Andrea De Sica Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 01 Sep 2021 15:12:43 +0000 it-IT hourly 1 Andrea De Sica, “Non mi uccidere” e qualche film anni Ottanta: «Volevo un horror imbastardito» https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/non-mi-uccidere/ Wed, 05 May 2021 13:26:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15525 «È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il […]

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«È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il mio arrivo».

Confesso di averle pensate tutte prima di vedere il secondo film di Andrea De SicaNon mi uccidere. Scettica, forse, di fronte alla reference dell’horror, del teen e perfino di Baby, oltre a un’inevitabile quanto superficiale – ho scoperto poi – connessione con Twilight. Ho cambiato idea dopo pochi minuti: De Sica è uno che ha compreso come generi prolifici quali l’horror o il thriller vadano riconsiderati a partire dai codici di tensione e action. Usa una storia d’amore teen come pretesto, punta tutto su Alice Pagani (e riesce a tirarle fuori un personaggio vero) e tenta quello che da spettatore vorrebbe vedere: violare i cliché.

Mi è piaciuto molto l’obiettivo che ti sei posto di fronte ai codici del genere: provare a rimetterli in discussione partendo proprio dalle reference più ovvie. Cos’è che volevi evitare?

Di fare la copia degli horror americani classici degli ultimi trent’anni, che sono a soggetto prettamente claustrofobico. Da Saw L’enigmista, capolavoro che fece anche da apripista, tutta la new wave degli anni Duemila è basata sulla location singola, dove l’incombenza della minaccia esterna viaggia sull’ora e mezzo di film. In Non mi uccidere neanche ti immedesimi con la vittima. È un film dove la protagonista diventa il mostro: già in questo per me c’era un ribaltamento di quella formula. E poi volevo evitare quello che in Italia vedo come un ritorno a un cinema action di genere, dove però l’action è più un’esposizione virtuosistica e coreografica. Tenevo molto all’action, perché non l’avevo mai fatta, ma se la uso sono passaggi drammaturgici importanti. Non volevo inserirla solo perché è figo che si sparino e che scoppi una testa come un melone. Non a caso la grande scena action del film è il momento di coming of age di Mitra: la vera catarsi del film avviene attraverso il combat e la violenza. Questa per me era una sfida.

L’action non è mai gratuita ma poi quando la inserisci ci vai giù pesante, superando sicuramente il primo accostamento a Twilight. Alcune scelte sono molto crude: hai avuto carta bianca o sei dovuto scendere a compromessi?

Il problema è quando l’abbrutimento fisico e la violenza diventano sadismo, ma per il resto mi sono sentito libero di fare quasi tutto. Che poi l’abbrutimento psicologico può essere molto più horror, pensa a Gaspar Noé, che amo e mi repelle allo stesso tempo. È un sadico provocatore: lo ami o lo odi? Io non volevo esserlo, però: volevo essere crudo attraverso uno spirito più realistico. Stavo raccontando la storia di una ragazzina che deve mangiare e vampirizzare gli altri e questo mi permetteva delle licenze, chi l’ha prodotto e distribuito ha avuto un’adesione quasi totale, trovandosi preparato di fronte alla sceneggiatura.

Su un paio di scene avrei voluto chiudere gli occhi: hai pensato a come sarebbe stato l’effetto in sala?

Mi viene in mente la sequenza dell’unghia. Ecco, un po’ rosico: sono scene horror immaginate per la sala. Il vero divertimento quando realizzi questo tipo di film è pensare a una sala in cui senti il sussulto di massa. Quando ho scoperto che non saremmo usciti al cinema mi sono depresso brutalmente. A oggi è stata comunque una scelta felice.

Non mi uccidere
Alice Pagani-Mirta protagonista di “Non mi uccidere”.

Pensi che un’uscita in sala dopo il lancio su piattaforma potrebbe essere vincente?

