Effetti Speciali Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 04 Apr 2022 12:28:11 +0000 it-IT hourly 1 Effetti visivi, il manuale di compositing più smart usa Python https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/effetti-visivi-il-manuale-di-compositing-piu-smart-usa-python/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/effetti-visivi-il-manuale-di-compositing-piu-smart-usa-python/#respond Mon, 28 Mar 2022 13:55:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16951 Gianluca Dentici è un compositor di successo e un VFX supervisor. Romano, ma da diversi anni residente a Londra, ha lavorato ad importanti progetti italiani ed internazionali, che gli sono valsi diverse candidature ai David di Donatello e diversi premi tra cui un Oscar, vinto nel 2017 con il team della società londinese MPC per […]

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Gianluca Dentici è un compositor di successo e un VFX supervisor. Romano, ma da diversi anni residente a Londra, ha lavorato ad importanti progetti italiani ed internazionali, che gli sono valsi diverse candidature ai David di Donatello e diversi premi tra cui un Oscar, vinto nel 2017 con il team della società londinese MPC per Il libro della giungla di Jon Favreau. Oltre ai numerosi impegni sul set ha da poco pubblicato il libro Python Scripting for smart and curious compositors, il primo testo ad affrontare dalla A alla Z, in maniera puntuale, la programmazione Python applicata al software di compositing Nuke. Un mondo complesso e affascinante che abbiamo approfondito con l’aiuto di Gianluca.

Come si realizza un film con effetti visivi?

Il workflow tipico degli effetti visivi si divide in due macro aree: il reparto 3D e il compositing. Il primo è strutturato, al suo interno, in altri dipartimenti che si occupano delle diverse fasi di creazione, quali la ricostruzione delle estensioni scenografiche, le animazioni e le creature. La prima fase è quella della modellazione, dove viene costruito il modello tridimensionale. Nel caso di creature animate, il reparto di rigging si occupa di inserire al loro interno uno scheletro in modo che possano essere successivamente animate dal reparto di animazione. Nella fase di texturing, invece, viene realizzata la texture dei personaggi o degli oggetti virtuali, dal colore alla materia, ad esempio una pelle squamata o un muro di mattoni. ll reparto groom si occupa invece di creare digitalmente il “fur”:  i capelli o il pelo di una creatura, quando necessario. Tra i dipartimenti più vicini al compositing c’è quello del lighting, che si occupa di illuminare le scene in computer grafica, sia per le inquadrature completamente digitali che per quelle ibride, composte cioè sia da una ripresa reale che da elementi digitali. In questo caso la luce virtuale che illumina gli oggetti in computer grafica deve essere il più simile possibile a quella del set affinché possa essere integrata nella maniera più realistica possibile. L’ultimo passaggio, infine, è il rendering. Questa fase richiede molto tempo poiché le immagini vengono calcolate fotogramma per fotogramma (24 per ogni secondo di durata per il cinema) al fine di generare gli elementi virtuali che occorreranno per comporre la scena.

The Truman Show
Jim Carrey in “The Truman Show”.

Il compositing invece di cosa si occupa?

Il compositing è un dipartimento singolo, finalizza l’effetto visivo e lo fa sembrare realistico. Uniamo gli elementi digitali a quelli reali e li amalgamiamo perfettamente. I rendering della computer grafica ci vengono passati sotto forma di passes o layers, che sono praticamente la scomposizione delle caratteristiche dell’oggetto colpito dalla luce, cioè luce diffusa, specularità, riflessi, riflessioni, luci di riempimento e numerose altre,  vale per ogni oggetto o personaggio. Questo offre ai compositors la possibilità di avere il massimo controllo sui livelli e colori nella fase di compositing.  Oltre a oggetti o creature animate possiamo trovarci, però, a inserire anche altri elementi digitali. Tra questi, le set extensions, ovvero le estensioni scenografiche virtuali. In The Truman Show, tanto per citare un film del passato in cui è stata ampiamente usata questa tecnica, la produzione ha ricostruito realmente l’ambientazione al piano terra dove interagivano gli attori, ma le estensioni dei palazzi in altezza sono state realizzate in computer grafica. Possono inoltre essere impiegati elementi fotografici per la ricostruzione di panorami virtuali. In questo caso è il dipartimento di matte painting che se ne occupa lavorando contributi fotografici e pittorici in alta risoluzione su Photoshop. Un ultimo reparto con cui si interfaccia il compositor è quello di FX, che si occupa di creare tutti quegli effetti che richiedono simulazioni dinamiche. Alcuni esempi: l’acqua digitale, come nel film Pirati dei caraibi, dove in molte scene il mare è ricreato in computer grafica, le animazioni di sabbia fatte in Dune e Star Wars, o ancora gli incendi, che dopo essere stati parzialmente realizzati sul set per ragioni di sicurezza, possono essere incrementati in post produzione per ottenere un effetto più drammatico. Tutti questi elementi vengono passati al dipartimento di compositing per realizzare l’inquadratura finale.

