Alice nella città Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 30 Jan 2024 16:03:17 +0000 it-IT hourly 1 Clorofilla: la ragazza con i capelli verdi entra nel mito https://www.fabriqueducinema.it/festival/clorofilla-la-ragazza-con-i-capelli-verdi-entra-nel-mito/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/clorofilla-la-ragazza-con-i-capelli-verdi-entra-nel-mito/#respond Thu, 16 Nov 2023 15:22:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18801 Maia ha capelli verdi erbacei, è legata in maniera profonda alla natura e al mondo delle piante. Teo è un giovane e solitario coltivatore di arance. E la loro storia non assomiglia a nessun’altra vista sullo schermo. Ivana Gloria, regista dell’insolito Clorofilla, è nata Domodossola, si è diplomata allo IED di Milano e  ha vissuto […]

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Maia ha capelli verdi erbacei, è legata in maniera profonda alla natura e al mondo delle piante. Teo è un giovane e solitario coltivatore di arance. E la loro storia non assomiglia a nessun’altra vista sullo schermo. Ivana Gloria, regista dell’insolito Clorofilla, è nata Domodossola, si è diplomata allo IED di Milano e  ha vissuto a New York, Londra e Portogallo. L’abbiamo incontrata in occasione della Festa del Cinema di Roma, più precisamente in quella fucina di novità che è Alice nella Città, in cui il film è stato presentato, e ci ha parlato del verde dominante nella sua opera prima, di trasformazioni e aspirazioni.

Con Clorofilla hai messo in scena la favola di due anime solitarie legate entrambe indissolubilmente alla natura. Cosa rappresentano per te Maia e Teo?

Maia è una ragazza che rinnega la propria essenza, ma grazie a Teo riesce a scoprire qualcosa che non ha mai voluto vedere dentro di sé. C’è una scena, costruita in montaggio, dove tramite il contatto fisico che ha con Teo Maia riesce a sentire la natura, e quindi anche la sua natura. Mi è piaciuto raccontare la dinamica del riconoscere nell’altro qualcosa che in te nascondi.

Il tuo film intreccia le Metamorfosi di Ovidio e il mito di Dafne sviluppandoli poi in modo molto originale.

Quello era più un punto di partenza dello sceneggiatore, Marco Borromei. Per me la storia parlava di una persona che non vuole accettare la sua natura e la propria sessualità. Infatti la protagonista a un certo punto avrà un orgasmo “con” il bosco, qualcosa che l’attira e la spaventa allo stesso tempo. Ho cercato di fare un film molto sensoriale e visivo, così abbiamo lavorato tanto sul suono per dare tridimensionalità alle emozioni e alle paure di Maia.

Con i tuoi protagonisti Sarah Short e Michele Ragno hai creato un’evidente affinità sullo schermo. Come l’avete raggiunta?

È stato un avvicinamento graduale ma necessariamente veloce: avevamo pochissimo tempo per girare. Michele Ragno è stato scelto due settimane prima d’iniziare le riprese, Sarah è stata confermata un mese prima, ma il momento in cui ho sentito davvero la chimica fra di loro è stato quando ho messo la camera sui primissimi piani: le scene più intime. Il set e la troupe erano sempre in movimento per organizzare le scene successive, ma quando arrivavo a stringere sui volti di Sarah e Michele tutti si calmavano in una specie di catarsi.

Non c’è solo tanto verde il Clorofilla (costumi, scene, pergolati e vegetazione libera), ma traspare un messaggio di amore, o forse più un atteggiamento verso l’ambiente, molto pacifico e positivo.

Avevo la natura come leit-motiv perciò non potevo che cercare di catturarla in ogni inquadratura. Ce n’è solo una di Teo in salotto che sfoglia dei disegni mentre Maia gli si avvicina: è l’unica scena che non ha un po’ di verde. Volevamo aggiungerlo in postproduzione ma non c’era più budget, una rabbia…

Michele lo conoscevo già come attore e ti ha dato tantissime sfumature e fragilità. Sarah la vedevo per la prima volta invece e l’ho trovata naturale, ruvida a suo modo, e funziona molto bene.

Sì, di lei ho visto un self-tape a settembre dell’anno scorso. Era solo il primo step ed era già l’attrice che mi convinceva di più, avevo già deciso che Maia era lei. Michele invece è un attore molto solido. È arrivato molto preparato e ha aiutato anche Sarah. Prima di partire per il set abbiamo provato in tutti i parchi di Roma analizzando ogni stato d’animo e spesso ci ritrovavamo a condividere nostre esperienze di vita più intime partendo dai personaggi. Michele aveva anche disegnato uno schema in cinque fasi sul processo d’accettazione della morte associandolo al percorso dei personaggi nella sceneggiatura. Però abbiamo dato anche tanto spazio all’improvvisazione. Pensa che nelle prove, per fornire le inquadrature al DOP, ho praticamente pre-girato il film col mio iPhone.

Posso dirtelo? A me fai pensare anche a una risposta pacata a Titane e, solo per la parte onirica, a Un lupo mannaro americano a Londra, ma per vegani. Ma qual è il cinema al quale aspiri?

Agli operatori in realtà ho fatto una testa così perché volevo girare molti piani sequenza, avendo in mente Victoria, un film di un solo piano sequenza del 2015 girato a Berlino in una notte. Volevo uno sguardo fluido. Per Titane sì, in effetti! Sai, io sono una fan di Junior, il primo cortometraggio di Julia Ducournau. Invece Il lupo mannaro… sai che non l’ho mai visto? Lo cercherò. Invece sul cinema a cui aspiro mi è stato detto che Clorofilla sembra un film straniero. Ecco, aspiro a fare film internazionali.

