Un progetto iniziato quasi dieci anni fa, con la regia del pluripremiato documentarista Stefano Savona e le animazioni di Simone Massi, disegnatore di fama internazionale, non poteva che lasciare il segno.
La strada dei Samouni, premiato allo scorso Cannes con il prestigioso Oeil d’Or come Miglior Documentario, parte da lontano. Era il 2009. Stefano Savona si recò a Gaza per tenere inizialmente un videoblog: ogni giorno avrebbe pubblicato un contributo filmato che raccontava le fasi di quel momento terribile e sanguinoso della storia recente che prende il nome di Piombo fuso. Titolo che Savona ha dato anche al lungometraggio che ha plasmato da quell’esperienza, con cui ha partecipato al Festival di Locarno di quello stesso anno nella sezione Cineasti del Presente, vincendo anche il Premio Speciale della Giuria.
«Quindici giorni dopo la fine dei bombardamenti ho incontrato, poco fuori Gaza, uno dei membri della famiglia Samouni», ci racconta Savona. I Samouni sono una famiglia di agricoltori, vivono fuori città, circondati dalla campagna che coltivano a lattuga e mandorle. La tragedia si era da poco consumata: un soldato israeliano, senza motivo, aveva sparato a uno dei capifamiglia, Ateya, padre della piccola Amal, protagonista del film, e poi un missile era stato lanciato sulla sua casa. Molti membri della famiglia sono rimasti sepolti dalle macerie, lo stesso si credeva di Amal, che però, miracolosamente, è stata portata in salvo.
Savona, che conosce bene luoghi e persone delle sue zone di interesse – è laureato in Archeologia e Antropologia, e i suoi studi si sono concentrati soprattutto sull’Egitto, la Turchia, Israele, dove ha partecipato a diversi scavi -, già pensava che la storia dei Samouni valesse la pena di essere raccontata, ed è allora tornato un anno dopo sul luogo dell’eccidio per raccogliere materiale ulteriore. «Nonostante il ritorno e le nuove riprese, mancava tutta la parte pre-attacco, la storia della famiglia e dei membri che erano morti. Grazie ad Amal e ai suoi disegni, ho pensato che quello che mancava potesse essere disegnato e animato».
E nel film i tragici disegni di Amal aprono alla ricostruzione animata: insieme a sua cugina, la bambina è in grado di riproporre col disegno il momento della morte di suo padre con minuzia di particolari, ma il vero dramma, il dramma dei piccoli, è come disegnare l’albero di sicomoro che sta di fronte casa sua. Un’idea coraggiosa, quella di Savona, e dalle potenzialità straordinarie. Ed è qui che si immette sulla strada dei Samouni anche Simone Massi, per molti il più grande disegnatore della sua generazione in Italia. Capacità evocativa rara nel cinema (non solo d’animazione), tratto inconfondibile, stile “graffiato” (ci dice Savona), ideale per lo scopo del lm.
«Ci siamo conosciuti prima ai David di Donatello» racconta Massi «poi abbiamo legato ancora di più alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Stefano stava lavorando al suo nuovo progetto, è venuto a casa mia, me ne ha parlato e ho accettato subito. C’era già un primo montaggio, ed era relativo al dopo. Stefano aveva bisogno dell’animazione per ricostruire tutto quello che non aveva potuto filmare, ovvero le scene della famiglia Samouni, fino al raid israeliano. Si tratta di un film complesso che ci ha impegnato per svariati anni. In generale il mio lavoro si è concentrato sul disegno, sullo stile, talvolta sul numero degli oggetti presenti nell’inquadratura e sul rapporto luci e ombre. Sul montaggio non sono mai intervenuto perché non avevo e non potevo avere la visione d’insieme».
Terminato il montaggio degli inserti animati, arriva la succulenta sfida della ricostruzione sonora. Savona si è recato a Istanbul, insieme a due giovani assistenti, Alessandro Drudi e Virginia Nardelli, che stanno seguendo le sue orme: sono allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia a Palermo, la sede dove si studia il cinema della realtà. «Siamo stati a Istanbul due settimane, e lì abbiamo registrato le voci di decine di palestinesi e siriani emigrati in Turchia, ricercando la voce adatta per ogni personaggio della parte animata, prestando attenzione ai vari accenti».
Ancora Massi: «È stata un’esperienza straordinaria. Per la prima volta ho lavorato con una squadra di disegnatori, sotto la direzione di un altro autore. Al di là del successo di critica e del premio ricevuto al Festival di Cannes, La strada dei Samouni mi ha fatto conoscere
al di fuori del circuito in cui mi sono sempre mosso, quello legato ai festival di animazione e del cortometraggio. Ancor di più il film è lì a testimoniare che un lungometraggio animato con la mia tecnica e la mia poetica si può fare eccome».
Così ha preso vita, quindi, questo film ibrido destinato ad avere molti epigoni. Inoltre, i film di Stefano Savona possono fare scuola almeno per due motivi. Il primo è che, a ben guardarli, sono un compendio di cosa vuol dire assumere la giusta distanza quando si filma un soggetto cogliendone in flagrante la quotidianità, le sofferenze, le gioie, i momenti di intimità riflessiva, ma sempre con grande rispetto, discrezione, umiltà: da questo punto di vista, come avevamo già riportato dalla Croisette subito dopo aver visto il film, è magistrale il momento in cui la madre di Amal, seconda moglie di Ateya, impasta il pane e racconta della perdita del marito, creando un corto circuito, un’alternanza di adesione e distacco dalla storia, rivolgendosi a chi la sta filmando e poi ritornando alle sue faccende e ai figli da accudire; ne viene fuori un quadro struggente, intenso, che fa risaltare l’enorme dignità di un essere umano anche quando si confronta con il ricordo di una tragedia.
Il secondo motivo è che Savona nei suoi documentari ha il coraggio di prendere posizione: come in Piombo fuso, come in Tahrir (film del 2011 che racconta un altro evento cruciale del Medio Oriente contemporaneo, e cioè l’insofferenza, la protesta e infine la rivolta del popolo egiziano contro il regime di Mubarak), anche ne La strada dei Samouni (qui il trailer ufficiale) il regista sceglie da che parte stare, ma senza proclami, solo con l’ausilio dello strumento cinematografico, solo col mostrare e senza il dimostrare. Esemplari, in tal senso, sono due momenti: il beffardo murales disegnato da un soldato israeliano sul muro della casa di Ateya, con una lapide su cui è scritto Arabs 1948- 2009 e il commento ingenuo di uno dei fratelli di Amal – «certo che non sono mica normali» – e la frase «perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?» pronunciata da Faraj, un altro dei gli di Ateya. Un quesito tragico che come risposta contempla solo un rispettoso silenzio.