Lo stanno facendo tutti, quindi credo di sì. È buono che il pubblico possa anche scegliere, è una forma di modernità. Credo fosse un processo già in corso, il Covid lo ha solo velocizzato.

Ultimamente ho studiato la serie The Sinner, straordinaria nel rilanciare nuovi codici di tensione. Lì si lavora molto per sottrazione, e ho notato anche in te la volontà di contenere anziché sfoggiare: c’è stata?

Assolutamente sì, anche perché diventava noioso e ripetitivo pensare alle scene action e di violenza e chiedersi “adesso come la facciamo?”. Il cinema vive del fotogramma ma anche di quello che resta fuori dal fotogramma: il fatto che ci siano dei momenti in cui noi intuiamo ma non vediamo, accende di più la fantasia e il ruolo attivo dello spettatore, anziché mostrare tutto in modo compulsivo. Molti passaggi in sceneggiatura li ho tagliati e sottratti proprio sul set, mi sembrava un’esagerazione e un inutile dispendio di energie.

Per esempio?

Il finale era molto più lungo, ma uno dei “cattivi” rischiava di diventare un Terminator e mi sembrava grottesco. Quando scrivo e non vedo l’immagine tendo a essere ipertrofico ed esagerare, ma quando giro cerco di trovare l’equilibrio. Quindi mi fa piacere che tu me lo dica: significa che in fase di riprese ho capito quali erano le cose essenziali. E di fatto, per me, la cosa essenziale era lei. Non volevo perdermi in una parodia di un film anni Ottanta. Sono rimasto fedele alla mia protagonista.

Anche nei confronti del sesso c’è un’attenzione diversa, rispetto alla solita acrobazia sexy e soprannaturale tra vampiri.

La prima scena di sesso è in stile Il tempo delle mele, mentre la seconda è in stile Dracula di Bram Stoker. È una simmetria ricercata, per evidenziare il cambiamento di Mirta. Nella prima lei sta sotto, è spaventata, c’è il rito teen della perdita della verginità. Ma la seconda volta è un essere ormai assetato di sangue, che prende per il collo lui e lo tiene fermo. C’è un riscatto femminile anche fisico, percepito sia da lui che da noi: lei non è più Mirta.

E nella catarsi di Mirta la musica gioca un ruolo importante. Rispetto a Baby c’è un modo diverso di inserirla e renderla godibile, senza che il ritmo delle scene vada a interromperla. Da cosa è dipeso?

Quello è un peccato e tu hai ragione a notarlo. Nelle serie bisogna tenere un ritmo legato al linguaggio. È una legge orrenda fondata sulla paura che il pubblico “cambi canale”, quando invece da un punto di vista tecnico sono stato totalmente libero. Baby ha una valanga di repertorio musicale però tagliato in modo serrato. Mentre nel film ci sono 4 pezzi di repertorio non nostro, usati fino alla fine. La scena della discoteca in cui Mirta inizia a compiere la sua trasformazione me la sono goduta davvero: 6 minuti di musica a raccontare una dannazione inesorabile in chiave moderna, non più sinfonica ma techno.

Sei stato anche un abile equilibrista nella scelta delle location. Dall’inizio dichiari: questo non è un horror americano, si ritorna in vita all’italiana, dal loculo di marmo anziché dalla terra. Allo stesso tempo hai creato un’ambientazione forte di certi scenari internazionali, come il bosco e i set notturni. Che registro hai seguito?

L’idea era quella di dare un doppio registro al film, tra passato e presente. Avrei dovuto iniziare a girare il 4 maggio 2020, ma è arrivato il lockdown. Ho continuato a lavorarci insieme ad Alice Pagani e quel tempo in più mi ha giovato anche per curare gli effetti prostetici, una cosa nuova per me. Ma nel frattempo è diventato un film estivo: come rendere il presente invernale e sporco che avevo immaginato, dove l’asfalto fosse dominante e il look in contrasto con il passato? La verità è che sono stato incredibilmente fortunato: ogni volta che giravo le scene con Alice “da morta” pioveva.