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Desiré, la forza di diventare grandi https://www.fabriqueducinema.it/festival/desire-la-forza-di-diventare-grandi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/desire-la-forza-di-diventare-grandi/#respond Mon, 30 Oct 2023 08:27:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18785 Napoli. Una ragazza al posto sbagliato nel momento sbagliato viene arrestata con addosso la droga di un corriere, il suo ragazzo. Ci spostiamo sull’isola di Nisida, un posto quasi irreale nel Golfo di Napoli dove si trova davvero un istituto penale minorile. Desiré di Mario Vezza ha un incipit da Mare fuori e una delicatezza […]

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Napoli. Una ragazza al posto sbagliato nel momento sbagliato viene arrestata con addosso la droga di un corriere, il suo ragazzo. Ci spostiamo sull’isola di Nisida, un posto quasi irreale nel Golfo di Napoli dove si trova davvero un istituto penale minorile. Desiré di Mario Vezza ha un incipit da Mare fuori e una delicatezza introspettiva che ricorda il Fiore di Claudio Giovannesi. La protagonista è una sedicenne di origini nigeriane. Uno scricciolo d’energia stretta che con le sue due lingue madri porta sé due mondi dentro di sé: napoletano e francese. Testa alta e muso duro a proteggerne tenerezza e fragilità tipiche di quell’età, l’interpretazione di Nassiratou Zanre ci rende molto vividamente la forza di un’adolescente che vuole crescere a tutti i costi. Anche dal carcere, anche con una madre problematica che di tanto in tanto verrà a trovarla. Anche se il mondo intorno sembra implodere in quell’isolotto a ferro di cavallo con un mare cristallino dove fare il bagno, seppur sorvegliate dalle secondine, è un lusso per pochi.

Forse una via per fuggire da quelle mura è il teatro. Negli ultimi anni lo abbiamo visto con Grazie ragazzi di Riccardo Milani e ancor prima con il Cesare deve morire dei Taviani. Un insegnante di teatro, barba candida e passione artistica di Enrico Lo Verso, segue il gruppo di giovani detenute dove con fatica inizia ad ambientarsi anche Desiré. Lavorare su sé stesse per mettere in scena l’Amleto sarà il trampolino non solo per la protagonista, ma anche per tutte le altre ragazze. Un nuovo modo per apprezzare la loro vita di giovani donne. Emotività e percorsi interiori non emergono da sequenze di prove estenuanti (praticamente assenti) quanto più dai confronti con il loro maestro a fine prove. Una stilizzazione ottimamente congegnata alla base di una regia lineare che ne evidenzia i pregi senza mai strafare.

Il teatro come chiave capace di dischiudere la vita lo intende anche una secondina in una battuta con le ragazze dove ammetterà a mezza bocca di vivere già facendo teatro tutti i giorni. Un piccolo segno sulla condizione del personale penitenziario, costretto a vivere schermato dalle proprie emozioni ed empatie durante ogni turno di lavoro. La scrittura di Vezza, insieme a Fabrizio Nardi e con lo zampino di Maurizio Braucci, che ha appena accompagnato anche la sceneggiatura di Palazzina Laf, respira di mille sfumature perfettamente posate su ognuna delle ragazze che tra le mura carcerarie aspira alla vita a modo suo. Carica sessuale, rabbia, paura, resilienza, instabilità e amicizia, tutte represse tra le loro parole non dette fanno percorsi poco convenzionali attraverso queste penne, riservandoci nei giusti momenti dei buoni twist. Anche grazie alle giovani attrici del cast.

Alla Festa del Cinema di Roma n° 18, anzi meglio, ad Alice nella Città, la sezione separata che sembra un festival a sé, Desiré si è aggiudicato il Premio Raffaella Fiorella per il miglior film italiano del Panorama Italia, a sua volta sezione di Alice. Un po’ come questo gioco di sezioni a matrioska, in questo film conta il nocciolo, il coming of age diremmo con facilità o faciloneria. Invece il nocciolo qui sta semplicente nell’imparare a nuotare tra i flutti non sempre accoglienti della vita.

 

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L’uomo sulla strada, la caccia all’uomo è un thriller classico https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luomo-sulla-strada/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luomo-sulla-strada/#respond Wed, 26 Oct 2022 07:20:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17884 Si apre con una scena di gioco, l’opera prima di Gianluca Mangiasciutti L’uomo sulla strada. Il gioco tipico dell’infanzia e dell’ingenuità che precede ogni male. Una bambina corre nel bosco insieme a suo padre: i due si nascondono, si cercano e poi si ritrovano. Ma non stavolta. L’età dell’innocenza, infatti, si macchia improvvisamente di un […]

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Si apre con una scena di gioco, l’opera prima di Gianluca Mangiasciutti L’uomo sulla strada. Il gioco tipico dell’infanzia e dell’ingenuità che precede ogni male. Una bambina corre nel bosco insieme a suo padre: i due si nascondono, si cercano e poi si ritrovano. Ma non stavolta. L’età dell’innocenza, infatti, si macchia improvvisamente di un evento tragico: quando Irene vede suo padre morire vittima di un pirata della strada, capiamo che il vero gioco continuerà nella vita adulta, sotto forma di un perverso nascondino. La caccia all’uomo è aperta, e da questo momento ogni azione sarà irreversibile.

Unica testimone dell’omicidio, Irene cresce e diventa una giovane donna (interpretata da Aurora Giovinazzo) con un obiettivo morboso: ottenere giustizia, come suggerisce la sinossi del film. In realtà scopriremo d’essere a tutti gli effetti nel terreno della vendetta personale, dove il bisogno di pareggiare i conti diventa un’ossessione. Poiché nel film il destino si diverte a sbeffeggiare le sue stesse vittime, senza sospettarlo la ragazza verrà assunta proprio nella fabbrica dell’uomo che avrebbe ucciso suo padre (un Lorenzo Richelmy cupissimo, in giacca e cravatta).

