, illustra in décadrage proprio il dipinto del pittore olandese), o Le follie dell’Imperatore, quando Zerocalcare manda avanti e indietro l’episodio, per spiegare le parole del suo amico Secco al pubblico, o Tim Burton, di cui riprende lo stile anche visivo nell’illustrare il suo primo fumetto; per arrivare a quelle più esplicite, dalla Seconda Guerra Mondiale, all’abisso di Nietzsche (citazione mainstream sui social), ad Achille e la tartaruga che, tra black humor e dura consapevolezza, servono ad abbozzare il discorso della linea tratteggiata che dà nome e sostanza all’intera miniserie.

Strappare lungo i bordi è questo che dona: tantissimi momenti di distrazione e battute (come la legge del maschio contemporaneo, che con il femminismo non può più neanche lamentarsi del Vietnam a cui è costretto quando deve andare in un bagno pubblico), a cui seguono repentine strette al cuore. E tu, spettatore, vieni immerso in una tempesta, in un turbinio di ironia e consapevolezza in cui sembra che il fumettista romano stia parlando proprio di te e inizi a osservare meglio quel foglio strappato male, cadendo nel nero.

Numerosi sono i “neri” presenti nelle pillole di questa miniserie. Neri metaforici e neri visivi. In uno di questi ultimi echeggiano le parole della canzone Non abbiam bisogno di parole di Ron: «Non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore». E insomma, alla fine, se bisogna descrivere l’esperienza (perché parlare di visione è troppo limitato per un prodotto del genere) di Strappare lungo i bordi basterebbe ciò, basterebbe sapere che è quel qualcosa che ci permette di spiegare quell’area buia dentro di noi. La miniserie di Zerocalcare è sicuramente qualcosa da non perdere, capace di farti ridere, riflettere e, infine, farti sentire meno solo e incasinato, dandoti risposte senza accennarne nemmeno una.

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 Yaya e Lennie, in cerca di libertà in una Napoli sepolta dalla giungla https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/yaya-e-lennie-in-cerca-di-liberta-in-una-napoli-sepolta-dalla-giungla/ Fri, 05 Nov 2021 09:03:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16342 Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molesto, Il verificatore, L’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, […]

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Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molestoIl verificatoreL’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, sporca, anti-cartolinesca. La trasfigurazione della città diventerà una cifra stilistica del regista napoletano, il campione del cinema animato contemporaneo che l’Italia può vantare, dopo il folgorante primo film, premiato agli EFA nel 2014, e poi La gatta cenerentola, presentato a Venezia nel 2017 e vincitore di due David, e infine l’ultimo, proiettato in piazza Grande a Locarno, Yaya e Lennie -The Walking Liberty, dove Napoli pure c’è, ma sepolta dalla giungla, affiorante qua e là più come monito che come reperto. 

A piazza del Gesù il clima è più clemente quando raggiungiamo Alessandro Rak e il produttore Carlo Stella, con cui chiacchieriamo su dei divani comodissimi, ma sotto l’inquietante sguardo di un cuscino con le fattezze di Darth Vader.

Prima ancora di parlare di Yaya e Lennie, vi chiederei di svelare l’iter produttivo di un cinema di animazione. Quali differenze ci sono con il cinema live action?

A.R.: Per quanto riguarda la preparazione, secondo me non c’è un grande scarto. Direi che esistono delle libertà diverse nell’immaginare. Intendo che, ovviamente, ci si fa un’idea del budget al quale si va incontro quando si pensa la storia, ma in animazione alcune cose sono meno costose di quanto sarebbero per il cinema reale, per esempio gli effetti speciali; risultano invece estremamente faticose delle cose che nel cinema reale vengono quasi spontanee con la macchina da presa. Mi spiego meglio: se parliamo dell’animazione di un personaggio, nel caso del cinema di animazione si tratta di ricostruire fotogramma per fotogramma ogni comportamento muscolare, espressivo, o addirittura le pieghe del vestito che si muovono insieme alle articolazioni del corpo, una cosa complessissima da fare. Invece nella ripresa live ci pensa l’attore, e la macchina da presa in tempo reale riprende quello che c’è da riprendere. Quanto più si vuole rendere realistico un movimento o un sentimento, tanto più diventa difficile l’animazione. Invece fare effetti speciali, anche far precipitare un meteorite, per noi è di una banalità incredibile a fronte di quello che verrebbe a costare nel cinema live. Infine, l’animazione ha la possibilità di percorrere e ripercorrere di continuo la lavorazione di un momento del film: non è legata a un ciak, ma è un lavoro di miglioramento continuativo che poi a un certo punto va necessariamente arrestato perché da un punto di vista produttivo sarebbe una follia e io e Carlo Stella non andremmo più d’accordo. 

Venendo ora a Yaya e Lennie, come è nata questa idea?