Quante settimane hai avuto a disposizione per le riprese?

7 settimane, e devo dire che è un film che ha avuto il suo budget, un’opera seconda girata con più mezzi rispetto all’esordio. Il budget poi non è mai abbastanza ed è comunque stato complicato: ci sono boschi di notte, il campo lungo per me aveva una sua importanza e nelle notturne va illuminato e scenografato in grande. Tra l’altro sono state 2 settimane a Roma e 5 in Alto Adige, dove i sopralluoghi sono stati complessi. Lì ci sono ambienti nuovi, molto freddi e impersonali, ma il nostro obiettivo era quello di “non sentire” l’Alto Adige. Per esempio il motel era un posto abbandonato degli anni Settanta, lo abbiamo restaurato con un’operazione di scenografia importante.

Tra l’altro avete anche utilizzato i led wall per alcune scene di camera car, giusto?

Rocco Fasano non aveva la patente, ho provato a fargli fare una guida in un parcheggio ma mi sono spaventato. Quindi con Francesco Di Giacomo abbiamo deciso di provare questa tecnologia nuova, ci siamo fatti mandare il materiale dalla serie Devils. Abbiamo alternato riprese con gli stunt in una strada bellissima e solo nostra, la Val D’Oca, chiusa perché pericolante. Poi abbiamo costruito un led wall in un capannone industriale per girare l’interno auto con Alice e Rocco. Con un montaggio efficace si crea davvero quell’illusione di velocità dentro l’auto.

La tensione riuscita nel film dipende anche molto dal look. Avete girato in anamorfico: come siete arrivati alla scelta delle lenti?

Sì, era la prima volta per me. Abbiamo usato delle Cooke Anamorphic. Ora va molto di moda ma devi anche trovare il film giusto per farlo, c’è un rapporto con gli spazi diverso. Francesco Di Giacomo ha insistito da subito e io mi fido molto di lui. Mi piace la sensazione allucinatoria del film dovuta anche a questa scelta. La luce non arriva mai in modo teatrale, lavoriamo sempre sulla scena. In generale io tenevo molto alla pasta e alla sporcizia, volevo che il look del film fosse rovinato e restituisse come un senso di “abrasività” della vita. Rompevo davvero a tutti sulla sporcizia, appena vedevo una cosa pulita e ben fatta inorridivo.

Non mi uccidere
Rocco Fasano è il protagonista maschile.

Per la color vale un po’ il discorso delle location: siete completamente in trend ma allo stesso tempo evitando i vizi del trend attuale, su tutti la dominante gialla e verde e lo stile dei flashback.

A noi piace sempre pensare in controtendenza. Come nel finale: anziché farlo asettico, freddo e monocromatico, ci trovi tutti i colori del mondo. In America lavorano proprio sull’armonia cromatica. La color è molto bella perché Francesco le ha dato queste tonalità particolari, azzardando e impastando i colori. Certe dominanti sono sempre un po’ virate, ma mai troppo. Dev’esserci una piacevolezza nel guardare il film, il colore non deve creare una distanza di fondo. Qui mi porto dietro il sapore del fumetto e del cinema coreano: volevo fare un film imbastardito di molte cose che mi piacciono. Se nel 2021 fai l’horror come già ti aspetti che sia, dopo un quarto d’ora ti chiedi: ma perché?

A proposito di aspettative: Alice Pagani qui le supera. C’è stato un level up significativo. Come avete lavorato su Mitra?

