Lo scorso aprile, in un altrimenti anonimo martedì post-pasquale, i media di tutto il mondo salutano un avvenimento atteso da mesi: la tv via cavo americana HBO lancia ufficialmente la propria versione online, sempre a pagamento, ma aperta a tutti i possessori di dispositivi iOS e non solo agli spettatori già abbonati al suo pacchetto di pay-tv.
La destinazione si chiama HBO Now e non è sola nell’universo della rete: altre emittenti americane nel frattempo sono sbarcate sul web con un’offerta cosiddetta standalone, cioè autonoma rispetto a quella veicolata attraverso i canali tradizionali di distribuzione dei programmi tv quali cavo, etere e satellite. Tra queste il potente broadcaster CBS e Sling TV, costola della satellitare Dish, che tra l’altro include contenuti di altri canali proponendosi perciò come aggregatore di programmi tv con costi diversi e offerte diverse ritagliate sulle esigenze dei nuovi utenti della tv online. Quelli che negli USA hanno da tempo battezzato cord cutters e che stanno tagliando il “cordone ombelicale” della cable tv per rivolgersi a nuovi operatori, detti over the top (OTT), capaci di trasmettere direttamente su internet e bypassare con lo streaming i vecchi modelli di business e di comunicazione, abbattendo di conseguenza anche i prezzi proposti al pubblico.
Morale della favola? Dopo un braccio di ferro andato avanti per anni con HBO, i fan di Game of Thrones che non intendevano acquistare l’abbonamento alla pay-tv solo per vedere la loro serie preferita, alla fine hanno vinto e si sono potuti godere legalmente in streaming l’inizio della quinta stagione. Può sembrare assurdo a un pubblico come il nostro, abituato in larga parte ad aspettare i nuovi episodi rigorosamente in versione pirata il giorno dopo la messa in onda dall’altra parte dell’Atlantico, ma nel 2012 gli spettatori USA lanciarono addirittura una petizione sul web, Take My Money, HBO!, per convincere il canale a sganciare la sua app per la tv everywhere dal costoso pacchetto via cavo, permettendo così agli internauti di pagare per vedere con tranquillità la loro serie anziché rivolgersi all’offerta illegale. Il paradosso è che fino allo scorso aprile ciò non è avvenuto, lasciando che il serial balzasse ogni volta in cima alla classifica degli show più piratati sul web.
A convincere HBO a fare il salto verso internet non sono stati perciò i tanto vituperati “scariconi”, che a quanto pare non hanno mai inciso tanto sugli introiti del network da spingerlo ad abbandonare le rendite assicurate dal vecchio modello distributivo: a determinare il cambiamento è stato invece l’incalzare dello streaming legale offerto proprio dagli OTT, i cui nomi sono ormai noti a livello mondiale. Si tratta dei famosi servizi di video on demand come Netflix, che con meno di 10 dollari al mese permettono di accedere a un catalogo con migliaia di titoli tra film e serie tv, tra cui spiccano anche titoli autoprodotti e presenti in esclusiva sulla piattaforma, come il celeberrimo House of Cards. Ma ci sono molti altri servizi di video on demand ad abbonamento (SVOD), come Amazon Prime, che dopo aver contribuito a “smaterializzare” l’home entertainment, restringendo in modo significativo il già sofferente mercato di DVD e Blu-ray, oggi stanno contribuendo a definire anche un nuovo modello di fruizione del prodotto audiovisivo all’interno delle mura domestiche, costringendo all’evoluzione perfino i sonnacchiosi “dinosauri” televisivi.