A.R.: In realtà stavamo lavorando a un altro progetto, poi però è uscito un film Disney che aveva troppi punti di contatto con quello che stavamo facendo, si sarebbe potuto forse pensare a un plagio, e invece era un progetto ispirato a una graphic novel a cui avevo lavorato una quindicina di anni fa. Abbiamo deciso di spostarci completamente, abbiamo buttato giù dal nulla un soggetto nuovo proposto dalla produzione, e da lì in tempo brevissimo abbiamo sviluppato una sceneggiatura che ci ha permesso almeno di attivare la fase di pre-produzione del film. Lo spunto originario era Uomini e topi di Steinbeck, poi elaborato dagli altri soggettisti che sono Marino Guarnieri, Dario Sansone e Francesco Filippini, per fare in modo che fosse qualcosa di diverso, che passasse dalla Grande Depressione americana, come nel romanzo, a uno scenario di crisi più estesa, globale, un’apocalisse, con personaggi che invece di essere in difficoltà a trovare un loro posto nel mondo sono giovani ancora più in difficoltà nel trovare la loro collocazione esistenziale. 

Yaya e Lennie
“Yaya e Lennie”, Ciro Priello e Fabiola Balestriere.

I due protagonisti non sono degli eroi, hanno delle fragilità, uno di loro due è raccontato come portatore di un ritardo…

A.R.: Sono antieroi perché sono fragili, e funzionano bene perché hanno due diversi “tempi del vivere”: uno dei due ha un ritardo mentale, ma invece secondo me quello di Lennie è un tempo di vivere diverso, che per certi versi è anche più saggio, più godurioso della vita, quello di Yaya invece è più frenetico, più veloce, più ansioso nella ricerca di qualcosa, ma anche più preoccupato. Questi due personaggi, appena sono venuti fuori, ci sono piaciuti per questo scarto che ci aiutava a generare un conflitto, comunque fraterno, ma che è un filo conduttore in tutta la storia.

Tu hai citato Uomini e topi, ma a un tratto si intravede la copertina di Walden di Thoreau. È stato anche quello una fonte?

A.R.: Sì. Il mito del buon selvaggio e tutte le speculazioni di fine Ottocento e inizio Novecento sulla reinterpretazione della società e la messa in discussione delle basi della civiltà sono stati elementi di discussione e di ragionamento con gli sceneggiatori.

Una provocazione: un film come questo potrebbe far nascere il dubbio che uno sconvolgimento apocalittico del genere, più che fare paura, quasi sembrerebbe auspicabile.

A.R.: Durante la pandemia, una cosa che abbiamo tutti accolto con ammirazione sono state le immagini della natura che si riprendeva i propri spazi, la vegetazione che si faceva rigogliosa, il mare che si ripuliva, fiumi e laghi di nuovo cristallini… Questa condizione fa ingolosire, però noi siamo l’uomo, la nostra presenza la dobbiamo necessariamente manifestare non restando chiusi nei nostri appartamenti, quindi le soluzioni per cui possiamo combattere dovrebbero essere diverse da una sorta di auto-annichilimento.

Dalla vegetazione affiorano opere d’arte del passato, San Matteo e l’angelo di Caravaggio, la volta della cappella di San Gennaro…

A.R.: C’era un’idea di Napoli sotto forma di reperto, il territorio sepolto da questa giungla doveva essere la città di Napoli per come la conosciamo, o anche in una sua prospettiva più avanzata, e quindi per gli amanti della città poteva essere bello veder riemergere alcune testimonianze. Questo lo abbiamo ricercato anche dal punto di vista del sonoro, con gli accenti dei personaggi, o con qualche brano musicale che affiora dal passato.

Il film non è manicheo nel raccontare gli abitanti dei villaggi come i buoni e l’Istituzione come il cattivo assoluto. Nella scena del ricovero di Lennie sembra che si voglia creare un dialogo tra le due realtà.

A.R.: Il personaggio di André è il centro di questa contraddittorietà. L’idea non era quella di costruire buoni o cattivi, ma di costruire delle parti, che poi con l’andamento del film scoprivano i loro difetti. La differenza sostanziale tra i personaggi è che ce ne sono alcuni che hanno ben chiaro come devono andare le cose, mentre altri, come i protagonisti, questa idea non ce l’hanno, hanno curiosità o paura, ma non stabiliscono come gli altri debbano vivere.

Ci raccontate la fase del doppiaggio?

A.R.: Noi in realtà non facciamo il doppiaggio, è più corretto dire che costruiamo delle voci guida. È praticamente l’opposto. La costruzione del nostro film prevede il lavoro con l’attore che poi diventa uno stimolo e una guida e una ispirazione per tutto il processo dell’animazione. Noi ricostruiamo il labiale e tutti i comportamenti fisici e somatici partendo da una voce che sentiamo in cuffia, che è una voce, appunto, ed è stata incisa da un attore che ha lavorato al buio, senza vedere niente se non qualche immagine di storyboard, o qualche schizzo preparatorio. Un attore che a sua volta segue la voce guida del direttore del doppiaggio che gli dà le indicazioni di com’è la situazione, del suo assetto fisico, di dove si trovano gli altri personaggi sulla scena, di qual è il tempo della scena, se è affrettato oppure se è molto lento, e in base a tutto questo l’attore regola la sua voce, di fatto parlando con dei fantasmi. Da questo, poi, si arriva a un lavoro di taglia e cuci che è il nostro montaggio del sonoro, che si aggiunge al videoboard realizzato nel frattempo, e così si arriva ad avere la scena già leggibile.

