Abel Ferrara Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 01 Apr 2022 17:42:55 +0000 it-IT hourly 1 Abel Ferrara: la mia Piazza Vittorio https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/abel-ferrara-la-mia-piazza-vittorio/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/abel-ferrara-la-mia-piazza-vittorio/#respond Thu, 20 Sep 2018 04:23:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11338 Partito dalla sua New York, anzi, dal suo Bronx, Abel Ferrara ha scelto di vivere a Roma da tre anni. Così anche il suo cinema si è mescolato all’Italia. In particolare in Piazza Vittorio (qui il trailer ufficiale), documentario vivo e folcloristico, distribuito al cinema da Mariposa Cinematografica, Ferrara percorre le strade dell’Esquilino per comporre il ritratto […]

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Partito dalla sua New York, anzi, dal suo Bronx, Abel Ferrara ha scelto di vivere a Roma da tre anni. Così anche il suo cinema si è mescolato all’Italia. In particolare in Piazza Vittorio (qui il trailer ufficiale), documentario vivo e folcloristico, distribuito al cinema da Mariposa Cinematografica, Ferrara percorre le strade dell’Esquilino per comporre il ritratto complesso e sfaccettato di un quartiere che bolle tra immigrazione, cambiamenti culturali, piccole e grandi intolleranze e voglia di vivere contrapposta alla disperazione della povertà.

Il cinema di Ferrara resta fedele a sé stesso, non si scosta dall’urgenza di narrare storie appassionati di vinti o sognatori di vittorie. Qui la sua sceneggiatura diventa la strada, gli attori, la gente e dal perenne incrocio tra realtà e narrazione si scopre anche la sua corteccia più umana, comune a questi uomini e queste donne che da i cinque angoli del mondo popolano il quartiere più multiculturale di Roma. Anche Ferrara è a suo modo un immigrato. Ne abbiamo parlato con lui incontrandolo nella città eterna in occasione dell’uscita del film.

abel ferrara

[questionIcon] In una vecchia canzone Sting diceva di essere un «English man in New York». Invece Abel Ferrara nel suo nuovo film si definisce un immigrato italo-americano a Roma.

[answerIcon] Sai, Roma è come New York. Molte delle persone non sono di là ma vengono da tante altri parti del mondo. Io sono tornato perché qui ci sono le mie radici, i miei nonni erano in Campania, a Sarno. Roma è una città molto moderna, ma vive molte difficoltà come il Sud Italia. Invece io provengo dal Bronx, che sta a New York ma ne è completamente diverso. Come Piazza Vittorio. In America c’è maggiore connessione tra le varie realtà, mentre qui in Europa c’è molta diversità. Sia tra le varie città come Roma, Barcellona o Sarajevo, sia all’interno delle stesse. Io vivo a Colle Oppio, vicinissimo a Piazza Vittorio, ma da me è già tutto molto diverso. Roma è molto variegata!

[questionIcon] In certi momenti del film si respira quasi quell’aria di frontiera, di scoperta della terra da parte dei nuovi arrivati che caratterizzava il racconto cinematografico del Far West, complice anche la colonna sonora.

[answerIcon] È vero. Infatti, per alcune sequenze ho scelto Do Re Mi di Woody Guthrie e sono molto d’accordo con questa interpretazione. Mi piace l’idea che scoperta e tensione vengono fuori da questo luogo. A volte ricordano proprio quel clima di frontiera di cui parli.

[questionIcon] Diverse persone intervistate da lei si sono messe a cantare. Un’ispirazione casuale o un popolo gioioso?

[answerIcon] Molti si sono messi a cantare, è vero, sempre spontaneamente. È stata una sorpresa anche per noi e si è ripetuta spesso. Sono quelle piccole cose che escono all’improvviso da una lavorazione e ti confermano che hai fatto le scelte giuste. Sono tanti i popoli di Piazza Vittorio, come dicevamo, e di gioia ce n’è per la nuova avventura in un altro paese, ma ci sono pure difficoltà e disperazione.

[questionIcon] Che idea si è fatto dell’integrazione in Italia?