La nuova tv
Nonostante il trambusto creato dalla rete, pare proprio che la regina del salotto continui a mantenere la corona. Certo, Netflix, Amazon Prime o Hulu sono tutti portali accessibili anche da PC, tablet e smartphone, eppure la tendenza volge al protagonismo dello schermo televisivo, per quanto sempre più connesso e trasformato nel suo utilizzo. Si stima che negli Stati Uniti ci siano 22 milioni di smart tv, quelle dotate cioè di collegamento integrato a Internet più altre funzioni di nuova generazione come comandi vocali, integrazione coi social network, applicazioni e possibilità di essere usate in modo combinato con le altre apparecchiature smart dell’ecosistema domestico. All’ultimo Consumer Electronics Show di Las Vegas, punto di riferimento mondiale dell’elettronica di largo consumo, ha fatto addirittura il proprio debutto il bollino “Netflix Recommended TV”, per contrassegnare le smart tv che offrono la migliore esperienza di visione connessa. Ma non finisce qui, perché molti sono gli spettatori meno aggiornati dal punto di vista tecnologico che non rinunciano a collegare il televisore tramite apposite chiavette o set-top box. Questi player multimediali, che si inseriscono alla presa HDMI del piccolo schermo e vi trasmettono i contenuti via streaming, sono diffusi nel 24% delle case statunitensi e fanno capo ai principali marchi del web. Apple TV e Roku sono stati i pionieri di un settore dove, in poco più di un anno, la lista dei concorrenti si è arricchita di nomi quali Google Chromecast, Amazon Fire TV e Fire TV Stick, Microsoft Wireless Display Adapter e l’Android TV, che sta scaldando i motori con Nexus Player.
Il dispositivo più popolare per connettere il piccolo schermo in rete, tuttavia, per ora restano le console per videogame. Forti di una diffusione che precede quella del video on demand, i device come Playstation e Xbox stanno assumendo un ruolo fondamentale nella corsa al nuovo modello di tv. Non a caso, tra i nomi che si sentono ripetere più spesso accanto a quello di HBO Now c’è Playstation Vue, servizio di video on demand lanciato da Sony e costruito esattamente sulla falsariga di un vecchio abbonamento televisivo. La sua offerta, rivolta ovviamente ai soli possessori della console, comprende un’ampia varietà di canali al prezzo di 49,99 dollari al mese, contro i 64 dollari necessari per un pacchetto via cavo standard. Un nuovo modello di streaming legale, insomma, basato su costi più alti rispetto a quelli finora praticati dallo SVOD ma con contenuti di tipo “premium” e un’organizzazione per canali molto simile a quella di un’emittente tradizionale.
Questo sarà a grandi linee anche il volto della nuova televisione. Un dispositivo che, almeno per un po’, manterrà la stessa posizione all’interno del nucleo domestico e nella gerarchia mediatica, ma in cui la visione dei programmi avverrà on demand, la competizione tra canali non verterà più sulle frequenze bensì sulla visibilità delle diverse app nei menu principali e la partita si giocherà non più su fasce di pubblico, bensì sul singolo spettatore. Una televisione in cui la user experience conterà quasi quanto il prezzo, portando in primo piano variabili come la facilità di navigazione, la qualità dello streaming, la raffinatezza degli algoritmi che generano i suggerimenti, la possibilità di personalizzare il servizio e l’integrazione con il mobile.
Per quanto legata al salotto e al fisso, la spinta verso la nuova tv si nutre infatti di un modello di consumo audiovisivo che, grazie al proliferare di smartphone e tablet, ormai risulta definitivamente improntato al principio dell’ATAWAD (anytime, anywhere, any device). Il nuovo spettatore potrebbe, ad esempio, cominciare a vedere un film la sera e riprenderlo dal punto in cui l’ha lasciato la mattina dopo, col suo tablet, mentre va a lavoro e viceversa. La formula è semplice: meno ostacoli verranno messi all’esperienza offerta all’utente, più aumenteranno le chance di consumo e quindi il successo delle piattaforme. Ciò include anche la questione delle finestre, vale a dire il lasso di tempo che deve trascorrere tra la distribuzione sui diversi canali di sfruttamento del prodotto film. Una scansione cronologica prima molto rigida, che ha cominciato a perdere terreno già sotto gli strali del noleggio e dell’acquisto di film online piuttosto che su DVD e Blu-ray, e ora più che mai destinata a decisive revisioni. Soprattutto per quelle fasce di prodotto d’autore e di nicchia per cui la distribuzione sul web costituisce una valida alternativa da affiancare a quella in sala.
La domanda a questo punto è, che succederà in Italia, dove la banda larga è in netto ritardo rispetto agli altri paesi europei, e dove i termini EST e VOD (rispettivamente acronimi di electronic sell-trough e video on demand) cominciano solo adesso a ricordare al pubblico il mercato dell’audiovisivo piuttosto che il nome di un vino o di un superalcolico?
(1- continua)