All’affezionato lettore di Fabrique sempre aggiornato sulle novità dell’industry, così come allo spettatore medio e a quello che va in sala solo per digerire il pandoro o la colomba pasquale, sono certo non sfuggirà il trend della cinematografia mondiale degli ultimi anni, i cui contenuti e generi sembrano riproporsi con ciclicità. Sono altresì convinto che nessuno ritenga che ciò accada per casuali e irrefrenabili ispirazioni artistiche, ma che sia in gran parte dovuto a manovre economiche e mediatiche attentamente pianificate; non ci giriamo attorno, i blockbuster ‒ perché è di quello che stiamo parlando ‒ sono macchine per fare soldi. Tanti. Lavorando nel settore degli effetti visivi all’estero, mi rendo ancora più conto di quanto gli sforzi che noi “tecnici” facciamo per realizzare scene mozzafiato siano indirizzati a creare immagini per stupire e intrattenere lo spettatore: tutti gli artisti che vi partecipano amano tantissimo questo lavoro, e la passione che viene profusa si traduce in un successo visivo garantito, anche se a volte la narrazione può risultare debole rispetto all’impatto delle immagini.
In ogni caso, come anticipavo, la ciclicità dei contenuti e dei generi è sotto gli occhi di tutti, ed è talmente palese che le macchine produttive hanno cominciato a offrire al loro pubblico dei prodotti la cui matrice narrativa è già conosciuta ma reinterpretata in chiave differente, oppure spostata più indietro o in uno spazio-tempo parallelo. In altre parole il fenomeno degli spin-off (Il signore degli anelli, Avatar – in arrivo fino al numero 5! –, Animali fantastici e dove trovarli, riuscitissimo spin-off di Harry Potter, e naturalmente tutti gli Star Wars). Vediamo dunque le tendenze tematiche e di genere che hanno caratterizzato gli ultimi anni. A cavallo fra Ventesimo e Ventunesimo secolo si moltiplicano – non a caso – i film cosiddetti “catastrofici” che non hanno risparmiato né ambientazioni spaziali né terrestri. Titoli come Independence Day (1996), Mars Attacks! (1996), Armageddon (1998), Deep Impact (1998), poi ancora Twister (1996), Volcano (1997), Dante’s Peak (1997) e nel mucchio metterei anche Titanic (1997). Gli anni intorno al 2000 sono stati invece gli anni del ritorno al musical con Moulin Rouge (2001) e Chicago (2003), che con il loro successo hanno traghettato la rinascita del genere provocando un’inarrestabile ondata di nuove uscite già a partire da Il fantasma dell’opera (2004), Sweeney Todd (2007), Mamma Mia! (2008), Les Miserables (2012), fino ai più recenti Into the Woods (2014), e La La Land (2016). Il 2018 infine ha segnato il ritorno del genere sci-fi nella sua variante più sporca e cyber già anticipato con l’uscita di Blade Runner 2049 a fine 2017, che ha portato a casa due Oscar per la Migliore Fotografia e i Migliori Effetti Visivi, quindi importanti riconoscimenti sul versante delle immagini.
È d’obbligo (e romantico) sottolineare che il regista Denis Villeneuve ha fatto un grande uso di miniature per la realizzazione di molte delle inquadrature a volo d’uccello sulla città, ben 38, alcune alte fino a 4.5 metri di altezza. Un grande omaggio a quella che fu la tecnica del primo film datato 1982 e che, nonostante gli anni e l’ormai standardizzato impiego della computer grafica, ha dimostrato di saper ancora dar vita a immagini suggestive e realistiche. Ma, a testimonianza dell’attualità del genere, anche le holding delle piattaforme digitali hanno deciso di mettersi in gioco producendo serie televisive di stampo fantascientifico. Altered Carbon, tratto dal romanzo cyberpunk Bay City di Richard K. Morgan, è stata una delle prime serie interamente prodotte da Netflix e a cui ho avuto, tra l’altro, l’opportunità di lavorare. La produzione ha puntato molto sulla qualità delle immagini e sugli e etti visivi, che poco hanno da invidiare ai veri e propri film. Girata alla risoluzione di 5K e andata poi in onda a 4K, la serie rappresenta infatti uno dei primi esperimenti di prodotti ad altissima risoluzione destinati alla fruizione casalinga.
