Alberto Caviglia Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 10 May 2017 06:53:44 +0000 it-IT hourly 1 “Pecore in erba”: quando l’odio fa ridere https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/pecore-in-erba/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/pecore-in-erba/#respond Wed, 16 Dec 2015 17:30:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2420 Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia. Per riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le […]

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Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia.

Per riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le possibilità di un genere poco frequentato in Italia piegandolo a una romanità che trapela da ogni inquadratura. Pecore in erba (bisogna vedere il film per capire il titolo, diciamo che è un riferimento alla cultura calcistica…) è un film politico e al tempo stesso un pazzo diario in cui il regista esplora le proprie radici, romane ed ebree, riflettendo sulla discriminazione, sulle deformazioni storiche e sulla violenza subita dal popolo ebraico. E cosa c’è di meglio di una bella risata per svecchiare un tema seminale e proprio per questo già ampiamente affrontato?

«La scelta di usare la satira, nello specifico il mockumentary, per parlare di antisemitismo è stata un punto di arrivo» ci racconta Alberto. «Volevo aggiungere un punto di vista nuovo all’argomento per dargli profondità. Sono consapevole che in molti prima di me hanno affrontato questo tema, perciò ho scelto di ribaltare la prospettiva trasformando il protagonista della mia storia, l’antisemita Leonardo Zuliani, in un eroe dei nostri giorni. A quel punto la scelta del mockumentary è stata automatica».

Per amplificare ulteriormente la dimensione di follia con cui viene trattato il razzismo, Caviglia si è inventato addirittura una patologia sconosciuta dalla medicina tradizionale, l’antisemifobia, repulsione fisica all’ebraismo e alle sue manifestazioni. Basta, infatti, una melodia ebraica per provocare a Leonardo un attacco convulsivo. Riflettendo sui modelli a cui si è ispirato per il suo originale progetto, il regista non può esimersi dal citare Zelig: «Lo humor è nel DNA ebraico e Woody Allen è un maestro. Ma oltre a Zelig, il mio punto di riferimento è stato Forgotten Silver, geniale mockumentary di Peter Jackson che in pochi conoscono. In Italia il falso documentario è un genere inesplorato, perciò sapevo di muovermi su un terreno delicato. Ero consapevole che chi non conosce questo linguaggio avrebbe capito il mio film più tardi rispetto agli altri, ma le reazioni in sala sono state buone. Il pubblico si è divertito e anche la critica lo ha accolto bene. Resta l’amarezza al pensiero che prodotti come il mio rimangono in sala troppo poco tempo per sfruttare il passaparola, ma io ho fatto il film che volevo perciò sono soddisfatto».

Anche se i modelli di riferimento cinematografici citati da Caviglia sono stranieri, guardando il suo film non può non venire in mente certa tv satirica italiana. Complice la presenza di Marco Ripoldi del Terzo Segreto di Satira, che interpreta il presidente della Lega Nerd (versione intellettuale della Lega Nord), i riferimenti al piccolo schermo si sprecano. «Uno dei temi trattati nel film è proprio la comunicazione, la relatività della verità esposta dai media» conferma il regista «e le webserie si prendono gioco della realtà, perciò sono state uno dei miei punti di riferimento. Ma è il mockumentary che, per sua natura, spinge a coinvolgere personaggi della cultura e della tv». Personaggi che non hanno tardato a rispondere all’appello. A sorpresa, in Pecore in erba compaiono Enrico Mentana, Carlo Freccero, Vittorio Sgarbi, Corrado Augias, Ferruccio De Bortoli, Linus, Mara Venier, Giancarlo De Cataldo, Giancarlo Magalli e tanti altri volti noti che si sono prestati al gioco interpretando se stessi.