[answerIcon] Nel mio film si parla proprio di questo. Ci sono persone che riescono a integrarsi, altre che non ci riescono. Abbiamo incontrato rifugiati, immigrati in cerca di fortuna in una situazione molto complessa ma fatta di storie uniche. Non c’è un immigrato tipico da definire, può essere approdato a Lampedusa come può provenire dal Sud, dalla Calabria o da altri posti. Quello che m’interessa sono le storie personali di queste persone straniere in una città. Volevo trovare i contenuti personali del loro vissuto. Non esiste un tipico immigrato. Non esiste un tipico italo-americano, come non esiste un tipico caffè. Qui a Roma cambiano di gusto persino da un bar all’altro, pensa!

[questionIcon] Che idea hanno gli americani di Roma e come vorrebbe che cambiasse il loro sguardo dopo Piazza Vittorio?

[answerIcon] Non ci sono americani nel film oltre me e Willem. Non so cosa pensi la gente, americani o meno, prima, durante o dopo aver visto i miei film, e non faccio film per cambiare il punto di vista di nessuno. Che siano americani o no. Io uso gli strumenti che il cinema mette a disposizione per cercare di scoprire altre verità, anzitutto per me stesso.

[questionIcon] Infatti al film partecipano come abitanti del quartiere anche Willem Dafoe e Matteo Garrone. Nei suoi progetti futuri ci sono anche collaborazioni con loro?

[answerIcon] Si, con Willem Dafoe. Gireremo Siberia tra Alto Adige e Piemonte, con Vivo Film. Invece Tommaso, di cui Willem è protagonista, lo abbiamo già finito di girare. In realtà poi è pronto anche The Projectionist, la storia di un immigrato cipriota a New York che ha fatto gavetta come proiezionista nei cinema e poi ha fatto fortuna diventando uno dei più importanti esercenti della città. Eh sì, è un periodo pieno di cose!

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Grieco: “Quello che vi hanno raccontato su Pasolini è un film della Pixar” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/grieco-quello-che-vi-hanno-raccontato-su-pasolini-e-un-film-della-pixar/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/grieco-quello-che-vi-hanno-raccontato-su-pasolini-e-un-film-della-pixar/#respond Mon, 04 Apr 2016 07:31:19 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2949 Il regista de “La macchinazione” ci racconta il film che vuole fare finalmente luce sul delitto del grande intellettuale, compreso il coinvolgimento della P2. Per parlare de La macchinazione, il film di David Grieco dedicato agli ultimi mesi di vita di Pier Paolo Pasolini, è necessaria una premessa che vi racconteremo in forma di un aneddoto incentrato […]

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Il regista de “La macchinazione” ci racconta il film che vuole fare finalmente luce sul delitto del grande intellettuale, compreso il coinvolgimento della P2.

Per parlare de La macchinazione, il film di David Grieco dedicato agli ultimi mesi di vita di Pier Paolo Pasolini, è necessaria una premessa che vi racconteremo in forma di un aneddoto incentrato sul pressbook. Parliamo della cartella stampa con informazioni e note di regia fornita come sempre a cronisti e critici per prepararli alla visione del film. Ebbene, raramente capita di appassionarsi così tanto solo sfogliando quelle pagine, in cui il regista ha voluto inserire una cronistoria della vera e propria persecuzione mediatica e politica del grande intellettuale, con una ricostruzione dettagliata di tutte le tappe che hanno portato al suo assassinio e a quei fatidici mesi descritti nel film.

Questo per dire che La macchinazione, interpretato da un Massimo Ranieri incredibilmente somigliante, non è da valutare soltanto in base ai classici parametri di una recensione, poiché ciò che colpisce in esso è soprattutto la volontà di fare chiarezza su tanti aspetti cruciali di questo triste pezzo di Storia italiana. Prima di tutto sulla dinamica dell’omicidio, che le indagini dei decenni successivi hanno provato essere ben più di una semplice notte di sesso andata male. Fondamentale però è anche il collegamento dell’assassinio con Petrolio e con la velata denuncia rivolta tramite quelle pagine da Pasolini a Eugenio Cefis, un personaggio oscuro dell’industria italiana legato anche alla fondazione della P2. Ma la chiarezza riguarda anche la complessità del pensiero di questo grande personaggio, che in tempi non sospetti già prevedeva la progressiva perdita di senso e di “pietà” del nostro contemporaneo, così come mostra un grezzo ma molto ben piazzato flash-forward (o visione, che dir si voglia) di un futuro abitato da masse spersonalizzate, trasformate in una disumana sequela di numeri.