[Ride ndr] Sono contento, vedo che Alice in questo film è piaciuta quasi all’unanimità. La storia di Mirta coincide con la storia di Alice Pagani, che si è messa sulle spalle un monolite spaventoso che avrebbe potuto schiacciarla e che non era sicura di poter sostenere. Ci ha messo quattro mesi per riprendersi dal film, è stata massacrata in qualsiasi modo, ma è stata anche un samurai perché non ha mai mollato. Voglio dire: è rimasta tumulata dentro una bara in mezzo ai morti veri per mezz’ora, al buio, solo con una radiolina attraverso la quale le parlavo. E non ha detto niente. Insieme abbiamo lavorato sulla chiave per non rendere il morto statico, da quando risorge al modo in cui si muove e parla.

Su di lei avete anche utilizzato delle lenti a contatto piuttosto invasive.

Sì, sono difficilissime da sostenere e seccano davvero l’occhio. Praticamente le ho chiesto di fare una scena in cui aveva un dialogo emotivamente forte, in cui le sparavano, esplodeva e doveva piangere con le lenti a contatto. Alice ha avuto il sangue addosso anche per dieci ore di fila, le ha causato delle reazioni epidermiche che per il suo lavoro possono essere un problema.

Quindi sei un sadico o era davvero necessario?

No, per me a quel punto del film bisognava stare là. E lei ne era consapevole. Ha grandissima lucidità nel capire cosa sto facendo, ormai lavoriamo insieme da un po’ di tempo.

Eri sicuro dall’inizio che Mirta dovesse essere lei?

Abbiamo iniziato a parlare di questo film durante la stagione 1 di Baby, le ho fatto un provino: volevo che capisse che niente era scontato e volevo vedere come si sarebbe posta dopo essere diventata famosa con Baby. Perché qua dovevo trovare un’attrice che fosse pronta a tutto. E lei c’è stata. Adesso adora il film e lo sente come un figlio.

Adesso sei a uno snodo importante della tua carriera: da qui in poi ogni mossa pesa.

È come una partita a scacchi, sembra Il settimo sigillo! Qualsiasi regista ha l’ansia del fallimento, ma non deve diventare un’ansia da prestazione. Quella ti rovina sia la vita che il modo di lavorare. Per me è così: c’è un filo tra I figli della notte, Baby e Non mi uccidere, ma sono anche progetti molto diversi. Spero che il prossimo progetto non sia niente di prevedibile. Magari farò un terzo film e poi riprenderò il secondo capitolo di Non mi uccidere, chissà. So solo che fare la stessa cosa all’infinito mi annoierebbe e in Italia c’è sempre la tendenza a riproporre quello che è piaciuto ed è andato bene: ecco, spero di rimanere libero il più possibile. Nel momento in cui non lo sarò più forse cambierò lavoro.

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Warner Bros. Italia, Pier Paolo Luciani executive director ci racconta tutte le novità https://www.fabriqueducinema.it/focus/warner-italia/ Tue, 13 Apr 2021 08:32:46 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15426 Pier Paolo Luciani, Executive Director Local Productions, ci racconta cosa si prospetta nel futuro di Warner Bros. Italia tra potenzialità commerciali, sale cinematografiche e HBO Max. È tra le case di produzione e di distribuzione più famose al mondo, grazie ai suoi film e alle sue serie di successo. La Warner Bros., però, ricopre un […]

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Pier Paolo Luciani, Executive Director Local Productions, ci racconta cosa si prospetta nel futuro di Warner Bros. Italia tra potenzialità commerciali, sale cinematografiche e HBO Max.

È tra le case di produzione e di distribuzione più famose al mondo, grazie ai suoi film e alle sue serie di successo. La Warner Bros., però, ricopre un ruolo fondamentale anche all’interno dell’industria cinematografica più specificatamente italiana, per merito di prodotti sempre attenti al mercato nazionale e, di conseguenza, al pubblico che ne fa parte. E mentre grandi novità sembrano prospettarsi all’orizzonte – HBO Max vi dice qualcosa? –, Fabrique ha avuto il piacere di intervistare Pier Paolo Luciani, Executive Director Local Productions di Warner Bros. Italia, e di scoprire qualche segreto del mondo Warner. 