Tutto questo è estremamente affascinante. La fase della registrazione delle voci potrebbe essere quella in cui maggiormente il regista compie un intervento sulla realtà, che in questo caso è l’attore, che può metterci anche del suo, nell’interpretazione, seppure solo con la voce.

A.R.: E noi vogliamo che ciò accada. Vogliamo che l’attore si appropri del personaggio, per costruire quel match che nell’arco di tre film posso dire che avviene all’improvviso. Raramente sappiamo tutto dall’inizio, e nel momento in cui avviene siamo pronti a rifare tutto da capo.

C.S.: Ci vogliono grandi prove attoriali, perché in quel momento il fisico viene escluso totalmente, non gestisci più espressione, trucco, parrucco, ma è tutto affidato solo alla voce. 

A.R.: E poi ieri, in occasione dell’anteprima, abbiamo assistito alla situazione divertente che si crea dopo: gli attori, a differenza dei film live action, quando si rivedono si trovano diversi nell’aspetto, ma con dei comportamenti fisici che rimandano a loro, perché nella ricostruzione che l’animatore fa in cuffia è come se venisse naturale creare una somiglianza del personaggio con l’attore. Quindi per l’attore rivedere il film deve essere strano, perché non si è se stessi, però poi arrivano dei lampi in cui ci si riconosce.

C.R.: Inoltre, gli attori non si sono mai incontrati quando sono state registrate le voci. 

A.R.: Infatti. Nel caso di Yaya e Lennie, Ciro Priello e Fabiola Balestriere si sono incontrati, ma nel caso di altri attori, che pure nel film interagiscono, l’interazione non è stata reale. Quindi per loro deve essere una strana emozione.  

L’intervista completa sarà sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma” in uscita ai primi di dicembre.

 

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Martina Scarpelli, se il cibo è un demone https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/martina-scarpelli-se-il-cibo-e-un-demone/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/martina-scarpelli-se-il-cibo-e-un-demone/#respond Wed, 03 Jun 2020 08:01:19 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14051 Una delle voci più brillanti della sua generazione Martina Scarpelli crede nelle storie vulnerabili, provocanti, naïve, un po’ maleducate e intelligenti. È una giovane regista e illustratrice italiana emigrata in Danimarca. Ha studiato all’Accademia di Brera e, dopo aver scoperto di poter usare la telecamera al posto della matita, si è specializzata in animazione al […]

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Una delle voci più brillanti della sua generazione

Martina Scarpelli crede nelle storie vulnerabili, provocanti, naïve, un po’ maleducate e intelligenti. È una giovane regista e illustratrice italiana emigrata in Danimarca. Ha studiato all’Accademia di Brera e, dopo aver scoperto di poter usare la telecamera al posto della matita, si è specializzata in animazione al Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino. Il suo ultimo film Egg è stato proiettato in 200 festival in tutto il mondo e ha vinto oltre 45 premi internazionali. Martina è una delle voci più brillanti della sua generazione.

“L’animazione è un mezzo, non un genere”

Cosa ha portato Martina Scarpelli in Danimarca?

Mi sono trasferita nel 2015, ho ottenuto un posto in una residenza per registi – l’Open Workshop a Viborg – dove ho scritto e sviluppato il mio ultimo film Egg. Ero appena diplomata e volevo fare un mio film. Qui ho incontrato giovani produttrici che, come me, avevano bisogno di fiducia e ho scoperto sistemi di finanziamento accessibili, seppure non facili da ottenere. L’industria del cinema sta cominciando a considerare l’animazione come mezzo e non come un genere, poi qui c’è molto rispetto per chi lavora come freelance, soprattutto in ambito creativo.

Come funziona il tuo processo creativo, cosa ti ispira?

Di solito impiego anni pensando a un’idea prima che diventi un film. Sono lenta, faccio moltissima ricerca. Mi ispirano un sacco di cose: gli affreschi senesi del Trecento, il rock psichedelico, i miti greci, la NASA open source image collection, le piante grasse, gli zombie. Mi piacciono i contrasti e le contraddizioni. Trovo spesso spunti nell’arte classica, nella mitologia greco-romana e norrena, nel simbolismo cristiano o egizio. Guardo tantissimo all’iconografia medievale che spesso ricontestualizzo, amo legare le storie del passato al mio presente, fondendo culture e generi. È parte del mio processo artistico e alimenta ciò che scrivo, sia la mia produzione cinematografica che l’estetica dei miei film.