Come nasce l’esigenza di realizzare oggi un film su Pier Paolo Pasolini?

L’esigenza ce l’ho da 40 anni, solo che speravo lo facesse qualcun altro. Invece mi sono guardato intorno, ho visto che non c’era rimasto più nessuno e ho pensato: stai a vedere che tocca proprio a me? La molla però è stata la mancata collaborazione con Abel Ferrara. Dovevo scrivere il suo film ma non ci siamo trovati per niente. Ora dopo tutto quello che ho passato mi sento anche di ringraziarlo per avermi dato la spinta necessaria a cominciare il progetto.

La scelta è caduta subito su Massimo Ranieri?

Immediatamente. Ancora prima di cominciare a scrivere il film l’ho chiamato e gli ho detto: “Se tu lo fai, allora lo scrivo”. Non avevo alcuna intenzione di fare un casting per cercare Pasolini o di prendere un attore straniero. Lui mi ha risposto che lo voleva fare ma era intimorito, e dato che anch’io avevo paura gli ho suggerito che forse questo era il carburante migliore per imbarcarsi in un’opera così ambiziosa e folle.

Cosa manca di più all’Italia, oggi, di Pasolini?

Beh, Pasolini stesso. Intellettuali così non ce ne sono più nemmeno all’estero: in quegli anni ce n’erano in Francia e anche in Germania e noi avevamo Pier Paolo. Ma questo lo sanno benissimo anche i giovani che oggi leggono le sue opere e lo capiscono molto meglio di quanto lo capivamo noi all’epoca. Perfino io che ero suo amico lo consideravo un rompiscatole e perciò gli contestavo tutto, come fanno i figli con i padri. Dopo 40 anni quello che lui vedeva arrivare è arrivato, eccome, quindi non c’è neppure più bisogno di ulteriori spiegazioni.

Parliamo della ricostruzione del delitto: nel film tiri in ballo anche la Banda della Magliana, i servizi segreti, la stessa industria del cinema con una precisione che non lascia spazio al “non detto”.

Ho voluto chiamare le cose per nome. Non volevo fare un film “fighetto” perché Pasolini non me l’avrebbe perdonato e perché, in generale, non è nel mio impulso. Ho cercato di ricostruire ciò che Pasolini è stato, quello che gli hanno fatto e soprattutto perché gliel’hanno fatto, non tanto per la mia generazione ma per quelle più giovani. Perché bisogna ricominciare a parlare di lui.PPP

Nonostante tutte le prove emerse nel corso degli anni c’è ancora chi dice che “se l’è cercata”…

Sì, questo è stato il loro alibi. Era facile uccidere un omosessuale nell’Italia di allora e di oggi, e si sentivano così forti di questa copertura che hanno commesso una marea di errori. Personalmente amo la magistratura e la giustizia, ma 40 anni dopo abbiamo ancora una sentenza grottesca che è peggiore di tutte quelle che sono state emesse sulle varie stragi italiane. Perché in quella sentenza non c’è una parola vera. In quella su Moro o sulla strage di Bologna c’è almeno una parte di verità, qui invece proprio nulla. La Storia e la Giustizia italiana hanno scritto un film completamente diverso, un film della Pixar che non c’entra proprio nulla con quel che avvenne quella sera.

Quindi si è trattato indubbiamente di una macchinazione, come dice il titolo. Il che spinge a chiedersi quali fossero le ragioni che hanno portato a organizzarla.

Le ragioni sono evidenti. Se fossi stato un politico corrotto o un agente dei servizi segreti, che a tutto risponde tranne che al suo Stato, o un’eminenza grigia nell’ombra della realtà italiana, anche io lo avrei ucciso. Ma non avendo le sottigliezze di queste persone, l’avrei ammazzato in modo semplice, come potrebbero ammazzare me uscendo di casa. Invece hanno voluto costruirci intorno questa macchinazione. D’altra parte Pasolini scriveva sui giornali cose che nessuno nel mondo ha mai avuto il coraggio di scrivere sulle trame oscure che vedeva nel proprio Paese. Mino Pecorelli, giornalista di destra, e Mauro De Mauro, giornalista di sinistra, sono stati uccisi per molto meno.