Il vostro catalogo cinematografico ha sempre avuto un occhio di riguardo per le produzioni italiane: da film d’autore come La dea fortuna di Ferzan Ozpetek a opere giovani con I peggiori di Vincenzo Alfieri, a scommesse (vinte) come Me contro te a hits del box office come Poveri ma ricchi. Quali caratteristiche distintive deve avere un film prodotto da Warner?

La Warner Bros. Italia ha una lunga tradizione alle spalle: negli ultimi 20 anni abbiamo prodotto circa 70 film italiani, per un totale di oltre 200 milioni di euro di box office. Nel momento in cui cerchiamo o sviluppiamo un lungometraggio, facciamo attenzione che sia un prodotto o un’idea con un potenziale commerciale e che possa incontrare il gradimento del pubblico. Tendiamo a non focalizzarci su un singolo genere o tema, ma a lavorare su un ventaglio di produzioni eterogenee con diversi target di riferimento. Grazie a un lavoro di profilazione degli utenti e di data maintenance, vagliamo sia progetti pensati a priori per il cinema, sia operazioni più particolari che crediamo possano diventare theatrical.

Accanto alla produzione cinematografica, la serialità gioca un ruolo sempre più importante nel mercato audiovisivo. Quali sono invece le politiche di Warner Italia? La serialità entrerà a far regolarmente parte delle vostre logiche produttive?

Noi stiamo lavorando a dei progetti che possono avere un potenziale di serialità anche in vista delle novità che si prospettano nel nostro futuro. WarnerMedia ha lanciato negli Stati Uniti una nuova piattaforma over-the-top, HBO Max, che sbarcherà anche in Europa. Al momento non abbiamo una data certa, ma crediamo sia importante lavorare su idee che possano, in prospettiva, servire questa nuova realtà. Tra Warner e HBO Max ci sarà osmosi, è importante essere pronti.

Warner film La scuola cattolica
“La scuola cattolica”, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati.

Con l’avvento del Covid, l’assetto distributivo delle pellicole è stato totalmente sconvolto. Quanto la pandemia ha intaccato il vostro lavoro? Come credete che l’industria possa affrontare al meglio questa pandemia e le sue conseguenze?

La pandemia ha portato uno stravolgimento delle abitudini dello spettatore: con la chiusura delle sale cinematografiche, ci siamo tutti abituati a una fruizione domestica del film. Personalmente credo però nella centralità e nell’importanza della sala cinematografica che ha sempre dimostrato di essere un perno della nostra socialità; nonostante abbia infatti subito negli anni attacchi da nuovi supporti, nuove modalità di fruizione e da nuovi media, l’esperienza della sala è sempre rimasta vitale, spesso uscendone addirittura rafforzata. Pensare che il mercato post-Covid sarà uguale a quello che conoscevamo prima della pandemia non è certo plausibile ma questo non esclude che i diversi consumi di prodotto potranno e dovranno coesistere in modo integrato: la sala avrà sempre un ruolo di prim’ordine ma dovrà imparare a convivere con altre forme di sfruttamento. Questa sarà la vera sfida che anche noi produttori e distributori dovremo affrontare: dovremo essere capaci di intercettare i nuovi gusti degli spettatori e di invogliarli ad andare in sala, con storie diverse e sempre di alta qualità. Dovremo ragionare e valutare sempre più sulla base delle potenzialità theatrical di un prodotto.

E proprio parlando di futuro: cosa prevede nel suo futuro Warner Bros. Italia?

