Un’inquadratura che si allarga, cercando la messa a fuoco sul terreno e sul riflesso di una pozzanghera. Così inizia Zero (trailer), la nuova serie italiana originale Netflix, coprodotta da Fabula Pictures (che aveva già collaborato con Netflix con Baby) e Red Joint Film (Zero rappresenta il primo progetto di questa giovane società di produzione, nata a Milano nel 2018) e liberamente ispirata al romanzo, edito da Mondadori, Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano, una delle stelle nascenti nel contemporaneo panorama editoriale italiano. La ruvidezza dell’asfalto e della lente della macchina da presa, che cerca una precaria stabilità, esprime fin da subito come la serie voglia agganciarsi alla realtà con uno sguardo rivolto verso i margini. Il movimento d’apertura mostra, in modo chiaro e conciso, cosa Zero vuole essere e donare ai propri spettatori, allontanandosi da un primo misunderstanding che la tagline di presentazione – “Essere invisibile è il vero potere” – potrebbe creare nel suo ipotetico pubblico. Ma facciamo un passo indietro.
Zero nasce dalla mente di Menotti (qui in veste di showrunner), che s’ispira al romanzo di Distefano, portandolo però nel suo mondo: quello dei fumetti e dei supereroi periferici italiani (come nel celebre Lo chiamavano Jeeg Robot, del quale ha curato la sceneggiatura). L’idea di parlare di un supereroe nero e al contempo di una persona comune alletta subito la mente di Distefano, che quindi accoglie il progetto, non solo come autore del romanzo di partenza (di cui la serie, però, mantiene solo il mood dei personaggi), entrando a far parte attivamente anche del gruppo di sceneggiatura. Il motivo di questa enfasi, però, come ha sottolineato il giovane autore alla conferenza stampa di presentazione dei primi quattro episodi, non è legato tanto al concetto della diversity, ma a quello della normalizzazione di qualcosa che è già nel quotidiano, anche se si fa ancora fatica a percepirlo come tale.
In questo tentativo di normalizzazione si sceglie allora come protagonista un rider. Se, in un primo momento, questa scelta, visto che la serie è ambientata a Milano, può richiamare alla mente l’attuale situazione pandemica, subito sia Distefano che i quattro registi (Paola Randi, Mohamed Hossameldin, Margherita Ferri e Ivan Silvestrini) specificano un intento differente. Il rider rappresenta, nella realtà di tutti i giorni, il cliché dell’invisibilità: di coloro che, senza nome, sono identificati semplicemente come “quelli della pizza”. Su questo concetto verte tutto il primo episodio, che vedrà il protagonista, Omar (Giuseppe Dave Seke), presentarsi agli spettatori solo a metà puntata, quando incontra Anna (Beatrice Grannò), una ragazza che a un primo sguardo può sembrare totalmente diversa da lui, ma con il quale condivide, invece, questo dramma giovanile dell’invisibilità.
L’invisibilità, che nella serie da stigma vuole diventare un potere (ispirandosi, ha detto Distefano, a Ferro tre, in cui il protagonista ha la capacità di diventare invisibile quando si emoziona), si trasforma quindi in una metafora più ampia. Non solo simbolo di un lavoro, quello dei rider, ma anche simbolo di una generazione, qui rappresentata con una doppia valenza. Intanto, si parla di una seconda generazione a cui appartengono lo stesso Distefano, ma anche quasi tutto il cast d’attori (a Seke vanno aggiunti Haroun Fall, Daniela Scattolin, Virginia Diop, Richard Dylan Magon e Madior Fall): ragazzi italiani, che però vengono ancora identificati come “quelli nuovi” («A ventott’anni, tutto mi sento eccetto che ancora “nuovo”», afferma il giovane scrittore alla conferenza stampa). Così, questa generazione diventa invisibile, perché considerata non abbastanza italiana, sebbene ne condivida mentalità e gusti culturali, né abbastanza straniera dalla propria famiglia d’appartenenza. Rispetto a quest’ultimo punto, già nelle prime linee di dialogo del primo episodio il protagonista sottolinea come l’incomunicabilità che ha con il padre non sia solo una questione di lingua. Qui, si apre allora allo spettatore la seconda valenza del termine “generazionale”.
L’invisibilità infatti non è quella solo della seconda generazione, ma in generale di tutti i ragazzi troppo timidi per avere il coraggio di affermare fortemente e ad alta voce le proprie scelte e i propri pensieri. L’invisibilità diventa quindi un segno di riconoscimento per una fascia di pubblico ancora più vasta, che si cerca di agganciare anche tramite una regia energica che stimola lo spettatore (rimediando a dialoghi spesso troppo didascalici, che funzionano meglio su carta che su schermo). Si ha dunque un piano d’ascolto emotivo particolarmente forte che, tornando alla figura del rider, trova un’ampia risonanza nella rappresentazione della città e, nello specifico, nella periferia (Zero è ambientata nel Barrio, quartiere periferico di Milano). Un ambiente anche questo, popolato dai giovani, spesso invisibile e che la nuova cultura musicale ha pian piano iniziato a far emergere.
Ruolo centrale nella serie, che vuole trattare una “storia di strada”, è quello assunto dalla colonna sonora, che si scandisce tra le musiche ideate appositamente da Yakamoto Kotzuga (già autore della colonna sonora di Baby), ai brani di Mahmood (che per la serie ha composto anche un inedito e che ha ricoperto il ruolo di music supervisor dell’ultimo episodio), fino ad arrivare a quello scenario che si muove tra R&B, urban, rap e trap.
Insomma, Zero (le cui prime quattro puntate su otto escono oggi su Netflix) è una serie che, nel raccontare la storia di un ragazzo timido con lo strano superpotere di diventare invisibile ogni qualvolta provi una forte emozione, cerca di allargare il panorama audiovisivo nostrano, per i protagonisti che sceglie, la regia e il genere che si apre al fantasy, seppur lasciandolo ancorato, tramite il racconto di formazione, a una realtà totalmente italiana e quotidiana.