Parlando sempre di Mattei, e quindi di Cefis, è raro che si parli del delitto Pasolini in connessione con la P2, come hai fatto invece tu.

È qualcosa che mi è stato evidente riprendendo in mano Petrolio e rileggendolo in vari modi. Tutti si sono chiesti cosa fosse esattamente questa opera: un romanzo, un saggio, nessuno di questi ecc. In realtà Petrolio è la scoperta della P2. Pasolini non gli sapeva dare un nome, così come all’inizio non sapevamo darglielo noi diversi anni dopo quando abbiamo scoperto che esisteva. Ma Petrolio, come diceva Pasolini, è semplicemente mettere in collegamento le cose fra loro e tirarne le somme, e quindi è la descrizione di una rete di potere tentacolare che altro non è se non la P2. Persone più preparate di me hanno scritto di Petrolio, ma questa cosa, che a me pare di un’evidenza assoluta, è sfuggita a tutti.

In collaborazione con Radio Kaos

 

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Tatiana Luter: Sul set non recito mai https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/tatiana-luter-sul-set-non-recito-mai/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/tatiana-luter-sul-set-non-recito-mai/#respond Tue, 12 May 2015 09:54:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1409 È giovanissima, ma ha già lavorato con Abel Ferrara e condiviso il set con Claudia Cardinale. Tatiana, artista versatile e decisa, racconta ricordi, progetti e aspirazioni. Sorriso contagioso, grinta da vendere e tanta voglia di mettersi alla prova. Tatiana non ha mai avuto dubbi su ciò che desiderava fare nella vita: «Il cinema mi appassiona […]

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È giovanissima, ma ha già lavorato con Abel Ferrara e condiviso il set con Claudia Cardinale. Tatiana, artista versatile e decisa, racconta ricordi, progetti e aspirazioni.

Sorriso contagioso, grinta da vendere e tanta voglia di mettersi alla prova. Tatiana non ha mai avuto dubbi su ciò che desiderava fare nella vita: «Il cinema mi appassiona da sempre. Sin da quando, da bambina, passavo l’estate a Dallas da mio padre e andavo al cinema almeno due volte a settimana. Non sono mai stata una spettatrice passiva, anzi! Guardando tanti film, mi ritrovavo spesso a pensare che mi sarebbe piaciuto recitare in questo o quel ruolo, immaginavo come lo avrei interpretato… Sono cresciuta ammirando la Meryl Streep di Kramer contro Kramer e poi, studiando la storia del cinema al Centro Sperimentale, ho imparato ad amare le grandi del cinema italiano, da Anna Magnani a Claudia Cardinale, con la quale ho avuto l’onore di lavorare di recente in Rudy Valentino di Nico Cirasola. È un film molto particolare, che rifugge dalla classificazione di genere. Natacha Rambova, la moglie di Valentino, è probabilmente il personaggio più intrigante che ho finora interpretato».

Tatiana ha mosso i primi passi sul set nel cinema di genere, prendendo parte a ben quattro horror-thriller: «Sarebbe bello se la distribuzione italiana concedesse più spazio a lungometraggi d’autore e di genere. Altrimenti non si offre la possibilità al pubblico di apprezzare un certo tipo di cinema che, personalmente, amo molto. Il mio primo film è stato New Order, coprodotto e interpretato da Franco Nero. Poi ho interpretato una scienziata in Azzurrina. Nel 2014 sono stata un’insegnante perseguitata da oscure presenze in Surrounded. L’ultimo è stato In the Car, opera prima di Giuseppe Fulcheri, che è piaciuto anche a Matteo Garrone. Grazie a questo film ho avuto l’opportunità di lavorare accanto alla splendida Monica Scattini. Era la migliore amica del regista e ha dato una grossa mano sul set e a noi attori. In un certo senso mi ha cambiato la vita, a livello artistico e umano. Mi ha aiutata a comprendere i miei limiti e dato moltissimo su cui riflettere. E credo sia fondamentale, per un attore, analizzare se stesso, per poter costantemente migliorare».