Un ritratto di Martina Scarpelli
Un ritratto di Martina Scarpelli

Egg è un corto autobiografico che mostra il lato più privato di un disturbo alimentare, nel cubo/casa Virginia è sola con i suoi demoni. L’opera è surreale e piena di simbolismi, hai compiuto una ricerca iconografica particolare?

Egg è un film su una donna che deve mangiare un uovo che non vuole mangiare. È una storia su come prendere il controllo di qualcosa di cui hai paura e fallire. È un film simbolico, le mura del mio monolocale a Milano (il cubo) non si sono mai mosse, non ho ingoiato l’uovo intero (lo feci a pezzi), e non sono annegata nel mio appartamento. L’animazione è fiction per definizione, tutto è costruito ma non c’è nulla di “non vero” in Egg. Ho cucito la mia storia sull’iconografia medievale del vizio di Gola: una donna con il collo lunghissimo. Gli antichi credevano che il piacere del cibo fosse legato al tatto e non al gusto, al contatto del cibo con le pareti della gola.

Il bello dei tuoi lavori si condensa nel tuo sguardo sul personaggio femminile, sulla sua bellezza liquida, sensuale e repellente insieme, perturbante. L’uovo che lei teme e desidera sembra il centro ma non lo è. Ed è perfetto per rappresentare un disturbo alimentare, la gente si concentra sul cibo e non sui sentimenti.

A volte mi viene chiesto cosa significa l’uovo, quando in realtà è totalmente ininfluente. Egg è la storia di una donna forte e vulnerabile, che fallisce scoprendo attraverso il fallimento una rassicurante serenità. Non è vittima, non è debole, è lei il centro. È un’esplorazione di forza, ossessione e desiderio che mostra l’aspetto attraente di questa malattia, senza giustificarla.

Frame da "Egg" di Martina Scarpelli
Frame da “Egg” di Martina Scarpelli

In Egg è stato realizzato un ottimo lavoro di sound design e d’animazione, come hai gestito il lavoro con questi reparti?

Egg è stato animato per la maggior parte da me, con l’aiuto di un piccolo team. L’animazione non è tecnica, il personaggio non è mai uguale; la linea è continua e nitida, mai rotta, a volte nervosa. Volevo si respirasse l’ossessione, l’estrema pulizia, la perfezione distorta a cui questa malattia ti porta. Volevo anche che l’animazione fosse sensuale e tangibile, ricordando il tipo di seduzione che alcuni provano in situazioni elettrizzanti, a volte collegate alle paure. Al sound design hanno lavorato Amos Cappuccio, che non usa mai il suono in maniera scontata, e Andrea Martignoni che ha tantissima esperienza e una grande sensibilità. Delle musiche si sono occupati Amos e la performer danese Sofie Birch, gli ho chiesto di ascoltare i Nine Inch Nails a ripetizione, mi piaceva il lavoro fatto su The Social Network di David Fincher, volevo profondità, texture, dolcezza e paura nelle musiche per il film. Hanno fatto un gran lavoro.

A cosa stai lavorando adesso?

Ho vari progetti nel cassetto: un paio di nuovi cortometraggi che raccontano altre storie di donne e una collezione di corti animati incentrati su alcuni processi penali a esseri non-umani intitolata The fiction of truth and the truth of fiction, che è forse un’occasione per commentare l’assurdità della nostra realtà. Tutte storie vere. Poi sto scrivendo un lungometraggio, un’opera animata che sarà musicata e cantata dal vivo: Psychomachia – A total failure with a slight sense of success. È vagamente ispirata al poema latino Psychomachia di Prudenzio; mischia la tradizione classica a un umorismo scuro e contorto, tipicamente scandinavo, che riflette bene il tempo e il luogo in cui mi trovo ora. Si tratta di un bizzarro tributo ai molti volti della nostra personalità, un film eccentrico che celebra il successo e il fallimento di chi cerca di essere qualcosa a tutti i costi. Sarà un grandioso mix di bugie e illusioni. Ho ottenuto in Danimarca i primi finanziamenti per la scrittura ma non mi dispiacerebbe avere un co-produttore italiano, essendo un’opera in musica.

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Resurrection Corporation, l’animazione “in nero” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/resurrection-corporation-lanimazione-in-nero/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/resurrection-corporation-lanimazione-in-nero/#respond Fri, 15 May 2020 07:55:26 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13939 Omaggio al Dottor Caligari, a 100 anni dal capolavoro espressionista La lavorazione di Resurrection Corporation, film d’animazione molto sui generis, ha richiesto oltre quattro anni, partendo dalla lunga gestione del soggetto e della sceneggiatura fino al complesso lavoro di character design e animazione, realizzati con tre software differenti (grafica, lip sinc e body animation). Al […]

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Omaggio al Dottor Caligari, a 100 anni dal capolavoro espressionista

La lavorazione di Resurrection Corporation, film d’animazione molto sui generis, ha richiesto oltre quattro anni, partendo dalla lunga gestione del soggetto e della sceneggiatura fino al complesso lavoro di character design e animazione, realizzati con tre software differenti (grafica, lip sinc e body animation). Al primo passaggio di lavorazione, ne è seguito un secondo mirato a raffinare i movimenti e le luci fino alla fase di post produzione in cui sono susseguiti doppiaggio, sonoro, colonna sonora e montaggio.

