Alain Parroni Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 18 Sep 2023 16:53:48 +0000 it-IT hourly 1 Una sterminata domenica, l’esordio di Alain Parroni a Venezia 80 https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/una-sterminata-domenica-lesordio-di-alain-parroni-a-venezia-80/ Tue, 25 Jul 2023 10:49:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18613 Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e […]

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Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e Wim Wenders (Road Movies), e il film sarà in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 80.

La difficoltà della chiacchierata non sta tanto nell’evitare spoiler e linciaggio, ma nell’offrire un assaggio dell’atipicità del personaggio e della sua opera prima. Questo film esiste, senza esistere davvero, da almeno sei anni. Nel frattempo Parroni ha vissuto in un bunker, si è infilato in situazioni al limite della follia, ha combattuto contro chi avrebbe potuto produrlo. Alla fine ha vinto lui. È riuscito a fare esattamente il film che voleva fare: un film assurdo. E per un esordiente è quasi impossibile. Chi scrive ha goduto e subìto in prima persona i risvolti di questa estenuante gestazione, per questo, quando Parroni dice: «Non mi sembra che questo film mi abbia completamente risucchiato», io alzo un sopracciglio. E poi scoppiamo a ridere.

Nel 2017 la nostra intervista su Fabrique si chiudeva con te che già parlavi di questo film. Dicevi che sarebbe stato «un lavoro collettivo, quel circo che tanto mi diverte». Lo è stato?

Caspita! Un lavoro di cinque anni dev’essere per forza collettivo, sennò diventi pazzo. Eppure tante persone avrebbero potuto dirmi: «Adesso però sticazzi, è il tuo lavoro, non il nostro». Questo circo invece ci ha permesso di fare tantissime cose improvvisate, che forse sono le più belle del film. Penso alla mia famiglia numerosa, che mi ha aiutato con i provini in un periodo in cui ad Ardea stava succedendo di tutto: facevo i casting mentre giravano Super Sex, sembrava la città del cinema. Ho vissuto questi anni come una jam session, ma in realtà è andata abbastanza come avevo programmato.

Ecco, Ardea: tutto inizia e torna lì, per te.

Il film è ambientato nel luogo in cui sono cresciuto e da cui, come tutti durante gli studi, mi sono allontanato. Lo dico senza voler fare la classica vignetta di Alain che prende il treno e va in città, però è così. In terza media marinavo la scuola per andare a Piazza del Popolo e il film questa dimensione ce l’ha. Già questo è stato doloroso: girare un film a Napoli sarebbe stata una vacanza, invece tornare a casa e provare ad essere sincero è un’altra cosa. Ho vissuto con i ragazzi del film situazioni e serate distruttive che ogni adolescente di provincia conosce. Ho scoperto un sacco di cose sui miei genitori che non sapevo, ho trascorso molto tempo al bar dove mio padre usciva da ragazzino, i suoi amici dell’epoca mi hanno raccontato storie che probabilmente lui non mi avrebbe mai detto. Non fanno parte del film, ma mi hanno permesso di crescere per girare questo film.

Tre personaggi principali: Alex, Brenda e Kevin. Hai scelto degli sconosciuti.

Sono giovanissimi, non hanno grandi esperienze alle spalle. Ho fatto moltissime interviste nel corso degli anni a ragazzi reali, perché mi serviva partire da lì per scrivere la sceneggiatura. Quelle testimonianze le ho poi infilate a forza dentro gli attori che ho scelto, cioè la realtà della campagna romana impiantata in un attore di Torino e uno del Lago di Garda. Quello che ho sempre immaginato era prima di tutto visivo, quindi non mi interessava se Zac non fosse cresciuto ad Ardea: dopo una settimana gli si è attaccata addosso.

una sterminata domenica
Alain Parroni sul set di “Una sterminata domenica” (ph: Roberto Pioli).

Molto prima dei casting, e molto prima che qualcuno volesse produrti, hai iniziato a fare delle interviste per trovare gli attori giusti. Racconta.