La ragazza vanta nel suo curriculum già due pezzi da novanta: Abel Ferrara – è apparsa in Pasolini – e Paolo Sorrentino – ha un ruolo nella sua attesissima nuova pellicola, La giovinezza. «Abel è un genio, la mia esperienza sul suo set è stata fugace ma indimenticabile. Ha un modo molto colorito, vivace e diretto di rapportarsi con gli attori e mi ha insegnato tanto. Sul film di Paolo Sorrentino non posso rivelare nulla, se non che, nella scena in cui recito, sono l’unica attrice italiana. Si tratta di una sequenza onirica, in cui vesto i panni di una soldatessa, con Harvey Keitel e Jane Fonda. La loro professionalità è indescrivibile, averli accanto mi ha fatto venire la pelle d’oca!».

Una professionalità che Tatiana persegue costantentemente nel proprio lavoro, affidandosi ai metodi appresi nel corso degli studi, ma non rinuncia mai a mettere qualcosa di sé nei personaggi che porta sullo schermo: «Lavoro molto sulla creatività e sull’immedesimazione e mi piace sperimentare tecniche create da me. Sul set perdo completamente la cognizione del tempo. Forse suonerà strano quello che sto per dire, ma cerco di non recitare mai! Credo tantissimo in ciò che faccio e vivo fino in fondo ogni situazione, come se uscissi dal mio corpo per calarmi totalmente nel personaggio che interpreto. Mi affido alla sceneggiatura e all’istinto quando mi viene proposto un progetto. Mi attirano i ruoli che sono lontani da me, e sono tantissimi quelli che mi piacerebbe interpretare, difficilmente direi di no a priori. Di recente ho amato molto ad esempio Colpa delle stelle, avrei voluto impersonare la protagonista. Sarebbe bello prendere parte a un progetto simile. Ma lavorerei volentieri anche in televisione».

Un bilancio della sua esperienza di attrice in ascesa in un momento in cui il mondo dello spettacolo appare ancora chiuso ai talenti ansiosi di emergere? «Fortunatamente ho lavorato molto, tra partecipazioni e film in cui ho un ruolo più consistente (un attore professionista, di cui non farò il nome, mi ha raccontato che non si usa, nel mondo del cinema, definirsi ‘protagonista’)! Tuttavia, è innegabile che sia faticoso ritagliarsi uno spazio nel panorama cinematografico attuale, in primis per i ruoli femminili. Lavorare bene, seriamente e duramente, è fondamentale per lasciare di sé una buona impressione ai registi con cui si lavora, ma credo che si dovrebbero offrire maggiori opportunità ai giovani talenti per farsi conoscere, soprattutto attraverso i casting».

A proposito di futuro prossimo, Tatiana è in procinto di debuttare a teatro: «Non smetto mai di cercare nuove sfide e a teatro non mi sono ancora mai messa veramente alla prova. Tra qualche mese, a Roma, dovrebbe decollare una sceneggiatura scritta per me e un’ex compagna del Centro Sperimentale, ma è ancora in fase embrionale. Non vedo l’ora di cominciare».

Foto Azzurra Primavera

Abito: Gianluca Saitto

Hairstylist Adriano Cocciarelli@HARUMI

Assistente hairstylist Giada Udovisi@HARUMI Edoardo Luisini@HARUMI

Make up Debora Monti@SIMONE BELLI MAKEUP ACADEMY

 

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Abel Ferrara, Pasolini e il dobermann https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/abel-ferrara-pasolini-e-il-dobermann/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/abel-ferrara-pasolini-e-il-dobermann/#respond Thu, 25 Sep 2014 17:37:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=944 Cerchiamo di mantenere la calma. Siamo col fiato sospeso, immobili, sotto al tendone di Café Fabrique, in attesa che si plachi l’uragano. È una tempesta metaforica, s’intende. Perché il sole brilla alto, l’Isola Tiberina è un’oasi rovente e il Tevere fa quel che può per rinfrescare una giornata torrida e afosa. Abel Ferrara ci ha […]

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Cerchiamo di mantenere la calma. Siamo col fiato sospeso, immobili, sotto al tendone di Café Fabrique, in attesa che si plachi l’uragano. È una tempesta metaforica, s’intende.

Perché il sole brilla alto, l’Isola Tiberina è un’oasi rovente e il Tevere fa quel che può per rinfrescare una giornata torrida e afosa.