Bastano pochi frame, con l’uso del bianco e nero, l’animazione spigolosa e le inquadrature statiche per capire che il film derivi i suoi elementi più caratteristici dall’espressionismo tedesco: anzi, si può dire che Resurrection Corporation sia l’omaggio a che il regista Alberto Genovese e lo sceneggiatore Mattia de Pascali hanno voluto fare alla pietra miliare di quel cinema, ovvero Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, che proprio quest’anno compie giusto cento anni.

Umorismo macabro

La trama ha quel giusto grado di umorismo black che si addice ai modelli di riferimento: Caligari è un becchino che non ha più lavoro da quando la morte stessa è stata bandita dalla città, soppiantata da un metodo pratico di… resurrezione.

Quali sono state le vostre principali ispirazioni, a parte naturalmente Wiene?

Mattia Intanto in Resurrection Corporation c’è il mesmerismo [una specie di ipnotismo in voga nell’Ottocento, ndr]: nelle intenzioni di Alberto la tematica avrebbe dovuto essere anche più presente, comunque abbiamo attinto a La verità sul caso di Mr. Valdemar, il classico di Edgar A. Poe. Per quanto riguarda la cultura nazionale, non saprei indicare un modello di riferimento conscio. Di italico ci sono solo due o tre conoscenze in comune tra me e Alberto che abbiamo usato per immaginare alcuni personaggi del film…

Alberto: Sì, confermo che il leitmotiv che ha dato la spinta al film è il racconto di Poe; poi per il resto, quando penso a qualche prodotto italiano che mi ha ispirato, mi vengono in mente I tre volti della paura di Mario Bava e Contronatura di Antonio Margheriti; ma c’è anche tanto cinema classico, partendo appunto dal capolavoro di Wiene fino a La sposa di Frankenstein di James Whale.

Uno dei richiami stilistici più forti al dottor Caligari (oltre il nome) sono proprio le architetture della città. Il castello invece si ispira, suppongo, al Nosferatu di Murnau. Quali altri omaggi si nascondono nel film?

Mattia: Tutte le citazioni dal punto di vista grafico sono merito di Alberto, che mi parlava di espressionismo prima ancora che scrivessi una sola riga di soggetto. Nonostante il nome del protagonista, non ci siamo focalizzati unicamente sull’opera di Wiene, ma abbiamo guardato anche ai classici della Universal e ai Maghi del terrore di Roger Corman come ulteriore punto di riferimento. Se esistono altri omaggi non sono intenzionali, ma nascono spontaneamente; fatta eccezione per il nome di un personaggio, la signorina Freudstein, che è un rimando a un classico di Fulci. Comunque nulla di particolarmente cerebrale. Mi serviva un nome ed è il primo che mi è venuto in mente.

Alberto: Se si guarda attentamente, in Resurrection Corporation ho disseminato vecchi poster del cinema muto, da Nosferatu – esatto – a Vampyr di Carl Theodor Dreyer, passando anche per l’Urlo di Munch; naturalmente queste sono le citazioni più esplicite, ma c’è un immenso immaginario cinematografico nel film, anche per quanto riguarda i maestri del gotico italiano come Bava o Margheriti.

Guardando Resurrection si ha l’impressione di una commistione eterogenea di generi.

Mattia: Sicuramente era voluto che fosse un film d’animazione a tema horror con toni da commedia grottesca. Qualche altro spunto potrebbe rimandare alla fantascienza, ma non era nostra intenzione inserire quanti più generi possibili. O meglio, non ci siamo mai interrogati su questo punto, abbiamo sempre discusso della storia. È stata la narrazione a spingerci sui terreni più consoni.

Alberto: Mi è sempre piaciuto mescolare i generi, anche nelle mie prove cinematografiche precedenti come L’invasione degli astronazi che misceleva horror, fantascienza, spy story e commedia; Dolcezza extrema invece era un melting pot tra cinema di animazione (con i pupazzi di stoffa sullo stile di Meet The Feebles di Peter Jackson), horror, commedia e grottesco anni Ottanta. Credo che il cinema non possa sottostare a limiti di genere se vuole esprimere veramente qualcosa.

Qual è la cosa di cui siete più fieri riguardo alla produzione del film?

Mattia: Lavorare per anni su qualcosa di estremamente originale e vederlo finalmente completo ti rende orgoglioso. Ma con l’autocompiacimento bisogna sempre andare cauti. I motivi di fierezza è giusto che ti vengano donati da un pubblico.

Alberto: Il superamento di una sfida titanica come realizzare un film d’animazione con un budget ridottissimo è sicuramente un bel traguardo, se poi, come spero, piacerà al pubblico, allora la soddisfazione sarà decisamente raddoppiata.