Al momento stiamo sviluppando e producendo molto. Dal 21 aprile sarà disponibile in digitale Non mi uccidere di Andrea De Sica, che unisce elementi da horror gotico con una linea più romance e teen. Tra i progetti già girati, ti posso citare La scuola cattolica, tratto dal romanzo di Albinati vincitore del premio Strega. È un film a cui teniamo molto, diretto da Stefano Mordini, che vanta nel cast grandissimi attori come Valeria Golino, Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca, ma anche giovani leve come Benedetta Porcaroli e Giulio Pranno. Abbiamo poi pronto il secondo capitolo dei Me contro te: il primo film ha incassato quasi 10 milioni di euro. C’è poi Sulle Nuvole, storia d’amore a suon di musica, firmata da Tommaso Paradiso. In partenza, abbiamo invece il remake della commedia francese Tanguy e il nuovo film di Emanuele Crialese con Penelope Cruz, ma è ancora presto per parlarne…

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Andrea De Sica: Baby, il ritratto universale di una generazione https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/andrea-de-sica-baby-il-ritratto-universale-di-una-generazione/ Thu, 06 Dec 2018 07:28:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11936 Approdata su Netflix lo scorso 30 novembre, Baby è sicuramente la serie italiana più chiacchierata del momento. Nata con lo scopo di raccontare lo scandalo che nel 2014 ha visto protagoniste due baby squillo dei Parioli romani, la serie ideata dal collettivo GRAMS* si discosta fin dalla prima puntata dalla cronaca, preferendo mettere in scena […]

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Approdata su Netflix lo scorso 30 novembre, Baby è sicuramente la serie italiana più chiacchierata del momento. Nata con lo scopo di raccontare lo scandalo che nel 2014 ha visto protagoniste due baby squillo dei Parioli romani, la serie ideata dal collettivo GRAMS* si discosta fin dalla prima puntata dalla cronaca, preferendo mettere in scena un affresco corale.

Il regista Andrea De Sica, dopo I figli della notte, torna dunque dietro la macchina da presa per raccontare un’altra storia pensata, almeno all’apparenza, per gli adolescenti: «Il progetto nasce con un target definito, gli adolescenti appunto. Netflix voleva realizzare una serie young adults che fosse più graffiante rispetto alle canoniche produzioni nazionali. In Italia siamo abituati a prodotti teen popolati da simpatici cazzoni che vivono problematiche facilmente risolvibili, mentre con Baby abbiamo voluto raccontare una realtà differente, più drammatica ma anche maggiormente reale.»

Nonostante il pubblico di riferimento sia quello adolescenziale, credi che Baby possa piacere anche agli adulti?

Certo! In questi giorni alcune mamme mi hanno raccontato di essersi identificate con gli eventi della serie, soprattutto ricordando la preoccupazione che provavano quando i loro figli uscivano la sera. Secondo me questo è stato possibile perché le vicende sono raccontate con una tale serietà che anche una persona matura può facilmente rispecchiarcisi. Ad ogni modo, sono molto felice dell’ottimo riscontro nazionale e internazionale ottenuto dalla serie perché, nonostante il target di riferimento, abbiamo avuto commenti positivi tanto dai giovani, quanto dagli adulti.

andrea de sica

In quanto serie young adult, Baby si confronta con archetipi narrativi abbastanza sfruttati nel cinema americano: c’è la brava ragazza che diventa cattiva, la festaiola fragile, il ragazzo omosessuale, il bello e dannato ecc. Come hai dato a queste figure bidimensionali uno spessore più definito?

Innegabilmente la serie adotta alcuni archetipi tradizionali delle produzioni teen ad ampio spettro, ma ho tentato di rifuggire qualsiasi stereotipo mantenendomi saldo ad una realtà tangibile e contemporaneamente universale. Non volevo realizzare una serie di denuncia o di cronaca, ma volevo raccontare con empatia la nuova generazione, mostrando l’umanità dei giovani e tentando di rendere universali le loro storie. Proprio per questo un espediente fondamentale è la coralità: al contrario de I figli della notte dove ho lavorato sull’astrazione, per Baby mi sono immerso nella quotidianità di diversi adolescenti, anche parlando direttamente con alcuni di loro, e ho cercato di restituirla sullo schermo. Significativo poi è stato l’apporto dei GRAMS*, ovvero il collettivo che ha sceneggiato la serie, i quali, essendo giovanissimi, hanno raccontato loro stessi e il mondo che li circonda.