Abel Ferrara ci ha raggiunto da qualche minuto, ma pare non vederci. È inquieto, nervoso, non si lascia avvicinare. Ringhia un saluto, s’arrabbia, ispeziona il posto, prende alcune decisioni. Poi le cambia. Si siede e schianta via una borsa, spazza le bottiglie dal tavolino, rifiutando ferocemente qualsiasi contatto. Le fotografie non adesso, nemmeno dopo, forse mai: «Non sono un modello del cazzo». L’intervista forse, dipende, chissà. Vola una parola, bitch, lanciata contro qualsiasi persona a caso nel gruppo che lo circonda: noi, l’assistente personale, l’ufficio stampa. Impossibile individuare con chi ce l’abbia.

L’unica cosa da fare è aspettare. Oppure sforzarsi di intuire.

Ferrara pare un mastino. Uno di quelli lasciati a guardia delle ville, implacabile nella sua missione: difendere il territorio, proteggere il padrone. E in questo momento, evidentemente, sta custodendo qualcosa di molto caro: il suo film. Pasolini, in concorso a Venezia, è un progetto per cui ha speso ogni energia. Ha intervistato e conquistato amici e parenti, guardato tutti i film e letto qualsiasi cosa Pier Paolo Pasolini abbia prodotto, fino ad arrivare a un livello di profondità estremo. In questi giorni ne sta finendo il montaggio. Ed è facile immaginare che tutto vorrebbe tranne che essere qui, davanti a noi, per parlarne.

Dunque mi siedo di fronte a lui esattamente come se mi stessi avvicinando a un dobermann. Gli porgo la rivista. La scruta. Spiego: «È per i ragazzi che oggi vogliono fare cinema in Italia». Sfoglia il giornale. «Quindi finisco qua dentro». Silenzio. «Ok».

Mezz’ora dopo l’intervista finirà con un abbraccio e una consapevolezza: Ferrara stava proteggendo davvero qualcosa di prezioso.

Partiamo dal suo film. Pasolini. Perché?

Quello che mi fa muovere, da sempre, è il desiderio di esprimermi. Faccio film per seguire una visione. Pasolini mi interessava come giornalista, poeta, scrittore, artista, rivoluzionario. Era una personalità complessa. Ho cercato di studiarla a fondo e francamente non smetterei mai.

Il film però racconta solo una giornata nella vita di questa personalità. L’ultima.

Su Pasolini si potrebbe fare un milione di film. Io ho scelto di concentrarmi su un solo giorno e me ne fotto di chi vivrà questo film come se fosse un’indagine. È un film e non me ne frega niente di chi ha ammazzato Pasolini e come. Io mi occupo della tragedia, di quello che abbiamo perduto quando è morto.

In Italia il ricordo di Pasolini è ancora molto vivo.

Cazzate. Non è vero. Tutti qui dicono che lo conoscono, la gente si riempie la bocca di sue citazioni. Ma in realtà ho l’impressione che il suo valore sia riconosciuto molto di più fuori dall’Italia.

In ogni caso gli italiani guarderanno il suo film “americano” con sospetto. Se le aspetta le critiche?

Non me ne frega nulla, non mi pongo il problema. Le aspettative che mi interessano, e che non voglio tradire, sono le mie. Per il resto a me basta avere un cinema, con un tetto sulla testa, nel quale mostrare il mio film a un pubblico. Trovo presuntuoso avere qualsiasi genere di aspettativa.

Nel ruolo di Pasolini non ha scelto un attore italiano, ma Willem Dafoe. Perché?

Prima di tutto perché io sono americano e non parlo l’italiano. E poi per me Pasolini non è italiano. Mi spiego: sto facendo un film su un uomo che è essenzialmente un poeta. Anche quando fa le interviste lui è un poeta, non un giornalista. E non puoi fare un film sulla poesia senza trovare una lingua tua, intima e personale, per raccontarla. Pasolini era un tesoro universale, il suo lavoro è globale. Di più: intergalattico. Per rappresentarlo avevo bisogno di avere con me l’attore con cui ho la maggiore affinità. E ho fatto bene: Willem nel film è perfetto.

Come ha scelto le musiche?

La musica sarà eccezionale, credo. Sarà ottima anche perché abbiamo deciso di non suonarla noi, né io né Willem.

