Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molesto, Il verificatore, L’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, sporca, anti-cartolinesca. La trasfigurazione della città diventerà una cifra stilistica del regista napoletano, il campione del cinema animato contemporaneo che l’Italia può vantare, dopo il folgorante primo film, premiato agli EFA nel 2014, e poi La gatta cenerentola, presentato a Venezia nel 2017 e vincitore di due David, e infine l’ultimo, proiettato in piazza Grande a Locarno, Yaya e Lennie -The Walking Liberty, dove Napoli pure c’è, ma sepolta dalla giungla, affiorante qua e là più come monito che come reperto.
A piazza del Gesù il clima è più clemente quando raggiungiamo Alessandro Rak e il produttore Carlo Stella, con cui chiacchieriamo su dei divani comodissimi, ma sotto l’inquietante sguardo di un cuscino con le fattezze di Darth Vader.
Prima ancora di parlare di Yaya e Lennie, vi chiederei di svelare l’iter produttivo di un cinema di animazione. Quali differenze ci sono con il cinema live action?
A.R.: Per quanto riguarda la preparazione, secondo me non c’è un grande scarto. Direi che esistono delle libertà diverse nell’immaginare. Intendo che, ovviamente, ci si fa un’idea del budget al quale si va incontro quando si pensa la storia, ma in animazione alcune cose sono meno costose di quanto sarebbero per il cinema reale, per esempio gli effetti speciali; risultano invece estremamente faticose delle cose che nel cinema reale vengono quasi spontanee con la macchina da presa. Mi spiego meglio: se parliamo dell’animazione di un personaggio, nel caso del cinema di animazione si tratta di ricostruire fotogramma per fotogramma ogni comportamento muscolare, espressivo, o addirittura le pieghe del vestito che si muovono insieme alle articolazioni del corpo, una cosa complessissima da fare. Invece nella ripresa live ci pensa l’attore, e la macchina da presa in tempo reale riprende quello che c’è da riprendere. Quanto più si vuole rendere realistico un movimento o un sentimento, tanto più diventa difficile l’animazione. Invece fare effetti speciali, anche far precipitare un meteorite, per noi è di una banalità incredibile a fronte di quello che verrebbe a costare nel cinema live. Infine, l’animazione ha la possibilità di percorrere e ripercorrere di continuo la lavorazione di un momento del film: non è legata a un ciak, ma è un lavoro di miglioramento continuativo che poi a un certo punto va necessariamente arrestato perché da un punto di vista produttivo sarebbe una follia e io e Carlo Stella non andremmo più d’accordo.
Venendo ora a Yaya e Lennie, come è nata questa idea?
A.R.: In realtà stavamo lavorando a un altro progetto, poi però è uscito un film Disney che aveva troppi punti di contatto con quello che stavamo facendo, si sarebbe potuto forse pensare a un plagio, e invece era un progetto ispirato a una graphic novel a cui avevo lavorato una quindicina di anni fa. Abbiamo deciso di spostarci completamente, abbiamo buttato giù dal nulla un soggetto nuovo proposto dalla produzione, e da lì in tempo brevissimo abbiamo sviluppato una sceneggiatura che ci ha permesso almeno di attivare la fase di pre-produzione del film. Lo spunto originario era Uomini e topi di Steinbeck, poi elaborato dagli altri soggettisti che sono Marino Guarnieri, Dario Sansone e Francesco Filippini, per fare in modo che fosse qualcosa di diverso, che passasse dalla Grande Depressione americana, come nel romanzo, a uno scenario di crisi più estesa, globale, un’apocalisse, con personaggi che invece di essere in difficoltà a trovare un loro posto nel mondo sono giovani ancora più in difficoltà nel trovare la loro collocazione esistenziale.
I due protagonisti non sono degli eroi, hanno delle fragilità, uno di loro due è raccontato come portatore di un ritardo…
A.R.: Sono antieroi perché sono fragili, e funzionano bene perché hanno due diversi “tempi del vivere”: uno dei due ha un ritardo mentale, ma invece secondo me quello di Lennie è un tempo di vivere diverso, che per certi versi è anche più saggio, più godurioso della vita, quello di Yaya invece è più frenetico, più veloce, più ansioso nella ricerca di qualcosa, ma anche più preoccupato. Questi due personaggi, appena sono venuti fuori, ci sono piaciuti per questo scarto che ci aiutava a generare un conflitto, comunque fraterno, ma che è un filo conduttore in tutta la storia.
Tu hai citato Uomini e topi, ma a un tratto si intravede la copertina di Walden di Thoreau. È stato anche quello una fonte?
A.R.: Sì. Il mito del buon selvaggio e tutte le speculazioni di fine Ottocento e inizio Novecento sulla reinterpretazione della società e la messa in discussione delle basi della civiltà sono stati elementi di discussione e di ragionamento con gli sceneggiatori.