Dopo aver letto la sceneggiatura, un produttore mi aveva detto: «Non esistono adolescenti così. Dove sono i genitori? Perché non gliene frega un cazzo della scuola?». Io gli avevo risposto: «Perché, i genitori di Sailor Moon dove erano mentre combatteva?». Ma dovevo anche dimostrarglielo, così il giorno dopo sono tornato a provocarlo con le prime dieci interviste: «Sicuro che non esistono questi adolescenti?». Ho iniziato a cercare ragazzi giovanissimi, i miei cugini, i loro amici e gli amici degli amici. Li intervistavo e a distanza di due anni tornavo a parlare con tutti.

Una sterminata domenica: che storia è questa?

Come me la racconto io: è un triangolo amoroso estivo, che parte equilatero e in autunno diventa scaleno. Come la racconterei ai distributori: è un film di formazione su tre adolescenti, tra i 16 e i 20 anni, che cercano di affermarsi nel mondo attraverso l’unico strumento che hanno: attirare l’attenzione in qualsiasi modo. Che poi è anche quello che dovresti fare quando giri il tuo primo film. Nella nostra intervista del 2017 dicevamo che avrebbe dovuto essere un proiettile. Piombo puro. Credo lo sia, soprattutto a livello visivo. Questo è quello che ho dentro: adesso lo vedete?

Se questo film avesse un genere?

Se proprio dovessi scegliere, mi farebbe sorridere se venisse etichettato come un coming of age o come un teen drama. È un genere con cui sono cresciuto. E poi realizzare questo film è stato anche il mio, di coming of age.

Qual è il pubblico per un film come il tuo?

In fase di casting mi hai detto che, secondo te, le scelte che stavo facendo non avrebbero reso il film accessibile a tutti.

Ti ho detto che il rischio era quello di impacchettarlo come un film pop, ma che poi l’avrebbero preso come un presuntuoso film d’autore.

Però anche le scelte d’autore oggi sanno essere stordenti. Io credo che alle basi del film ci sia un teen drama a tutti gli effetti, che ne possa godere qualsiasi ragazzino, e nella prima parte del film ci crederanno. Poi forse rischieranno di sentirsi bombardati.

Tu non volevi solo fare la tua opera prima, volevi anche dimostrare che si può girare un film in modo diverso rispetto a quello che ti viene imposto.

Io non capisco come gli altri non lo capiscano. Quando non trovavo i produttori sono arrivato a riprogettare tutto come un film fotografico, l’avrei fatto da solo, così. Come puoi farti mettere sotto dalla visione di un produttore? Se credi in un’idea, come fai a non girarla come vuoi tu? Io non penso che ci sia tutta questa competizione come ci vogliono far pensare quando siamo giovani. Sembra che tutti vogliano fare un film, ma non è davvero così.

Dopotutto, adesso sei prodotto da Wim Wenders. Se lo chiederanno tutti: come l’hai agganciato?

Avevo un film pronto ma non lo stavo girando e quindi stavo impazzendo. Sognavo il Giappone da una vita: ci vado. Come itinerario uso Tokyo-Ga di Wim Wenders, un film bellissimo che racconta Ozu. Vado nello stesso bar del film e conosco la signora che ha incontrato Wenders quarant’anni prima e via così, finché non arrivo alla tomba di Ozu. Gli porto il whisky come ha fatto Wenders e poi gli dico: «Ozu, porco Giuda, io non riesco a fare un film». Dopo due settimane Giorgio Gucci mi chiama: «Sono andato al MIA, c’è Wenders che cerca opere prime da realizzare. Ci ha detto di inviargli il tuo materiale». Poco dopo mi sono ritrovato con la fotocopia del passaporto di Wenders per partecipare al bando del Ministero. Oggi stiamo chiudendo il film sempre con il Giappone di mezzo: è surreale che mi abbia detto di sì il compositore di Evangelion, l’anime che guardavo da ragazzino ad Ardea. Alla fine di tutto dovrò tornare lì, ringraziare Ozu e portargli un’altra bottiglia di whisky.