È più complesso lavorare su un film completamente in computer grafica o su un film normale con effetti visivi?

Io lavoro principalmente su film con effetti visivi, ma ho esperienza anche in progetti completamente digitali, come Il re leone. È un altro tipo di lavoro ma i passaggi restano gli stessi. In realtà è più difficile quando tutto è virtuale poiché l’aspetto fotografico presenta difficoltà maggiori. Infatti la luce vera sul set ti offre un buon riferimento visivo, quando invece è tutto digitale la devi ricreare affinché risulti realistica; ciò vale anche per la macchina da presa virtuale che inquadra la nostra scena in computer grafica e che deve avere la naturalezza che avrebbe una reale macchina da presa sul set.

Il tuo libro è il primo compendio di programmazione per il compositor…

Il libro ha avuto una grossa eco a livello internazionale perché non esisteva una pubblicazione simile. È un compendio di 1250 pagine che parte dalle basi della programmazione fino a giungere a un livello avanzato. Anche se nel mestiere di compositor non è necessariamente richiesta la conoscenza della programmazione, sicuramente impararla aiuta a migliorare le performances e velocizzare alcuni processi delle fasi del compositing. Per questo motivo il libro è adatto a chi vuole incrementare le proprie conoscenze tecniche/artistiche nel settore.

Qual è l’obiettivo del libro?

L’obiettivo finale è fornire al lettore gli strumenti per poter creare, ad esempio, delle automazioni per comporre insieme diversi elementi digitali customizzando e velocizzando alcuni processi che altrimenti si dovrebbero fare manualmente. Il libro parte da zero e si rivolge quindi anche a chi non possiede alcun tipo di conoscenza di programmazione: come anticipato si basa sul compositing e ciò che si richiede al lettore è almeno la conoscenza di base di un tipico workflow di post-produzione. Il linguaggio di programmazione utilizzato è Python che è semplice da imparare ma molto potente e ampiamente utilizzato in vari settori. Su internet sono disponibili numerosi siti o libri da cui è possibile iniziare a studiare questo linguaggio  in maniera generica, ma spesso si finisce per acquisire una conoscenza non specifica o non completa relativamente al campo di applicazione cui siamo interessati. Perciò ho pensato di scrivere questo libro spiegando il Python applicato direttamente al compositing per il cinema, in particolare al software Nuke. Il libro, inoltre, è volutamente in formato digitale perché, in questo modo è più semplice per il lettore provare i vari codici di programmazione facendo copia/incolla.

The House Netflix
“The House” (2022) su Netflix.

Potresti farmi qualche esempio di applicazione pratica?

Una delle applicazioni più interessanti è quella di creare interfacce con librerie di effetti selezionabili. Ad esempio, se dovessimo simulare degli effetti di riverbero della luce di una candela su una scena è spesso necessario provare diversi set up di curve di animazione randomiche per trovare quello più appropriato,  questa operazione viene spesso effettuata manualmente e richiede tempo. Utilizzando un po’ di programmazione invece è possibile creare un’interfaccia dalla quale l’artista può selezionare il tipo di curva più appropriata.  Un altro esempio riguarda The House, il film in stop motion di Netflix a cui ho partecipato presso Nexus Studios: avevamo la necessità di applicare degli specifici settaggi di rimozione del rumore digitale e modificare l’esposizione su tutti i fotogrammi delle singole inquadrature. Se lo avessimo dovuto fare manualmente avremmo dovuto aprire le inquadrature una per una ed effettuare le modifiche, il che avrebbe richiesto un intervento umano per tutta la durata della fase di acquisizione dei materiali del film. Ho invece creato un’interfaccia in grado di gestire l’automazione che, oltre a effettuare le procedure di cui sopra, al termine del processo spostava anche i fotogrammi in specifiche cartelle, inviava una mail di report e segnalava eventuali errori. In un film in stop motion possono inoltre verificarsi anche alcune particolari problematiche tecniche. Le macchine fotografiche rimangono accese per molte ore al giorno, talvolta con esposizioni lunghe e con settaggi ad alta sensibilità, tutte queste condizioni insieme possono favorire la comparsa di “hot pixels”, che si presentano come puntini rossi sull’immagine che vanno quindi corretti o e sostituiti con il colore dei pixel circostanti. Controllare ogni fotogramma di ogni inquadratura ed eventualmente effettuare queste correzioni a mano richiederebbe un tempo incredibile e specifiche risorse dedicate, ma con un po’ di programmazione è possibile creare uno strumento specifico in grado di effettuare il processo automaticamente.