Sembra che l’elemento comune dei tuoi progetti siano i teenagers. Non hai paura di legare troppo il tuo nome a questo tipo di figure, diventando una sorta di cantore degli adolescenti?

Questo non mi dispiacerebbe! L’adolescenza è stata una fase molto importante della mia vita, quindi raccontare questi anni mi piace. Inoltre, anche da un punto di vista prettamente cinematografico, amo ribaltare i canoni tradizionali a cui sono legati in Italia i prodotti teen. Ad ogni modo, non penso di meritare l’epiteto di cantore degli adolescenti: sono all’inizio della mia carriera e in futuro potrei raccontare altro. Ad esempio, al momento sto lavorando ad un progetto diversissimo, ovvero un horror che si discosta totalmente da I figli della notte e Baby… Però non posso dire altro.

Oltre allo sguardo sui giovani, un altro elemento ricorrente dei tuoi lavori è l’agiatezza economica dei protagonisti. Non ti piacerebbe raccontare altri ambienti sociali?

Io credo che un regista non sia un sociologo e che, nel momento in cui decide di dirigere un film, debba trovare una storia che gli sia congeniale, indipendentemente dallo status sociale dei protagonisti. In Baby, uno dei protagonisti è Damiano, un ragazzo che proviene dal Quarticciolo e che si ritrova catapultato nella realtà pariolina. Nonostante non sia ricco, questo personaggio è quello che ricordo con maggior affetto e che considero quasi come un figlio. La sua storia è stata pensata naturalmente dai GRAMS* ma io l’ho plasmato sullo schermo: per interpretarlo ho scelto Riccardo Mandolini, un attore non professionista che però si è dimostrato perfetto, anche perché infondo è realmente Damiano.

andrea de sica

Nonostante la coralità, Chiara e Ludovica sono le protagoniste della serie. Dopo aver raccontato di un collegio maschile in I figli della notte, come è stato rapportarsi con dei personaggi femminili? 

L’idea di confrontarmi con le figure femminili non mi ha fatto paura, anche perché sono convinto che nel mondo di oggi ragazze e ragazzi siano abituati a stare insieme e, proprio per questo, non ci sono più preoccupazioni nel dialogare e nel raccontarsi a vicenda. Tutte le polemiche sulle differenze di genere, che in seno al mondo del lavoro sono motivate, credo siano già superate da un punto di vista strettamente culturale, proprio grazie a una parità che si promuove fin dagli anni della scuola. Proprio questo mi ha permesso dunque di avere un confronto diretto con Benedetta Porcaroli e Alice Pagani, che mi hanno poi ripagato dicendomi di essersi sentite raccontate da un coetaneo.

Da un punto di vista produttivo, rispetto alla tua opera prima, sei entrato in un’azienda enorme come Netflix. Questa collettività ha influenzato il tuo lavoro?

Mi sono trovato benissimo con Netflix e penso che altrimenti Baby non sarebbe stata realizzata in questo modo, puntando cioè su ragazzi giovani e su uno stile dinamico. Questa serie è la prova che rispetto al passato oggi esiste una micro-cosmo che vuole rompere gli schemi produttivi a cui siamo stati abituati. Naturalmente, essendo comunque televisione, ci sono delle regole molto chiare, che non hanno però compromesso la mia libertà. Inoltre, fondamentale è stato il lavoro di squadra: Baby è nato come un progetto collettivo e lo è rimasto per l’intera fase produttiva e post-produttiva. Non credo che il regista debba avere un controllo assoluto sul prodotto, quindi anche durante le riprese c’era un costante dialogo con i GRAMS* e con lo showrunner Nicola De Angelis. Certo, a volte capitava di dibattere e scontrarsi, ma proprio questo mi ha permesso di crescere.