Non solo le colpe dei padri, ma qualsiasi storia familiare a un certo punto ricade sui figli: questo sembra volerci dire Gianluca Mangiasciutti con il suo esordio al lungometraggio (presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Panorama Italia di Alice nella città). Lo fa affidandosi ad una sorta di coming of age strutturato sulle insolite premesse del thriller. Ma lo fa anche scegliendo – non a caso – un’attrice come Aurora Giovinazzo per dar corpo a una protagonista tormentata, semplice nella caratterizzazione ma magnetica sullo schermo. Perché in questo caso tifare per lei, nel bene e nel male, dev’essere anche una questione di chimica tra spettatore e messa in scena.

La rabbia di Irene trova una sua dimensione nell’interpretazione ancora rude e viscerale di Giovinazzo, più matura rispetto agli inizi già promettenti di Freaks Out, e senz’altro libera da molti tic del mestiere. Proprio per questo, però, si tratta di una spontaneità tecnicamente difficile da domare, e di fronte ad alcune scene viene da chiedersi se gli alti e bassi di Irene-Aurora siano funzionali a un personaggio ‘sopra le righe’ o avrebbero potuto essere diretti con più minuzia.

L'uomo sulla stradaMentre nella sceneggiatura va riconosciuto, purtroppo, l’aspetto più dolente del film (a causa di personaggi collaterali che rimangono bloccati nell’etichetta dello stereotipo, e di un ritmo sempre troppo teso, che non riesce a valorizzare i momenti di vera suspense), è interessante notare l’uso che Mangiasciutti fa della composizione visiva e della fotografia (di Luca Ciuti), eleggendole a veri e propri strumenti narrativi. Rispettando la cara vecchia scuola del genere thriller (e quindi optando per chiaroscuri ‘premonitori’ e palette eleganti, senza cedere alla tentazione del prototipo estetico Netflix), i tagli di luce dedicano un’attenzione particolare al personaggio di Lorenzo Richelmy, e il posizionamento dei personaggi nell’inquadratura non è mai casuale. È così che il regista riesce a suggerirne l’ambiguità, partendo dall’immagine per creare un distacco tra buoni e cattivi. O meglio: tra chi caccia e chi viene cacciato.

Convinti che nelle opere prime conti più il potenziale espresso che il fattore mancante, allora L’uomo sulla strada ci mostra il gusto di un regista affezionato alla narrazione classica, alla tradizione di un cinema di genere che difende il decoro estetico dall’omologazione mainstream. E, soprattutto, che dà valore al ruolo dell’essere umano nella scelta delle storie da raccontare, ai legami familiari, alla crescita degli eroi e anche a quella degli antieroi. Tanto sullo schermo quanto sul set, poiché le riprese del film sono state discrete e preservate dai social media. «Fare un film non è una vetrina né tanto meno significa farsi pubblicità» scriveva Mangiasciutti qualche mese fa. «Ho preferito rimanere isolato e concentrarmi su una cosa che aspettavo da anni». E a noi questa dimensione intima di un cinema fatto senza aspettative, guidato dalla passione e dal bisogno di indagare le emozioni, piace.

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Primadonna: una storia di coraggio che ci parla da vicino https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/primadonna-una-storia-di-coraggio-che-ci-parla-da-vicino/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/primadonna-una-storia-di-coraggio-che-ci-parla-da-vicino/#respond Fri, 21 Oct 2022 08:41:06 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17863 Italia, 1965. Siamo negli anni del boom economico, di Aldo Moro al governo, di un giovane Pier Paolo Pasolini. L’Italia che Marta Savina ci mostra in Primadonna, suo lungometraggio d’esordio presentato ad Alice nella Città, però non è questa. Siamo in una Sicilia rurale, ritratta nella sua religiosità arcaica, nell’accordo tra mafia e chiesa, nell’insicurezza […]

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Italia, 1965. Siamo negli anni del boom economico, di Aldo Moro al governo, di un giovane Pier Paolo Pasolini. L’Italia che Marta Savina ci mostra in Primadonna, suo lungometraggio d’esordio presentato ad Alice nella Città, però non è questa. Siamo in una Sicilia rurale, ritratta nella sua religiosità arcaica, nell’accordo tra mafia e chiesa, nell’insicurezza delle forze dell’ordine sottomesse alla criminalità organizzata.

Su questo sfondo quasi premoderno, vediamo la 21enne Lia (Claudia Gusmano), che passa le giornate a lavorare la terra con il padre (Fabrizio Ferracane). La sua vita cambia quando la sua tenacia incontra lo sguardo di Lorenzo Musicò (Dario Aita), figlio del boss del paese. Alla ragazza non serve molto per capire che con un uomo così non vuole avere nulla a che fare e, con il sostegno della famiglia, lo rifiuta: un gesto inammissibile per una casata orgogliosa e potente come quella del giovane, che decide ben presto di vendicarsi rapendo Lia e rinchiudendola in un casale dove la violenta. Minacciata e disonorata, sembra che di fronte alla ragazza ci sia un’unica soluzione possibile, il matrimonio riparatore. Ma Lia fa ciò che nessuno non ha mai fatto prima, ciò che le conferisce il titolo di primadonna: non si arrende di fronte alle minacce, rifiuta la proposta e trascina Lorenzo e i suoi complici in tribunale.

Primadonna

Marta Savina imposta un racconto lineare e cronologico, narrando in modo scandito le tappe principali di una storia che riprende una vicenda realmente accaduta: come del resto aveva già fatto nel cortometraggio di esordio Viola, Franca del 2017, in cui la protagonista era interpretata sempre da Claudia Gusmano. «Con Claudia è stato un colpo di fulmine. Ho capito che era  perfetta per il ruolo non appena si è seduta davanti a me, prima ancora di cominciare il provino vero e proprio», aveva detto già allora la regista.