 

 

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 Yaya e Lennie, in cerca di libertà in una Napoli sepolta dalla giungla https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/yaya-e-lennie-in-cerca-di-liberta-in-una-napoli-sepolta-dalla-giungla/ Fri, 05 Nov 2021 09:03:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16342 Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molesto, Il verificatore, L’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, […]

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Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molestoIl verificatoreL’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, sporca, anti-cartolinesca. La trasfigurazione della città diventerà una cifra stilistica del regista napoletano, il campione del cinema animato contemporaneo che l’Italia può vantare, dopo il folgorante primo film, premiato agli EFA nel 2014, e poi La gatta cenerentola, presentato a Venezia nel 2017 e vincitore di due David, e infine l’ultimo, proiettato in piazza Grande a Locarno, Yaya e Lennie -The Walking Liberty, dove Napoli pure c’è, ma sepolta dalla giungla, affiorante qua e là più come monito che come reperto. 

A piazza del Gesù il clima è più clemente quando raggiungiamo Alessandro Rak e il produttore Carlo Stella, con cui chiacchieriamo su dei divani comodissimi, ma sotto l’inquietante sguardo di un cuscino con le fattezze di Darth Vader.

Prima ancora di parlare di Yaya e Lennie, vi chiederei di svelare l’iter produttivo di un cinema di animazione. Quali differenze ci sono con il cinema live action?

A.R.: Per quanto riguarda la preparazione, secondo me non c’è un grande scarto. Direi che esistono delle libertà diverse nell’immaginare. Intendo che, ovviamente, ci si fa un’idea del budget al quale si va incontro quando si pensa la storia, ma in animazione alcune cose sono meno costose di quanto sarebbero per il cinema reale, per esempio gli effetti speciali; risultano invece estremamente faticose delle cose che nel cinema reale vengono quasi spontanee con la macchina da presa. Mi spiego meglio: se parliamo dell’animazione di un personaggio, nel caso del cinema di animazione si tratta di ricostruire fotogramma per fotogramma ogni comportamento muscolare, espressivo, o addirittura le pieghe del vestito che si muovono insieme alle articolazioni del corpo, una cosa complessissima da fare. Invece nella ripresa live ci pensa l’attore, e la macchina da presa in tempo reale riprende quello che c’è da riprendere. Quanto più si vuole rendere realistico un movimento o un sentimento, tanto più diventa difficile l’animazione. Invece fare effetti speciali, anche far precipitare un meteorite, per noi è di una banalità incredibile a fronte di quello che verrebbe a costare nel cinema live. Infine, l’animazione ha la possibilità di percorrere e ripercorrere di continuo la lavorazione di un momento del film: non è legata a un ciak, ma è un lavoro di miglioramento continuativo che poi a un certo punto va necessariamente arrestato perché da un punto di vista produttivo sarebbe una follia e io e Carlo Stella non andremmo più d’accordo. 

Venendo ora a Yaya e Lennie, come è nata questa idea?

A.R.: In realtà stavamo lavorando a un altro progetto, poi però è uscito un film Disney che aveva troppi punti di contatto con quello che stavamo facendo, si sarebbe potuto forse pensare a un plagio, e invece era un progetto ispirato a una graphic novel a cui avevo lavorato una quindicina di anni fa. Abbiamo deciso di spostarci completamente, abbiamo buttato giù dal nulla un soggetto nuovo proposto dalla produzione, e da lì in tempo brevissimo abbiamo sviluppato una sceneggiatura che ci ha permesso almeno di attivare la fase di pre-produzione del film. Lo spunto originario era Uomini e topi di Steinbeck, poi elaborato dagli altri soggettisti che sono Marino Guarnieri, Dario Sansone e Francesco Filippini, per fare in modo che fosse qualcosa di diverso, che passasse dalla Grande Depressione americana, come nel romanzo, a uno scenario di crisi più estesa, globale, un’apocalisse, con personaggi che invece di essere in difficoltà a trovare un loro posto nel mondo sono giovani ancora più in difficoltà nel trovare la loro collocazione esistenziale. 

Yaya e Lennie
“Yaya e Lennie”, Ciro Priello e Fabiola Balestriere.

I due protagonisti non sono degli eroi, hanno delle fragilità, uno di loro due è raccontato come portatore di un ritardo…

A.R.: Sono antieroi perché sono fragili, e funzionano bene perché hanno due diversi “tempi del vivere”: uno dei due ha un ritardo mentale, ma invece secondo me quello di Lennie è un tempo di vivere diverso, che per certi versi è anche più saggio, più godurioso della vita, quello di Yaya invece è più frenetico, più veloce, più ansioso nella ricerca di qualcosa, ma anche più preoccupato. Questi due personaggi, appena sono venuti fuori, ci sono piaciuti per questo scarto che ci aiutava a generare un conflitto, comunque fraterno, ma che è un filo conduttore in tutta la storia.