Baby è un progetto seriale e, come con ogni prodotto di questo tipo, non finisce la prima stagione che già si spera in una seconda. Le premesse per un seguito ci sono: c’è possibilità?

Non posso dire nulla a riguardo. Devo però ammettere che mi piacerebbe molto poterla realizzare: sono innamorato del mondo di Baby e sento un forte legame con tutti coloro con ne hanno preso parte, quindi sì, desidererei molto dirigere una seconda stagione.

Fotografie di Francesco Berardinelli.

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I figli della notte, e il TFF “scopre” De Sica https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/i-figli-della-notte-e-il-tff-scopre-de-sica/ Wed, 23 Nov 2016 14:24:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3812 I De Sica, fatte le debite proporzioni, sono un po’ i nostri Coppola. Una famiglia, importantissima, del cinema, con varie e complesse ramificazioni tutte caparbiamente arrampicate sullo stesso muretto: lo schermo cinematografico. E allora, se il genio Vittorio è il nostro Francis Ford e Christian, amatissimo e odiatissimo, un Nicolas Cage un filo più commerciale, […]

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I De Sica, fatte le debite proporzioni, sono un po’ i nostri Coppola. Una famiglia, importantissima, del cinema, con varie e complesse ramificazioni tutte caparbiamente arrampicate sullo stesso muretto: lo schermo cinematografico. E allora, se il genio Vittorio è il nostro Francis Ford e Christian, amatissimo e odiatissimo, un Nicolas Cage un filo più commerciale, all’ultimo arrivato Andrea De Sica tocca il ruolo di Sophia.

Giovane (più giovane di Sophia di 10 anni, va detto), cinefilo, amante della musica e dei generi, sfrontato come uno studente di cinema, sicuro come un rampollo del Cinema, De Sica ha presentato al Torino Film Festival, unico italiano in concorso, il suo esordio I figli della notte. Una storia a cavallo tra i generi, il thriller e il romanzo generazionale, che ci consegna prima di tutto una certezza: Andrea De Sica ha imparato il mestiere.

Il film non è impeccabile – ha le tante, legittime incertezze di un esordio – ma la storia è intrigante, lo sguardo del regista per i suoi personaggi amorevole. E la mano con cui è diretta non ha incertezze: quasi arrogante, quando richiama impunemente Kubrick e Lynch, ma abbastanza sicura di sé da non risultare irritante nel suo citazionismo cinefilo.

La storia, quella di due ragazzi di buona famiglia consegnati a un rigidissimo collegio che ne stravolgerà le vite, ha il merito di cimentarsi sul terreno minato (perché da noi poco frequentato: il ridicolo è dietro l’angolo) del thriller paranormale. E la trama procede assecondando colpi di scena efficaci e soluzioni narrative interessanti, conducendo la storia verso un finale leggermente telefonato ma funzionale: qualche incertezza emerge nella direzione degli attori (volti azzeccatissimi, specialmente quelli dei due protagonisti, penalizzati forse da un copione troppo “scritto”), ma le sequenze chiave sono dirette con una personalità che trova nel senso del ritmo e della simmetria la sua cifra autoriale.

Figlio di un musicista (Manuel, il padre, ha scritto colonne sonore anche per Risi e Comencini), De Sica ha curato personalmente le musiche del film, dotandolo di universo sonoro ricchissimo e articolato. Figlio di una produttrice (Tilde Corsi, produttrice storica di Ferzan Ozpetek), De Sica ha saputo costruire intorno a I figli della notte un’impeccabile macchina produttiva, che ha permesso al film di arrivare a destinazione senza rinunce importanti. Non capita spesso che un figlio d’arte cammini sulle sue gambe. De Sica ce l’ha fatta, e c’è da scommetterci: andrà lontano.

 

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