La conoscenza da parte della regista degli usi della regione e la presenza di un cast, tecnico ed artistico, in gran parte proveniente dalla Sicilia conferisce al film un realismo che non scade mai nello stereotipo macchiettistico del meridione ma che al contrario rende giustizia ai luoghi e agli eventi che racconta. Il paesaggio messinese di Galati Mamertino è ritratto con una fotografia delicata che sottolinea una purezza della natura che sembra intrinsecamente collegata con la genuinità della protagonista. La potenza del dialetto siciliano conferisce enfasi ai dialoghi fra i personaggi, come i genitori di Lia, interpretati da Manuela Ventura e Fabrizio Ferracane.

Il risultato finale è un ritratto sensibile e rispettoso di una vicenda di coraggio ineguagliabile, forse a oggi ancora poco conosciuta, che pare dirci: se negli anni ’60 una donna di umili origini è riuscita a sconfiggere la mentalità mafiosa, cosa ci impedisce oggi di lottare per difendere i nostri diritti?

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Le ragazze non piangono, le due piccole Thelma & Louise di Andrea Zuliani https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-ragazze-non-piangono-le-due-piccole-thelma-louise-di-andrea-zuliani/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-ragazze-non-piangono-le-due-piccole-thelma-louise-di-andrea-zuliani/#respond Wed, 19 Oct 2022 19:29:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17852 È difficile crescere senza un padre. Sembra una frase fatta, ma succede ad Ele, diciannovenne introversa che stringe amicizia con la giovane rumena Mia. Un vecchio camper rimesso in sesto, entrambe le ragazze con la voglia di fuggire e la casualità di ritrovarcisi dentro per un viaggio dal sud, precisamente nel potentino, fino al nord […]

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È difficile crescere senza un padre. Sembra una frase fatta, ma succede ad Ele, diciannovenne introversa che stringe amicizia con la giovane rumena Mia. Un vecchio camper rimesso in sesto, entrambe le ragazze con la voglia di fuggire e la casualità di ritrovarcisi dentro per un viaggio dal sud, precisamente nel potentino, fino al nord Italia. Danno vita a questi personaggi Emma Benini e Anastasia Doaga, attrici brave a metterne in scena tutte le fragilità quanto il coraggio di mettersi in gioco trovato durante quest’avventura on the road.

Le ragazze non piangono, opera prima di Andrea Zuliani, in concorso ad Alice nella Città, sempre nel grande alveo di questa finalmente competitiva Festa del Cinema di Roma 2022, scorre con freschezza e voglia di mostrare due piccole Thelma & Louise alle prese con un percorso di crescita interiore che le porterà a guardare con occhi nuovi i loro passati e il loro futuro. Il regista sceglie una forma sostanzialmente lineare per il suo racconto, spezzata giusto con alcuni flashback che scopriranno pian piano i traumi che accomunano le due ragazze. C’è l’amicizia epidermica, quella delle persone che si riconoscono amiche con poche parole in pochi incontri, la solidarietà di due giovani donne che devono unirsi ancora di più quando possono rivelarsi gli uomini, spesso e volentieri, la peggiore minaccia.

le ragazze non piangono

Zuliani percorre questa strada senza sprofondare in retorica, non inventa granché di spettacolare nelle messe in scena, ma si dedica a una naturalità del pastiche molto credibile e discretamente diretta. Soprattutto nei momenti di emotività più alta. Il suo è un piccolo film che nel suo linguaggio dai toni tenui somiglia alla vita. Tanto che anche qui in alcuni momenti ci si annoia un tantino. Poco male per un esordio autoriale. Il regista firma la sceneggiatura con Francesca Scanu, e a volte sembra si distinguano molto chiaramente i momenti curati più dall’autrice o dall’autore. Ma sono quisquilie da sesso degli angeli. Il film regge, non travolge ma accompagna lo spettatore in una piccola esperienza cinematografica da road movie. In quanto storia su quattro ruote ricorda vagamente l’esordio di Alessandro Capitani, In viaggio con Adele, ma un po’ anche Calcinculo di Chiara Bellosi.

Tornando al nostro Le ragazze non piangono, nel titolo si cela tutta l’emotività confluita e caricata in crisalide, raffinata poi in energia di risposta e propulsione verso il domani da farfalla. Come caratteristi di rango, personaggi come muri, di sostegno o da oltrepassare per il fuggire lontano delle protagoniste, rinforzano non poco il lavoro di Zuliani Max Mazzotta e Matteo Martari. I loro character si compensano specularmente risultando utilissimi nel delimitare drammaturgicamente gli spazi emotivi delle due ragazze.

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The Land of Dreams, il musical-opera prima che sfida i modelli hollywoodiani https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-land-of-dreams-il-musical-opera-prima-che-sfida-i-modelli-hollywoodiani/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-land-of-dreams-il-musical-opera-prima-che-sfida-i-modelli-hollywoodiani/#respond Tue, 18 Oct 2022 19:36:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17837 Nel cinema italiano imbattersi in un musical è abbastanza inusuale, e lo è ancora di più se si tratta di un’opera prima: ed ecco che The Land of Dreams, lungometraggio d’esordio di Nicola Abbatangelo, rompe con entrambe le consuetudini. Presentato ad Alice nella Città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma, il film è […]

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Nel cinema italiano imbattersi in un musical è abbastanza inusuale, e lo è ancora di più se si tratta di un’opera prima: ed ecco che The Land of Dreams, lungometraggio d’esordio di Nicola Abbatangelo, rompe con entrambe le consuetudini. Presentato ad Alice nella Città, sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma, il film è ambientato nella New York dei favolosi anni Venti, e ruota intorno alla storia d’amore tra Eva (Caterina Shulha), immigrata italiana con il sogno di diventare cantante, e Armie (George Blagden), reduce della Grande Guerra con un segreto da nascondere.