Il processo creativo per lei è doloroso?

Tutto diventa faticoso quando hai a che fare con le emozioni. È uno sviluppo doloroso e complesso. Un po’ come andare contro corrente, come cercare di risalire un fiume al contrario. Ostinatamente.

E come si sente ora che sta finendo?

L’ultimo giorno di riprese è in assoluto il giorno più felice. Ma dura pochissimo. Sei esaltato per 24 ore e poi di nuovo devi ricominciare da capo, al montaggio. L’euforia resiste due giorni, poi monti, finisci il film, lo fai vedere al pubblico e ancora per qualche momento sei felice. Poi torni invisibile per i successivi sei mesi.

Finisce il film: a chi lo fa vedere per primo?

Non ho una sola persona di fiducia: ho il mio gruppo. C’è il mio assistente, Jacopo, il montatore, il fotografo, lo sceneggiatore, che ha lavorato sia su Pasolini che su Napoli Napoli Napoli. Ho un gruppo che mi dà il feedback, lo stesso da Go Go Tales in poi. Lavoro sempre con lo stesso team, anche in Italia. È fondamentale avere le persone giuste intorno quando fai un film. E poi, insomma, io non mi faccio mica un cazzo di selfie davanti alla telecamera: io faccio film.

Se è per questo ha fatto anche tv. La rifarebbe?

Che ho fatto, Miami Vice? E ti pare bello? Forse sembrava bello ai ragazzini di nove anni incollati alla tv. Quando giro una cosa non me ne frega niente se è per il cinema o per la tv, il processo è uguale: la telecamera, gli attori, le storie. E per quanto riguarda il tempo, cioè la possibilità di raccontare una storia più lunga e dilatata… Welcome to New York, il mio ultimo film, durava due ore. Troppo lungo. Spero di tenere Pasolini sui 90 minuti.

Da anni vive e lavora in Italia. La sente, la decadenza del paese?

Quale decadenza? Economica? Culturale? Politica? Io amo questo paese e negli ultimi cinque anni l’Italia è diventata la mia casa. Io non avverto la decadenza. Piuttosto sento un certo dinamismo. M’impegno a portare la mia energia in ogni cosa che faccio in questo paese. E poi il film business è un disastro quasi dappertutto, non solo qui. Siamo nel pieno della rivoluzione digitale, sta cambiando tutto: come la gente gira i film, come li vede e come li vende. Ma quando il gioco si fa duro, si dice dalle mie parti, i duri iniziano a giocare.

Sì, ma la crisi c’è. Ed è durissima.

Crisi o non crisi, oggi se vuoi fare un film non hai più scuse. Hai il cellulare, il tuo cazzo di computer, nessuno può fermarti. Se ti dicono “c’è la crisi mondiale” non li devi ascoltare, anzi non la devi usare nemmeno quella parola, “crisi”. La crisi è una parola inventata da Wall Street per fottere le persone. Non saprei nemmeno come tradurla, quella parola, in italiano. Esiste?

Esiste. Provi a immaginarsi adesso, in Italia, a 20 anni: direbbe ancora così?

Certo. Sarei identico a come sono oggi, visto che mi sento un 18enne, forse un 19enne. Farei le stesse cose, cercherei le stesse storie, lavorerei con gli stessi attori, avrei le stesse difficoltà a trovare i finanziamenti. E non ascolterei le cazzate sulla crisi, non sentirei scuse…

Allora le va di dare un consiglio a chi oggi vuole fare cinema in Italia?

Farlo. Perché finché non lo fai, il regista, non hai idea di cosa si tratti. Non lasciarsi scoraggiare, andare avanti, non permettere alla gente di mettere un muro tra ciò che vuoi fare e la tua voglia di farlo. Vai avanti, cazzo: hai una visione, una storia, un sentimento, un bisogno di comunicare? E allora inseguilo. Prendi il telefonino e inseguilo. Vincent van Gogh ha venduto un solo fottuto dipinto in vita sua e non si è scoraggiato. E allora? Ringraziate Dio che avete un telefono e YouTube, che non vivete in un paese sotto dittatura, che siete a Roma, in un paese libero la cui arte è ammirata dalle persone in tutto il mondo. E il cinema è la forma d’arte più preziosa che esista.

foto: Francesca Fago

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