Una provocazione: un film come questo potrebbe far nascere il dubbio che uno sconvolgimento apocalittico del genere, più che fare paura, quasi sembrerebbe auspicabile.
A.R.: Durante la pandemia, una cosa che abbiamo tutti accolto con ammirazione sono state le immagini della natura che si riprendeva i propri spazi, la vegetazione che si faceva rigogliosa, il mare che si ripuliva, fiumi e laghi di nuovo cristallini… Questa condizione fa ingolosire, però noi siamo l’uomo, la nostra presenza la dobbiamo necessariamente manifestare non restando chiusi nei nostri appartamenti, quindi le soluzioni per cui possiamo combattere dovrebbero essere diverse da una sorta di auto-annichilimento.
Dalla vegetazione affiorano opere d’arte del passato, San Matteo e l’angelo di Caravaggio, la volta della cappella di San Gennaro…
A.R.: C’era un’idea di Napoli sotto forma di reperto, il territorio sepolto da questa giungla doveva essere la città di Napoli per come la conosciamo, o anche in una sua prospettiva più avanzata, e quindi per gli amanti della città poteva essere bello veder riemergere alcune testimonianze. Questo lo abbiamo ricercato anche dal punto di vista del sonoro, con gli accenti dei personaggi, o con qualche brano musicale che affiora dal passato.
Il film non è manicheo nel raccontare gli abitanti dei villaggi come i buoni e l’Istituzione come il cattivo assoluto. Nella scena del ricovero di Lennie sembra che si voglia creare un dialogo tra le due realtà.
A.R.: Il personaggio di André è il centro di questa contraddittorietà. L’idea non era quella di costruire buoni o cattivi, ma di costruire delle parti, che poi con l’andamento del film scoprivano i loro difetti. La differenza sostanziale tra i personaggi è che ce ne sono alcuni che hanno ben chiaro come devono andare le cose, mentre altri, come i protagonisti, questa idea non ce l’hanno, hanno curiosità o paura, ma non stabiliscono come gli altri debbano vivere.
Ci raccontate la fase del doppiaggio?
A.R.: Noi in realtà non facciamo il doppiaggio, è più corretto dire che costruiamo delle voci guida. È praticamente l’opposto. La costruzione del nostro film prevede il lavoro con l’attore che poi diventa uno stimolo e una guida e una ispirazione per tutto il processo dell’animazione. Noi ricostruiamo il labiale e tutti i comportamenti fisici e somatici partendo da una voce che sentiamo in cuffia, che è una voce, appunto, ed è stata incisa da un attore che ha lavorato al buio, senza vedere niente se non qualche immagine di storyboard, o qualche schizzo preparatorio. Un attore che a sua volta segue la voce guida del direttore del doppiaggio che gli dà le indicazioni di com’è la situazione, del suo assetto fisico, di dove si trovano gli altri personaggi sulla scena, di qual è il tempo della scena, se è affrettato oppure se è molto lento, e in base a tutto questo l’attore regola la sua voce, di fatto parlando con dei fantasmi. Da questo, poi, si arriva a un lavoro di taglia e cuci che è il nostro montaggio del sonoro, che si aggiunge al videoboard realizzato nel frattempo, e così si arriva ad avere la scena già leggibile.
Tutto questo è estremamente affascinante. La fase della registrazione delle voci potrebbe essere quella in cui maggiormente il regista compie un intervento sulla realtà, che in questo caso è l’attore, che può metterci anche del suo, nell’interpretazione, seppure solo con la voce.
A.R.: E noi vogliamo che ciò accada. Vogliamo che l’attore si appropri del personaggio, per costruire quel match che nell’arco di tre film posso dire che avviene all’improvviso. Raramente sappiamo tutto dall’inizio, e nel momento in cui avviene siamo pronti a rifare tutto da capo.
C.S.: Ci vogliono grandi prove attoriali, perché in quel momento il fisico viene escluso totalmente, non gestisci più espressione, trucco, parrucco, ma è tutto affidato solo alla voce.
A.R.: E poi ieri, in occasione dell’anteprima, abbiamo assistito alla situazione divertente che si crea dopo: gli attori, a differenza dei film live action, quando si rivedono si trovano diversi nell’aspetto, ma con dei comportamenti fisici che rimandano a loro, perché nella ricostruzione che l’animatore fa in cuffia è come se venisse naturale creare una somiglianza del personaggio con l’attore. Quindi per l’attore rivedere il film deve essere strano, perché non si è se stessi, però poi arrivano dei lampi in cui ci si riconosce.
C.R.: Inoltre, gli attori non si sono mai incontrati quando sono state registrate le voci.
A.R.: Infatti. Nel caso di Yaya e Lennie, Ciro Priello e Fabiola Balestriere si sono incontrati, ma nel caso di altri attori, che pure nel film interagiscono, l’interazione non è stata reale. Quindi per loro deve essere una strana emozione.
L’intervista completa sarà sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma” in uscita ai primi di dicembre.