Nonostante la nostra cinematografia abbia fatto qualche sporadica incursione nel musical, l’opera di Abbatangelo, con la sua ambientazione oltreoceano e il respiro internazionale, si discosta radicalmente da esperimenti di carattere prettamente nazionale, se non addirittura regionale, quali Tano da morire (Roberta Torre, 1997) e Ammore e malavita (Manetti Bros., 2017). Il film guarda chiaramente alla grande tradizione dei musical hollywoodiani: torna subito in mente Chicago (Bob Marshall, 2002), per l’epoca di ambientazione.

E The Land of Dreams nulla ha da invidiare al “medio” film americano per quanto riguarda la componente visiva. Fotografia ed effetti digitali rendono credibile la Grande Mela degli anni Venti, così come le scene di ambientazione onirica; anche i costumi contribuiscono a ricreare l’atmosfera Twenties. Quanto agli interpreti, la regia ne mette in risalto l’ottimo lavoro: a rafforzare il legame con la cinematografia internazionale vi è la presenza di George Blagden (Athelstan nella celebre serie Vikings), che gli amanti del musical ricorderanno per Les Misérables (Tom Hooper, 2012), e di Kevin Guthrie (noto per la saga di Animali fantastici e dove trovarli e la serie Netflix The English  Game). Al loro fianco non sfigurano gli attori italiani (tra gli altri la protagonista Caterina Shulha, il villain Edoardo Pesce e il suo braccio destro Paolo Calabresi).  

Il canto, ça va sans dire, è una componente fondamentale, e tutti gli interpreti si rivelano all’altezza. È la musica, però, che non convince appieno. I dieci pezzi che compongono la colonna sonora firmata da Fabrizio Mancinelli, seppur di buona qualità, non hanno l’incisività e la “memorabilità” tipiche dei musical più riusciti. Uscendo dalla sala non ne rimane in testa neanche uno, il che non è certo ideale per un film di questo genere. Sarebbe poi forse stato interessante se la colonna sonora avesse fatto più riferimento alla musica dell’epoca, in particolare al jazz: se non per tutte le canzoni, almeno per quelle che si potrebbero definire diegetiche, come la hit incisa e riprodotta alla radio, che con il suo sound chiaramente moderno stona un po’ con l’ambientazione.

La struttura del film, fedele a tutti i vari paradigmi dei manuali di sceneggiatura, regge in ogni suo plot point, conferendo al lungometraggio un ritmo perfetto, che a volte è difficile trovare nelle opere prime. Tuttavia neanche le convenzioni di genere possono far chiudere occhio, o meglio orecchio, di fronte a una scrittura dei dialoghi decisamente carente, che cade troppo spesso nell’ingenuo e nel cliché. A fronte di tutto questo, si può però dire che Nicola Abbatangelo sia perfettamente riuscito nel suo intento di ricreare un musical hollywoodiano in un contesto produttivo italiano. E rimane ora da capire se rimarrà un esperimento isolato, oppure se rappresenta l’inizio di una cifra autoriale, o una strada percorribile per superare la tendenza del cinema italiano a rinchiudersi nel locale, per aprire invece a un orizzonte internazionale.

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Valerio Ferrara: bisogna tornare a prendere la commedia sul serio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/valerio-ferrara-bisogna-tornare-a-prendere-la-commedia-sul-serio/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/valerio-ferrara-bisogna-tornare-a-prendere-la-commedia-sul-serio/#respond Wed, 12 Oct 2022 15:07:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17796 Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente. Valerio, […]

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Ha presentato il primo corto Notte romana a Venezia nel 2021 e, quest’anno, ha vinto La Cinef di Cannes con Il barbiere complottista, ora in première italiana ad Alice nella Città. Appena diplomato dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Valerio Ferrara è già una promessa. L’abbiamo incontrato per parlare di futuro ma, soprattutto, di presente.

Valerio, classe ’96, ha un sorriso ampio e accompagna la conversazione via zoom a grandi gesti: è pieno di quell’energia, che, dalla partecipazione di Notte romana alla Settimana Internazionale della Critica (SIC) della 78a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, l’ha portato alla vittoria nella sezione Jeune Cinéma/La Cinef del festival di Cannes, ribalta dei migliori corti provenienti dalle scuole di cinema di tutto il mondo. È il suo lavoro di diploma del Centro Sperimentale di Cinematografia, Il barbiere complottista, a trionfare davanti ai colleghi di Cina e Ucraina. La motivazione della giuria, unanime: non c’è strada migliore per raccontare le minacce al nostro presente, le insidie del futuro, che mettere in primo piano il complottismo e le sue conseguenze ormai inestricabili dai pensieri di tutti i giorni. Anche se il racconto del fenomeno giunge ben calato e radicato in una Roma comune, di quartiere, contemporanea, dove chiunque potrebbe, tra un colpo di rasoio e l’altro, ricevere succosi scoop sui rettiliani da parte del proprio barbiere di fiducia. Anche – anzi, soprattutto – visto che Il barbiere complottista è una commedia, l’unica inserita nella rosa della selezione.