Quale pensate sia il miglior modo per permettere al pubblico di vedere Resurrection Corporation? Avete già delle idee su come distribuirlo, nonostante le difficoltà di questo  periodo?

 Mattia: I nostri lavori precedenti sono stati distribuiti in DVD, blu-ray e on demand, quindi non ci aspettiamo sicuramente di fare un passo indietro. La sala cinematografica oggi è quasi un’utopia. A ogni modo, prima di metterci in contatto con i distributori è indispensabile che il film segua un suo percorso per i festival e che accumuli recensioni. Purtroppo, a causa della pandemia, sono già saltati vari eventi; motivo per cui abbiamo deciso di mostrare Resurrection Corporation alla critica prima ancora di una sua anteprima ufficiale.

Alberto: Sì, cerchiamo di creare un corposo background al film, una specie di pagella composta da recensioni e partecipazioni ai vari festival cinematografici che spero si riprenderanno presto. In questo modo potremo presentare alle società di distribuzione qualcosa di davvero appetibile.

 

 

 

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Marco Jemolo: il mio Framed parla di libertà https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/marco-jemolo-framed/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/marco-jemolo-framed/#respond Wed, 22 Apr 2020 15:36:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13836 In esclusiva per i lettori di Fabrique la visione gratuita, per un periodo di tempo limitato, dei corti più premiati degli ultimi anni: i loro autori sono registi giovani e promettenti, e noi scommettiamo sul loro talento.  FRAMED from marco jemolo on Vimeo. Siamo davvero padroni del nostro destino? Fk è un omino di plastilina, […]

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In esclusiva per i lettori di Fabrique la visione gratuita, per un periodo di tempo limitato, dei corti più premiati degli ultimi anni: i loro autori sono registi giovani e promettenti, e noi scommettiamo sul loro talento. 

FRAMED from marco jemolo on Vimeo.

Siamo davvero padroni del nostro destino? Fk è un omino di plastilina, di quelli usati nel cinema d’animazione, ma ha un’anima profonda e un forte spirito critico. In una sala da interrogatori in un anonimo distretto di polizia, Fk si presenta affermando di essere stato strappato al suo mondo, torturato e umiliato. Gli viene chiesto così di raccontare nel dettaglio le ingiustizie subite.

Selezionato in circa 200 festival e vincitore di numerosi premi e menzioni, Framed è un cortometraggio di animazione in stop motion che racconta i limiti che la società moderna pone alla libertà individuale.

Coinvolte nel progetto importanti realtà  di  Torino,  tra  cui  Torino Piemonte Film Commission, il Centro Sperimentale di Cinematografia – Sezione Animazione, l’Accademia Albertina di Belle Arti, Lacumbia Film, Ouvert e Dfrg.press. La produzione è di Nicoletta Cataldo, Eleonora Diana, Grey Ladder e dello stesso regista Marco Jemolo, 35 anni, romano con una lunga esperienza in UK come filmmaker.

Marco, quali sfide si incontrano nella realizzazione di un lavoro come Framed?

«La principale, senza dubbio, è convincere i produttori a realizzarlo. Bisogna incontrare qualcuno che condivida la tua passione e che capisca, ad esempio, che con la stop motion non è possibile visionare le riprese giorno per giorno… Deve riporre grande fiducia nella troupe. Quindi il primo passo è anche il più difficile. Framed è stato girato a Torino, dove lavorano i migliori animatori d’Italia, nell’estate del 2016. Le riprese sono durate due mesi e pensa: in una giornata proficua portavamo a casa appena due secondi di girato! Altro aspetto insolito: quando si lavora con le tecniche d’animazione, il montaggio è deciso prima di realizzare le riprese, col suono e coi disegni preparatori. Bisogna avere molta immaginazione, avere già in testa il risultato finale, e la fase di storyboard è estremamente minuziosa e meticolosa, così come il videoboard. Bisogna cercare di prevenire qualsiasi imprevisto. Il risultato probabilmente non corrisponderà interamente alla tua idea iniziale, ma lasciare alla squadra un margine di autonomia nella fase creativa rappresenta un valore aggiunto».

CREDITS Director: Marco Jemolo; Production: Nicoletta Cataldo, Grey Ladder, Eleonora Diana, Mar- co Jemolo; Executive Producers: Nicoletta Cataldo, Alessandro Regaldo Cinematographer: Umberto Costamagna; Sound: Emanuela Cotellessa Music Alessandro Marrosu; Cast: Guglielmo Favilla, Dario Penne

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«L’animazione ha avuto una storia molto ricca, ma il suo futuro è ancora più promettente». A farsi portavoce di questa certezza è Massimo Ottoni, giovane regista del corto d’animazione Lo Steinway che ha conquistato la critica soprattutto per il coraggio sperimentale e per la capacità di utilizzare più tecniche animate in grado di rimandare emozioni e stati d’animo con un risultato finale profondamente poetico. Un favore che si è tradotto in una menzione speciale ai Corti d’Argento 2017 e con un premio ottenuto allo ShorTS Film Festival.