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Alain Parroni, un regista tra disegno e realtà virtuale https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alain-parroni-un-regista-disegno-realta-virtuale/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alain-parroni-un-regista-disegno-realta-virtuale/#respond Tue, 17 Oct 2017 12:56:43 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9479 Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato […]

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Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato e futuro per lasciare memoria di sé.

[questionIcon]In IOV hai ricostruito il Polo Nord, con Macaroni hai rivisitato il furto della Gioconda per mano di Vincenzo Peruggia: due regie devote all’estetica per poi arrivare a Drudo e Adavede, in cui tutto è giocato su drammaturgia e recitazione. Come mai questa profonda differenza di approccio?

[answerIcon]Quando scrivo una storia inizio contemporaneamente anche a disegnare, sempre con tecniche diverse. È così che prendono forma le mie inquadrature. Ho disegnato Adavede a carboncino, usando solo schizzi grezzi, perché era una storia di graffiti e segni. Al contrario Macaroni ha uno storyboard dettagliatissimo, perché volevo fare “il cinema dei grandi” in una sorta di teatro di posa. La regia è quella, ma lo stile credo debba cambiare in ogni opera. È come per i testi: a volte scrivi una poesia, altre una lettera o un romanzo. Non a caso ogni cortometraggio è stato un atto d’amore nei confronti di una persona, e questo ha richiesto forme d’espressione diverse.

foto dal film IOV di Alain Parroni

[questionIcon]I tuoi lavori nascono da una curiosa fusione di linguaggi: scultura, pittura, grafica, animazione. Stai definendo ancora la tua strada o sogni una sorta di rivoluzione dell’audiovisivo?

[answerIcon]Inizialmente ero accecato, come tutti, dall’amore per il cinema dei maestri. Quindi provavo a fare quello che avevo sempre visto fare agli altri. Poi con Adavede si è accesa la consapevolezza di essere nel Duemila, e in fondo c’è motivo di esistere anche nel 2017: devo dare un senso a questo. Giacometti voleva fare una scultura solo per sotterrarla e lasciarla trovare ai posteri, come testimonianza di un’epoca. Anche io avrò un tempo limitato per definire quello che ho attorno. Quindi sì, è la ricerca e insieme il bisogno di essere testimone del nostro tempo, del nostro cinema. La rivoluzione devi farla per forza.

[questionIcon]La tua idea di set è particolare: come lavori con la tua squadra? Pensi possa funzionare anche con realtà produttive più grandi?

[answerIcon]Con Macaroni ho iniziato occupandomi anche della fotografia, dei costumi, della scenografia. Ma ero circondato da assistenti e ho notato subito che tutti davano una pennellata indispensabile al quadro. Ho voluto mettere nei titoli di testa di Adavede le firme scritte di tutta la troupe: le persone con cui lavoro mi sono accanto già dalle prime allucinazioni; capita addirittura di andare a fare sopralluoghi per qualcosa che nemmeno ho scritto, e magari dalla foto del sopralluogo nasce una scena. Parliamo tantissimo di qualsiasi idea: a volte rimane solo il tormentone di una settimana, altre diventa una sceneggiatura. Herzog è stato un pilastro per me e per i miei colleghi della RUFA, ci ha ispirato nel portare avanti questo modo zingaro di impostare il set. Come adatterò tutto questo al cinema che c’è fuori? È una domanda ricorrente oggi, che mi pongono anche alcuni produttori. Spero di poter coinvolgere il mio team, ma comunque questo è il mio modo di lavorare, non potrei rinunciare al confronto. Se non riuscissi a far innamorare delle mie idee per primo il direttore della fotografia o lo scenografo, come potrei riuscirci con gli spettatori in sala?

foto dal film Macaroni di Alain Parroni

[questionIcon]Tu nasci come disegnatore per poi scoprire la regia. Qual è stato il percorso verso il cinema?