«Che poi certo, parlando di generi, Il barbiere è di sicuro una commedia, ma una commedia che non si ferma al sorriso di superficie. A Lucio (Patané, interprete del protagonista Antonio Calabrò) continuavo a ripeterlo: non deve far ridere. Piuttosto, deve essere assurdo». E l’assurdo, ne Il barbiere complottista, arriva subito, molto vicino. Si comincia dall’ossessione di Antonio per il lampeggiare dei lampioni della città, codice morse alieno; dal campo-controcampo tra Patané e il PC su cui il barbiere compila ossessivamente, interlocuzione allucinata, il suo blog complottista. Si continua con un raid della Digos a casa di Antonio: gli devono confiscare il computer, deve seguirli in centrale, è proprio lui il signor Calabrò? La legittimazione, per il barbiere, non è mai stata così dolce, così agognata: i dati raccolti sono allora importanti, possono davvero imbarazzare nomi potenti ai ranghi alti del complotto, e invece no, tutto si scioglie nello svelamento di un attacco hacker, pericolo ben più reale di Bill Gates e microchip. E i lampioni? Be’, risponde il comandante di centrale, è semplice, il Comune non ha i soldi per tenerli sempre accesi e deve interrompere la corrente. Ma è al ritorno a casa del battuto Antonio che la commedia rivela tutta la sua forza tragica: l’arresto ha dato una motivazione ad amici e famigliari per credere, infine, alle teorie del barbiere, e lui non si è mai sentito così forte.

Valerio Ferrara Notte romana
“Notte romana” il primo corto di Valerio Ferrara.

«Vedi, secondo me bisognerebbe tornare a prendere la commedia sul serio, non come quella cosa che usi per spegnere il cervello e fare soldi al botteghino. Il cinema italiano ha una tradizione senza paragoni nella commedia, ma oggi, se guardo i film fatti per far ridere, parecchi sono vuoti, senza una direzione, non vanno oltre la battuta. Chissà in che guaio mi sto cacciando a dirlo, ma, per me, ridare corpo e sfaccettatura alla commedia è una questione di responsabilità». Gli chiedo di più. «Monicelli, Risi, De Sica, Comencini, i maestri della nostra commedia avevano capito come fare una cosa, ovvero lasciar parlare la realtà. Prendi Il vedovo (1959) di Dino Risi. Ecco, Il vedovo altro non è che un fatto di cronaca, il film si ispira al caso Fenaroli. Quindi la mia responsabilità girando e scrivendo Il barbiere è stata documentarmi scrupolosamente su tutto quello che mettevo sullo schermo, dando forma sia alla vena comica che a quella seria. Quando arriva la Digos, per esempio, dovevo sapere come effettivamente la Digos avrebbe potuto presentarsi a casa di un sospettato, quindi sono andato in centrale a indagare. Se Antonio fosse stato solo ammanettato e portato via, avrei tradito la realtà, e non volevo espedienti facili, di ilarità facile. Lo stesso per tante altre dinamiche sia de Il barbiere che di Notte romana».

Per Valerio, il tempo, storico e no, è una cosa seria, lo si nota dalla qualità dei suoi lavori. «Mi piace l’idea che le persone si siedano in sala e abbiano la possibilità di entrare gradualmente nello spirito del film. Poi c’è anche una motivazione più triviale, perché io al cinema sono sempre arrivato in ritardo e puntualmente mi perdo l’informazione fondamentale nei primi due minuti. Così ho deciso che non metterò mai le informazioni fondamentali nei primi uno o due minuti di film».

Anticipazioni? «Ancora non c’è nulla sul piatto, ma posso dire che mi sono innamorato del complottismo, e voglio capirlo ancora più a fondo. Credo che, per il momento, proverò a lavorare su quello. Probabilmente con un lungometraggio». Niente panico, quindi, se vedremo Valerio inquadrato in qualche raduno di terrapiattisti sul TG nazionale. «Per preparare Il barbiere sono stato a vari raduni, ho letto e imparato molto sul tema. Credo di aver capito che esistono vari livelli di complottismo: vanno da quelli che non farebbero male a una mosca a quelli che sarebbero pronti ad aprire il fuoco. C’è poi un’altra cosa che mi spaventa e quindi mi interessa del complottismo: oggi, a mio avviso, è l’unica ideologia che ancora resiste nel mondo occidentalizzato. Se c’è qualcuno che sta costruendo mondi paralleli, questi non sono sicuramente i registi o gli scrittori, ma i complottisti. Poi mai dire mai, magari la prossima volta che ci vedremo avrò fondato la mia personale ideologia complottista a favore della rinascita della commedia italiana. Magari c’entreranno le luci dei lampioni».

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Come prima, Tommy Weber e Antonio Folletto raccontano il film https://www.fabriqueducinema.it/festival/come-prima-tommy-weber-e-antonio-folletto-raccontano-il-film/ Wed, 20 Oct 2021 08:05:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16281 All’interno della selezione ufficiale della XIX edizione Alice nella Città trova posto anche l’ultimo film di Tommy Weber, Come prima, in sceneggiatura al fianco di Filippo Bologna e Luca Renucci. Un road movie che lega la Francia a Procida, una storia di due fratelli costretti a ritrovarsi dopo essersi separati 17 anni prima, ai tempi […]

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All’interno della selezione ufficiale della XIX edizione Alice nella Città trova posto anche l’ultimo film di Tommy Weber, Come prima, in sceneggiatura al fianco di Filippo Bologna e Luca Renucci. Un road movie che lega la Francia a Procida, una storia di due fratelli costretti a ritrovarsi dopo essersi separati 17 anni prima, ai tempi della Seconda guerra mondiale. Fabio (Francesco Di Leva) è una camicia nera mai pentita, rimasto aggressivo e violento nel corso del tempo, mentre André (Antonio Folletto) accantona l’orgoglio per tornare ad abbracciare il sangue del suo sangue in occasione del funerale del padre, scomparso da pochissimo e il cui ultimo desiderio è far riunire i propri figli. Abbiamo discusso del film con il regista e Antonio Folletto in occasione di un incontro ravvicinato.

Come prima è tratto dall’omonimo graphic novel dell’artista francese Alfred. Cosa ti ha affascinato e come è nata poi l’idea di farne un film?