Ma come nasce l’iter de Lo Steinway? Questo progetto innovativo, soprattutto per quanto riguarda le scelte produttive italiane, si deve all’unione tra Istituto Luce Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, all’interno del quale si trova il dipartimento di animazione. Proprio qui, dopo aver chiesto agli studenti di cimentarsi con il tema della guerra letta, però, in modo diverso, è stato scelto il progetto pensato da Massimo Ottoni e dal suo team che poi hanno dato vita a Ibrido Studio, una realtà a metà tra uno studio e un collettivo di autori di animazione. Così, grazie alle suggestioni nate dal racconto omonimo di Andrea Molesini e alla capacità narrativa per immagini di giovani animatori, è nata la magia inaspettata del film. Qui la Grande Guerra e la trincea diventano quasi un pretesto per raccontare l’interiorità degli uomini. Il tutto accompagnato dalle note dolci di un pianoforte, lo Steinway appunto, che unisce oltre le divise sull’onda dei pensieri e dei ricordi.

Fin dalle fasi iniziali è stato coinvolto Andrea Molesini. Scrittore di fama ed esperto della prima guerra mondiale, ha realizzato una sceneggiatura tratta da un suo racconto. In che modo l’animazione ha dimostrato di essere il linguaggio migliore per portarlo sul grande schermo?

Oltre a essere un noto romanziere, Andrea Molesini è anche un profondo conoscitore della Storia. E i particolari inseriti in sceneggiatura lo dimostrano. Fondamentalmente, però, sono rimasto colpito nel trovarmi di fronte a un racconto di guerra atipico. Qui, infatti, non si parla di grandi battaglie e non vengono descritte scene cruenti. In sostanza viene meno proprio quello che compone l’iconografia classica del film di guerra. Tutto è giocato sull’attesa, sull’interiorità di questi soldati che aspettano mesi prima di assistere a eventi, se così possiamo dire, degni di nota. Come mi ha spiegato lo stesso Molesini quando sono andato a trovarlo a Venezia, la guerra era fatta per la maggior parte proprio da questo tempo sospeso nelle trincee. Ecco perché la cosa interessante è stata proprio andare a scavare nella psicologia dei soldati che, durante le lunghe attese, avevano tutto il tempo di indagare su loro stessi e sugli eventi in cui si trovavano coinvolti. Tutto questo racconto interiore nella sceneggiatura era affidato alle parole, ma non è altrettanto facile rendere i sentimenti e i moti interiori in immagini. Per questo motivo l’animazione è risultato essere il linguaggio migliore per rimandare questi sentimenti  in modo lirico.

still da Lo SteinwayStabilite le suggestioni e le finalità artistiche del racconto, come avete agito dal punto di vista strettamente tecnico?

Partiamo con il concepire una sorta di analogia tra attore e animatore. La persona che modella il pupazzo, lo mette in scena o lo disegna, sta facendo una performance attoriale. Non usa il suo corpo come strumento, ma trasmette determinati imput emotivi a un elemento esterno. Ovviamente si ha a che fare con un linguaggio sintetizzato e, secondo lo stile usato, è possibile rendere una gamma di emozioni in modo più rapido. Per quanto riguarda Lo Steinway, poi, abbiamo cercato di non perdere i dettagli e le sfumature che caratterizzano la recitazione in senso stretto, nonostante siano veramente difficili da ricreare in un pupazzo, visto che non è possibile contare sulla fisicità o sulla mobilità di un volto. In questo caso, dunque, il lato artistico e tecnico sono strettamente legati tra loro. Il modo in cui viene progettato un pupazzo, infatti, determina anche il modo in cui si andrà ad animarlo e muoverlo nella scena.

Andando più nello specifico, quali sono state le fasi produttive più importanti?

Prima di tutto è giusto chiarire che ci si trova di fronte a un progetto molto ambizioso, soprattutto per il panorama italiano. In secondo luogo, poi, si tratta anche della storia meno adatta da ricreare in stop motion. Lavorando con questa tecnica, infatti, ci siamo trovati a dover fronteggiare molti cambi di scena, oltre a un numero importante di scenografie e personaggi. Ogni singolo elemento è stato costruito meticolosamente. In totale al progetto hanno partecipato sette persone, tutte concentrate sull’aspetto visivo. Per quanto riguarda, poi, le diverse fasi della realizzazione, si è partiti dallo storyboard per arrivare fino alla post produzione. Il tutto per un totale di nove mesi di lavorazione. Questo tempo può sembrare molto per chi realizza dei film in live action, per un progetto di animazione, però, è veramente poco.

Quando si organizza la produzione di un film dal vivo il primo passo consiste nell’identificazione delle location e nella costituzione di un cast. Come viene tradotto tutto questo in un film di animazione in stop motion?