[answerIcon]All’istituto d’arte ho studiato fotografia, grafica e stampa, come incisione su lastra e linoleum. Grazie a un corso di animazione ho scoperto lo storyboard e il montaggio: piano piano ho capito che con tecniche miste potevo fare animazione anche con degli oggetti. Utilizzando una piccola compact ho iniziato a sperimentare e a creare degli ibridi, accorgendomi che mentre disegnavo ero anche costumista, direttore della fotografia, davo voce ai personaggi. Soprattutto la tecnologia mi permetteva di inserire dell’audiovisivo e ottenere effetti più realistici. Questa formula mi faceva impazzire… e all’istituto hanno iniziato a dirmi che quello era cinema.

[questionIcon]Nei tuoi lavori ci sono due motivi ricorrenti: lo “storicamente falso”, con cui ti appropri aggressivamente di grandi icone, e il fascino per l’immagine di repertorio.

[answerIcon]Bataille parla di una parete, nelle grotte di Lascaux, su cui gli uomini hanno disegnato per millenni. Io cerco di fare la stessa cosa, di mettere il mio segno sul muro. Per Macaroni sono riuscito a trovare i contatti dei pronipoti di Peruggia, ho letto tutta la sua corrispondenza con l’Italia. Per IOV ho studiato il materiale conservato nel Museo dell’Aereonautica di Vigna di Valle, una storia epica ma ignorata dai più. Come ognuno di noi, nascendo irrompo nella storia: così, partendo dalla documentazione, a un certo punto inizio a metterci me stesso. Se fossi stato analfabeta e alcolista nel 1900, di fronte a quell’immagine di donna rappresentata dalla Monna Lisa non mi sarei innamorato? Probabilmente sì. Ho sempre avuto il bisogno di proseguire il disegno sulla grotta e tenere vivo il dialogo con la storia.

[questionIcon]Come hai fatto con il tuo progetto di VR, Anywhere at home, presentato nel 2016 al designer canadese Karim Rashid.

[answerIcon]La differenza tra video e foto mi ha sempre messo in discussione. Non ho mai saputo scegliere tra queste due macchine del tempo: tra la potenza della memoria viva e l’altra immobile, fissata per sempre. Poi ho pensato che c’è una tecnologia, la VR, che mi permette di unire la fotografia al cinema, il mezzo più immersivo che esista. Così ho preso delle foto della mia famiglia, a partire da mia madre sedicenne nella sua camera da adolescente. E ancora, mio padre da ragazzo. Fino al loro incontro e alla mia nascita. Sono andato negli stessi luoghi in cui erano state scattate quelle fotografie, realizzandone delle altre a 360 con una situazione di messa in scena che mi aiutasse poi a ricostruire l’ambiente in 3D. Infine ho creato un visore di ceramica, un oggetto di design che si ispirasse alle nostre antiche culture, come contenitore di radici pesante e insieme fragile. Da quando ho visto La jetée ho capito che parlando di cinema parliamo davvero di memoria.

foto dal film Adavede di Alain Parroni

[questionIcon]Per i tuoi prossimi progetti ti stai muovendo in questa direzione?

[answerIcon]Sto scrivendo due lungometraggi per il cinema. Uno sfrutta la VR utilizzando pellicola e tecniche di animazione sperimentale. Stavolta sarà un atto d’amore nei confronti dell’immagine. Quando ho provato la VR per la prima volta è stato spontaneo aggrapparmi alla sedia, tant’era la suggestione di fronte al nuovo mezzo. Penso di aver capito la reazione del pubblico all’arrivo del treno dei Lumière: anche noi ora siamo nella fase dell’intrattenimento, dello stupore. L’altro progetto è pensato per il set: sarà un lavoro collettivo, quel “circo” che tanto mi diverte. Nasce da tutto quello che ho visto finora, un linguaggio iconico e pop, con un’estetica sporca e aggressiva. Vorrei che avesse l’eco di un proiettile audiovisivo.

[questionIcon]E da quale disegno nasce una storia così pop?

[answerIcon]Ho iniziato disegnando un’immagine sacra, poi mi sono accorto che era diventata una macchina scrostata dalla salsedine, con un rossetto rosso sul sedile e dentro Alex, Brenda e Kevin.

 

 

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