Tommy Weber: Cercavo da diverso tempo di scrivere una mia sceneggiatura che parlasse di due fratelli. Quando poi mi è capitato di leggere il lavoro di Alfred mi è sembrato che fosse tutto già pronto per essere portato sul grande schermo. L’ho amato tanto e da subito, raccontava tutto in maniera molto diretta, piena di luce e umanità.

Antonio Folletto: Io il graphic novel l’avevo già letto in tempi non sospetti. Un anno e mezzo prima del film il nostro produttore, Luciano Stella, mi dice di leggere assolutamente il lavoro di Alfred perché era convinto che avrebbe trovato il modo di portarlo al cinema. Siccome lui è una persona seria che se dice una cosa poi la fa, poi è andata effettivamente così. Tommy ci ha aiutato molto per l’impianto della storia, ma non ci siamo mai posti il problema di essere esattamente aderenti a quello che c’è nel lavoro originale. L’importante è la dinamica tra i due fratelli, del loro amore e del viaggio che li porta a Procida.

Il film è sostanzialmente un road movie, un viaggio di formazione e di riscoperta della relazione tra i fratelli. Come avete gestito il passaggio dai momenti più tesi a quelli di rilascio, a volte quasi comici?

TW: Abbiamo lavorato a quattro o cinque letture del copione prima di lavorare in scena. È stata una cosa molto importante per me perché non parlo l’italiano molto bene e ai tempi delle riprese lo parlavo anche peggio. La comunicazione con gli attori era la mia più grande paura. Ho avuto un’assistente che mi ha aiutato moltissimo, Lucia Ceracchi, così da avere un dialogo con Antonio e Francesco con i quali abbiamo parlato molto tranquillamente di come io sentivo i momenti di violenza e di tormento. Sono una persona molto impulsiva e mi piace quando l’emozione emerge ed esce fuori. L’ho detto agli attori e Antonio e Francesco hanno avuto fiducia di me come io l’ho avuta della loro idea di personaggio. Ho avuto la fortuna di lavorare con due attori come loro, che si sono “tuffati” e hanno abbracciato i momenti di violenza come quelli di tenerezza.

AF: In questo senso ti aiuta molto la stanchezza… Come accade nella vita di tutti i giorni, dove quando discuti a lungo con una persona le cose alla fine diventano naturali, perché sei stremato e non ce la fai più. Quei momenti arrivavano così, ci aiutavano perché andavano a smussare lo scontro perenne tra i due personaggi.

Come prima di Tommy Weber
Un momento di “Come prima”.

La scelta dei luoghi e delle location in un film in movimento come questo è importante. Come avete lavorato da questo punto di vista?

TW: La verità è che non abbiamo avuto tanta scelta perché dovevamo girare una gran parte del film entro cinque settimane. Abbiamo girato molto ad Arpino, un luogo ricco di paesaggi e differenti scorci.

I personaggi di André e Fabio sono in contrapposizione tutto il tempo. L’unica cosa che hanno in comune sono il padre e una donna che forse amano entrambi. Come emerge nel carattere dei personaggi?

AF: Il padre è usato da André come pretesto per portare Fabio a casa. Non che non gliene importi realmente, è una cosa che fa soprattutto per se stesso. Va a prendersi suo fratello perché ne ha bisogno. Fabio è tremendamente aggressivo, ma anche André dentro di sé lo è e in alcuni momenti lo vediamo anche da fuori: è come un grido di aiuto nei confronti del fratello più grande che se ne è andato. C’è una frase bellissima che Tommy ha scritto assieme agli sceneggiatori, quando André dice a Fabio «la verità è che Maria stava con me per stare un po’ con te, e per me era lo stesso». Entrambi cercano colmare un vuoto: uno fuggendo lontano da casa, senza più nulla in mano se non i traumi del passato. L’altro facendo lo stesso viaggio, per poter sciogliere tutti i dubbi rivedendo il proprio fratello.

A guardare alcuni eventi recenti accaduti qui in Italia sembra che ci siano dei conti in sospeso con un passato mai realmente affrontato, come quello del fascismo che fa da sfondo anche alla storia di Come prima. Quanto ritieni sia importante approcciare questo genere di discorsi al cinema?

TW: La cosa che per me era più importante era il parlare di uomini, soprattutto quelli come Fabio, che era un fascista e continua a rivendicarlo. Di fatto è uno stronzo, violento e dai tanti aspetti negativi. Per questo penso sia importantissimo portare uno sguardo di amore e umanità su questo tipo di persone: sono persone che dimentichiamo spesso, perché è più facile lasciarle perdere, perché sono difficili da comprendere, ma nei confronti delle quali dobbiamo cercare comunque un dialogo.

 

 

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Shadows: un racconto di formazione come un thriller https://www.fabriqueducinema.it/festival/shadows-un-racconto-di-formazione-come-un-thriller/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/shadows-un-racconto-di-formazione-come-un-thriller/#respond Mon, 26 Oct 2020 09:31:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14459 Fin dai titoli di testa Shadows, il film del romano Carlo Lavagna in concorso alla 18esima edizione di Alice nella Città, è capace di stimolare la curiosità dello spettatore. Inquadrature che si spostano su quello che sembra un quadro composto da linee colorate, ricoperto di ombre; in sottofondo una musica suggestiva incute mistero e inquietudine. Subito […]

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Fin dai titoli di testa Shadows, il film del romano Carlo Lavagna in concorso alla 18esima edizione di Alice nella Città, è capace di stimolare la curiosità dello spettatore. Inquadrature che si spostano su quello che sembra un quadro composto da linee colorate, ricoperto di ombre; in sottofondo una musica suggestiva incute mistero e inquietudine. Subito dopo, Alma (Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet) si risveglia di soprassalto da un incubo, così la sorella Alex (Lola Petticrew) cerca di tranquillizzarla, guardandola negli occhi e ripetendo ad alta voce le sue caratteristiche fisiche per farla ritornare alla realtà. Un primissimo piano inquadra Alma, mentre con gli occhi umidi guarda direttamente in camera, accrescendo la tensione della scena.