Nel raccontare di come sia riuscito a convincerli a partecipare al film, Alberto Caviglia non si sbilancia, tenendo per sé gli aneddoti più gustosi, ma ci svela che «alcuni, come Carlo Freccero, hanno dimostrato grande entusiasmo; altri, come Gipi e Sgarbi, si sono fatti pregare prima di dire di sì. Alla fine, però, tutti hanno accettato di farsi prendere in giro e di prendere in giro il proprio ruolo». Un caso a parte è rappresentato dal cast di Paura d’odiare, dramma fictional ispirato alla vita di Leonardo Zuliani dai toni molti vicini alla soap più infima, i cui frammenti vengono genialmente incastonati tra le finte immagini di repertorio e le interviste. A interpretare Zuliani – a fianco del “titolare” Davide Giordano – è Vinicio Marchioni. Con lui vi sono Margherita Buy nei panni della madre, Carolina Crescentini in quelli della fidanzata, mentre il padre ha il volto severo di Francesco Pannofino. La coppia Crescentini-Pannofino, peraltro, rievoca quella grande satira dell’industria televisiva che è Boris. «È vero che ho riunito parte del team di Boris, ma non era voluto. Erano ruoli marginali, quasi mi vergognavo a proporre la sceneggiatura a Carolina. Ma lei e Vinicio, dopo averla letta, hanno accettato immediatamente. Quanto a Margherita Buy, era oltre ogni mia ambizione averla sul set, ma anche lei ha dimostrato grande sense of humor».

 

 

In questo gioco di specchi tra realtà e finzione, non sono però reali i membri della comunità ebraica che compaiono nel finale. Alberto ci tiene a puntalizzare di non aver subito veti o censure nella realizzazione del film, ciononostante ha deciso di non calcare troppo la mano. «Se è vero che l’umorismo ebraico ha radici antiche, è vero anche che la comunità ebraica di Roma, in passato, non ha brillato per ironia o autoironia. L’importante è che tutti abbiano compreso il messaggio del mio film. A Roma si sono verificati episodi di intolleranza, ma lo stesso è accaduto in altre parti d’Italia. Non è per questo che ho scelto di ambientare qui il mio film. Roma è la mia città. Trastevere è il quartiere che amo ed è stato naturale per me puntare la macchina da presa sui luoghi che conosco». E proprio a Trastevere vive e si muove Leonardo Zuliani. Qui il giovane affetto da antisemifobia concepisce tutte le sue trovate razziste, accolte con successo dal pubblico. Dal fumetto antisemita Bloody Mario, ispirato alle molestie nei confronti del compagno di scuola ebreo, alla linea di abiti Baci Ebreacci, dalla New Bible Redux, edizione della Bibbia da cui sono stati espunti tutti i riferimenti agli ebrei, al gruppo neonazista greco Tramonto di Bronzo, Pecore in erba è un caleidoscopio di trovate satiriche nonsense. Come spiega il regista «in fase di scrittura, ho scoperto che il film si stava trasformando in una sorta di meraviglioso contenitore e ogni giorno inserivo nuove trovate. Il finale è una follia, ma ho scelto di concludere rivolgendomi all’unico personaggio sano del film, il nonno di Leonardo [Omero Antonutti]. L’importante era mettere in chiaro che il mio non era un film antisemita e non volevo che ci fossero ambiguità al riguardo». Ambiguità che invece appartengono al personaggio di Leonardo Zuliani, in apparenza quanto di più lontano dai classici naziskin haters degli ebrei. Al posto del cranio rasato, Leonardo ha una chioma di riccioli fluenti, accompagnati dagli occhi sgranati e da un animo, in apparenza, sensibile. Ma nel fitto puzzle di testimonianze e interviste in cui si parla di lui, non sentiamo mai la sua voce.

«Leonardo non parla perché non possiede un’ideologia» chiarisce Alberto. «Lui odia gli ebrei, ma non è in grado di spiegare la ragione del suo rifiuto nei loro confronti. Non avrei mai voluto sentire la sua voce». L’ultima curiosità riguarda Ferzan Ozpetek, con cui Caviglia ha collaborato per sette anni. Eppure la sua opera d’esordio è quanto di più lontano si possa concepire dal cinema del regista turco. La spiegazione è semplice: «Ozpetek mi ha insegnato tutto ciò che so sul mestiere del regista, ma stavolta la sfida era metterci del mio!».

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