I dieci episodi si concentrano sulla rappresentazione di una società futuristica dove l’identità umana può essere codificata e immagazzinata digitalmente per essere ricaricata chirurgicamente nella colonna spinale e trasferita da un corpo all’altro: ciò permette agli esseri umani di sopravvivere alla morte fisica facendo in modo che i ricordi e la coscienza siano “inseriti” in nuovi corpi sintetici, clonati o naturali, che vengono considerati come mere custodie della mente. Con un plot così suggestivo ovviamente non poteva non essere ricreata un’ambientazione coerente, così per tutta la durata degli episodi le storie si intrecciano sullo sfondo di palazzi avveniristici ricoperti di ologrammi, astronavi orbitanti, dormitori di containers sui ponti e le consuete fumose e pericolose strade dei bassifondi delle tipiche città futuristiche. Purtroppo, forse tutta questa consuetudine estetica doveva essere accompagnata da un racconto meglio strutturato e, nonostante i molteplici espedienti, a mio avviso piuttosto didascalici, di rendere la serie più “cool” farcendola di nudità e scene di violenza alle volte al limite con lo splatter, viene comunque in superficie l’essenza di un prodotto degno di essere ricordato più per la sua estetica che per l’aspetto narrativo.
Altra produzione di casa Netflix e diretto da Duncan Jones, Mute è anch’esso un film di genere sci-fi e ancora più evidentemente ispirato all’estetica di Blade Runner dal punto di vista delle ambientazioni e delle scelte artistiche in generale. Nonostante il risultato visivo a cui ho anche in questo caso personalmente contribuito, la storia di un uomo muto alla ricerca della sua danzata scomparsa nelle strade di una Berlino futuristica non convince e ha scatenato le opinioni, per lo più negative, di giornalisti e appassionati che da molto tempo attendevano questo film. È stato definito come “un disastro” dalla stampa internazionale, davvero un peccato visto che le precedenti opere di Jones (Moon, Source Code) erano state apprezzate e, forse proprio per questo motivo, le aspettative erano ben altre. Ciò dimostra che il genere sci-fi è per un cineasta un territorio piuttosto pericoloso, dato che il gusto del pubblico si è molto evoluto e la ricetta del mood futuristico fatto di macchine volanti, grattacieli luminescenti, città inquinate e dark, personaggi stile cyber-punk e contenuti trasgressivi non sorprende più.
Ci vuole una ricetta inedita, e a un certo punto arriva Mr. Spielberg e insegna a tutti come si fa. Quello stesso Spielberg che già tempo fa, in un’intervista congiunta con George Lucas, aveva previsto che le major si stavano interessando sempre più alle serialità televisive e prevedeva un’implosione del film in sala. Del resto, dobbiamo ricordare che il suo Lincoln è riuscito ad arrivare nei cinema solo perché sostenuto dalla sua personale casa di produzione, la Dreamworks, altrimenti sarebbe stato messo in onda da HBO. Ready Player One, ultima fatica del regista di Cincinnati, ha infatti un sapore del tutto nuovo. Nel film siamo proiettati in un mondo dove l’uso della realtà virtuale è ormai l’unica scappatoia da una realtà inquinata e squallida: sì, la ricetta sembra la medesima, ma Spielberg la impiega solo come premessa per sviluppare una trama ambientata nel cyber spazio dove possiamo essere tutto e niente, vivere anche dei veri sentimenti; inoltre l’intuizione di ambientare la vicenda in una sorta di über-anni-Ottanta, con molteplici accenni alla cultura del decennio più pop, restituisce un sapore estetico che è al tempo stesso crudo e nostalgico.
Nel film assistiamo alla plausibile estremizzazione di quello che potrebbe succedere da qui ad alcuni anni, quando quello che attualmente facciamo in chat potrebbe diventare talmente interattivo grazie all’uso del visore, di guanti speciali e altre strumentazioni da poterci offrire le esperienze sensoriali più disparate. Il punto di vista del regista, evidente nel finale, sembra suggerire non solo l’accettazione di questa inarrestabile evoluzione, ma anche la possibilità di una pacifica convivenza tra il mondo reale e quello virtuale, a patto che quest’ultimo non intenda fagocitare la vita vera e le relazioni che vi si intrecciano. Con questo film Steven Spielberg diventa il primo regista della storia dal punto di vista del box office, poiché in totale le sue opere hanno incassato ben 10 bilioni di dollari; ma, mentre scrivo, in questo 2018 i supereroi stanno prendendo il sopravvento, quindi anche quest’anno ne vedremo delle belle.