Alma e Alex vivono in un enorme hotel diroccato, in un’ambientazione post-apocalitticaa che poco a poco si disvela quando la madre (Saskia Reeves) torna dalla caccia notturna. Carlo Lavagna alterna diverse tecniche per valorizzare il carico drammatico delle singole scene: movimenti di macchina morbidi fanno posto a riprese esagitate realizzate con la camera a mano, inquadrature più raffinate e classiche, che sfruttano la profondità di campo, si alternano a sequenze più grezze ed essenziali. La regia di Lavagna (qui al suo secondo lavoro, dopo Arianna) è così disinvolta e attenta da sorprendere in diverse occasioni, come nella scena notturna ambientata nel bosco, quando Shadows chiarisce la sua natura horror: il buio che rende il bosco inconquistabile, l’affanno dei personaggi a tutto volume.

Ma sarebbe riduttivo confinare Shadows in un unico genere. «Una madre è responsabile delle debolezze delle proprie figlie», afferma la mamma, eppure esercita malamente il suo istinto protettivo, e con il suo atteggiamento sempre più ambiguo e imprevedibile provoca una frattura nel rapporto con le figlie che le spingerà a compiere piccoli atti di ribellione via via sempre più audaci. A ben vedere Shadows è soprattutto il racconto di un’emancipazione, in cui due figlie reagiscono alla scoperta di lati oscuri nella personalità della madre.

La sceneggiatura (scritta a otto mani da Vanessa Picciarelli, Fabio Mollo, Damiano Bruè e Tiziana Triana) rende con efficacia la suggestione provocata dalla mamma e dal suo istinto protettivo nelle due ragazzine: fuori «la natura si sta riprendendo tutto», ciononostante la mamma fomenta le paure anche indirettamente limitando la loro curiosità e non fornendo spiegazioni, oppure ignorando la loro crescita che le ha già portate ad avere i primi desideri sessuali e le prime mestruazioni. Soprattutto, la madre conserva il potere alimentando l’ignoranza delle figlie verso il mondo esterno: analogamente come accadeva in Kynodontas (di Yorgos Lanthimos, 2009), avere il controllo sulla cognizione degli oggetti fisici determina chi possiede il predominio.

Shadows è prodotto da Andrea Paris e Matteo Rovere, una produzione Ascent Film con RAI Cinema, in coproduzione con Feline Films, in associazione con Fís Éirean / Screen Ireland.

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Sul più bello, la fiaba moderna che emoziona il festival https://www.fabriqueducinema.it/festival/sul-piu-bello-la-fiaba-moderna-che-emoziona-il-festival/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/sul-piu-bello-la-fiaba-moderna-che-emoziona-il-festival/#respond Mon, 19 Oct 2020 07:52:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14437 Come ti vedi a 60 anni? Non è facile rispondere a questa domanda per nessuno e non lo è soprattutto per Marta, la protagonista di Sul più bello, film di Alice Filippi – già aiuto regista di Carlo Verdone – presentato in questa quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città. […]

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Come ti vedi a 60 anni? Non è facile rispondere a questa domanda per nessuno e non lo è soprattutto per Marta, la protagonista di Sul più bello, film di Alice Filippi – già aiuto regista di Carlo Verdone – presentato in questa quindicesima edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città. Un film che affida a Marta (interpretata da Ludovica Francesconi), affetta da fibrosi cistica, la forza di combattere contro una fine che può essere allontanata fino a diventare, per quanto possibile, relativa.

E per farlo, l’unica arma vincente che la giovane guerriera ha a disposizione è quella del tempo, scegliendo di non rimandare nulla al domani ma di sfruttare il presente. È proprio così che conoscerà Arturo (Giuseppe Maggio), uno di quelli che non sceglierebbero mai «una come lei», un Casanova abituato ad avere tutto che si trova davanti una ragazza in continua lotta per conquistarsi ciò che vuole. La loro relazione iniziata in modo atipico si trasformerà poi in una relazione d’amore puro che andrà oltre i segreti, le apparenze e i pregiudizi.

Oltre ad Arturo e alla protagonista, anche la coppia di Jacopo e Federica, i due angeli custodi di Marta, è costruita in modo tale da scardinare altri pregiudizi: entrambi sono omosessuali ma vorrebbero avere un figlio, si fidano ciecamente l’uno dell’altra e si sentono pronti per compiere questo passo. Ecco che però a rovinare ogni piano ritorna il tarlo del tempo, della frenesia di diventare adulti, di prendersi delle responsabilità senza valutare i rischi di una scelta, una velocità illusoria che si attenuerà soltanto sul finale.

Quello che colpisce dell’opera della Filippi, tratta dall’omonimo romanzo di Eleonora Gaggero e in sala dal 21 ottobre, è il suo valore quanto mai attuale. La situazione che ognuno di noi sta attraversando dall’inizio della pandemia ci porta a non programmare più le nostre vite, a non pensare al futuro, perché tutto potrebbe cambiare proprio “sul più bello”. Il Covid ci ha fatto riscoprire il valore di ogni desiderio e di ogni gesto facendoci riapprezzare il presente. Non è importante sapere cosa faremo domani ma è importante saper vivere l’oggi senza riserve perché, come canta Alfa nella colonna sonora del film, «è il destino a cambiare la destinazione».

Purezza, emozione, profondità: sono le parole con cui si può riassumere la fiaba moderna di Alice Filippi che cerca di tratteggiare un mondo migliore attraverso le emozioni e i sentimenti di ragazzi giovanissimi, e si può dire che c’è riuscita.

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