Il primo passo è cimentarsi nella costruzione della scenografia e dei pupazzi, in totale venti. Pur avendo già molti personaggi pronti, infatti, si è presentata la necessità di realizzare un duplicato per alcuni di loro. In questo modo, infatti, abbiamo lavorato con due set in contemporanea per avere delle inquadrature diverse della stessa scena. Per chi non conosce bene la tecnica dello stop motion, diciamo che consiste nell’animare dei pupazzi all’interno della scena fotogramma dopo fotogramma. Si tratta di un processo incredibilmente laborioso. Basti pensare che, lavorando dalla mattina alla sera, riuscivamo a terminare la giornata con circa quattro secondi di lavorato a testa. Per questo motivo, dunque, le animazioni in stop motion possono costare anche più di un film hollywoodiano con tanto di cast stellare. Nonostante siano privi di nomi famosi in cartellone e non abbiano grandi effetti speciali, basano tutta la loro qualità proprio sulla mano d’opera.

Dal punto di vista registico qual è stata la difficoltà più grande? 

La stop motion è piena di difficoltà. Ogni aspetto rappresenta un ostacolo da superare. La più grande, però, è legata all’organizzazione della produzione. È fondamentale, infatti, costruire una macchina in cui tutto ha l’obbligo di funzionare perfettamente. E con tutto s’intendono elementi come la sceneggiatura, le luci e le macchine. Questo vale anche per i film in live, ma per l’animazione è una fase particolarmente complessa, visto che non sono consentiti molti margini di errore o ripensamento.

still da Lo SteinwayNel corto avete scelto di utilizzare due linguaggi animati diversi. Da una parte, infatti, c’è lo stop motion che, a un certo punto del racconto, si fonde con il disegno classico in 2D. Come avete lavorato su questo susseguirsi di linguaggi armonizzandoli insieme? 

Essenzialmente si tratta di una scelta concettuale. Avevamo di fronte a noi una sceneggiatura con una varietà di momenti e sentimenti. Da parte nostra abbiamo deciso di creare delle ambientazioni realistiche con lo stop motion, mentre l’introspezione e il viaggio interiore di ogni soldato è stato affidato al disegno classico. Durante la pianificazione questa scelta non convinceva molto i miei collaboratori. In definitiva avevano paura che i due stili stonassero tra loro. A conti fatti, invece, è uno degli aspetti più apprezzati del film. Dal punto di vista produttivo, poi, ci ha permesso di lavorare in contemporanea. Proprio perché la stop motion richiede dei grandi spazi, e per noi non era possibile lavorare su un numero maggiore di due set, poter contare anche su una seconda tecnica da portare avanti in contemporanea ci ha salvato. Detto questo, però, ci tengo a ribadire che si tratta di una scelta ideologica più che tecnica. Era fondamentale, infatti, trovare il linguaggio lirico per evocare la musica del pianoforte in grado di unire gli uomini al di là dell’uniforme.

Importante tanto quanto la realizzazione dei personaggi è stata la costruzione delle diverse scenografie, che hanno contribuito a rimandare un forte senso di realismo.

Si è trattato di un lavoro veramente laborioso. Ogni scena, infatti, è stata creata manualmente e meticolosamente. Tutto parte dalla consapevolezza che, anche quando si mette in scena un elemento per pochi secondi, questo deve essere curato alla pari di tutto il resto. Il rasoio del capitano, ad esempio, è un oggetto grande solo pochi millimetri. Per quanto riguarda, poi, il frammento di stoffa legato al filo che si vede sventolare in più di una scena, si è lavorato aggiungendo altre specifiche. Oltre alle sue proporzioni, infatti, la difficoltà maggiore era rappresentata dalla necessità di animarlo. Per questo motivo, dunque, al momento della costruzione è stato inserito al suo interno un foglio di alluminio per farlo muovere. Da questi particolari è possibile capire come il lavoro di preparazione della scenografia ha rappresentato una delle fasi più impegnative di tutto il film. Non bisogna dimenticare, poi, che ogni singolo elemento deve essere costruito pensando già all’inquadratura. Noi, ad esempio, usavamo delle macchine troppo grandi per riuscire a entrare in alcuni ambienti nel modo migliore. Per questo motivo, dunque, si è pensato di costruire le diverse parti della trincea in modo tale che fossero rimovibili. Allo stesso modo è stato progettato il rudere all’interno del quale viene trovato il pianoforte, che è stato realizzato in proporzioni piuttosto ampie, visto che era alto come una persona. La particolarità, però, consiste, nell’averlo messo in proporzione con dei personaggi alti, più o meno, trenta centimetri. L’ultima sfida è stata rappresentata dalla resa realistica dell’esterno, ossia dell’ambiente naturale che circonda le trincee e che i soldati esplorano. Per ottenere un effetto soddisfacente abbiamo impiegato delle foto scattate nei dintorni di Torino, in particolare vicino alle Alpi, integrate poi dall’inserimento di altri elementi, come alberi appositamente costruiti. In questo modo siamo riusciti a dare l’effetto di un ambiente molto vasto.

 

 

 

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