Tu hai citato Uomini e topi, ma a un tratto si intravede la copertina di Walden di Thoreau. È stato anche quello una fonte?

A.R.: Sì. Il mito del buon selvaggio e tutte le speculazioni di fine Ottocento e inizio Novecento sulla reinterpretazione della società e la messa in discussione delle basi della civiltà sono stati elementi di discussione e di ragionamento con gli sceneggiatori.

Una provocazione: un film come questo potrebbe far nascere il dubbio che uno sconvolgimento apocalittico del genere, più che fare paura, quasi sembrerebbe auspicabile.

A.R.: Durante la pandemia, una cosa che abbiamo tutti accolto con ammirazione sono state le immagini della natura che si riprendeva i propri spazi, la vegetazione che si faceva rigogliosa, il mare che si ripuliva, fiumi e laghi di nuovo cristallini… Questa condizione fa ingolosire, però noi siamo l’uomo, la nostra presenza la dobbiamo necessariamente manifestare non restando chiusi nei nostri appartamenti, quindi le soluzioni per cui possiamo combattere dovrebbero essere diverse da una sorta di auto-annichilimento.

Dalla vegetazione affiorano opere d’arte del passato, San Matteo e l’angelo di Caravaggio, la volta della cappella di San Gennaro…

A.R.: C’era un’idea di Napoli sotto forma di reperto, il territorio sepolto da questa giungla doveva essere la città di Napoli per come la conosciamo, o anche in una sua prospettiva più avanzata, e quindi per gli amanti della città poteva essere bello veder riemergere alcune testimonianze. Questo lo abbiamo ricercato anche dal punto di vista del sonoro, con gli accenti dei personaggi, o con qualche brano musicale che affiora dal passato.

Il film non è manicheo nel raccontare gli abitanti dei villaggi come i buoni e l’Istituzione come il cattivo assoluto. Nella scena del ricovero di Lennie sembra che si voglia creare un dialogo tra le due realtà.

A.R.: Il personaggio di André è il centro di questa contraddittorietà. L’idea non era quella di costruire buoni o cattivi, ma di costruire delle parti, che poi con l’andamento del film scoprivano i loro difetti. La differenza sostanziale tra i personaggi è che ce ne sono alcuni che hanno ben chiaro come devono andare le cose, mentre altri, come i protagonisti, questa idea non ce l’hanno, hanno curiosità o paura, ma non stabiliscono come gli altri debbano vivere.

Ci raccontate la fase del doppiaggio?

A.R.: Noi in realtà non facciamo il doppiaggio, è più corretto dire che costruiamo delle voci guida. È praticamente l’opposto. La costruzione del nostro film prevede il lavoro con l’attore che poi diventa uno stimolo e una guida e una ispirazione per tutto il processo dell’animazione. Noi ricostruiamo il labiale e tutti i comportamenti fisici e somatici partendo da una voce che sentiamo in cuffia, che è una voce, appunto, ed è stata incisa da un attore che ha lavorato al buio, senza vedere niente se non qualche immagine di storyboard, o qualche schizzo preparatorio. Un attore che a sua volta segue la voce guida del direttore del doppiaggio che gli dà le indicazioni di com’è la situazione, del suo assetto fisico, di dove si trovano gli altri personaggi sulla scena, di qual è il tempo della scena, se è affrettato oppure se è molto lento, e in base a tutto questo l’attore regola la sua voce, di fatto parlando con dei fantasmi. Da questo, poi, si arriva a un lavoro di taglia e cuci che è il nostro montaggio del sonoro, che si aggiunge al videoboard realizzato nel frattempo, e così si arriva ad avere la scena già leggibile.

Tutto questo è estremamente affascinante. La fase della registrazione delle voci potrebbe essere quella in cui maggiormente il regista compie un intervento sulla realtà, che in questo caso è l’attore, che può metterci anche del suo, nell’interpretazione, seppure solo con la voce.

A.R.: E noi vogliamo che ciò accada. Vogliamo che l’attore si appropri del personaggio, per costruire quel match che nell’arco di tre film posso dire che avviene all’improvviso. Raramente sappiamo tutto dall’inizio, e nel momento in cui avviene siamo pronti a rifare tutto da capo.

C.S.: Ci vogliono grandi prove attoriali, perché in quel momento il fisico viene escluso totalmente, non gestisci più espressione, trucco, parrucco, ma è tutto affidato solo alla voce. 

A.R.: E poi ieri, in occasione dell’anteprima, abbiamo assistito alla situazione divertente che si crea dopo: gli attori, a differenza dei film live action, quando si rivedono si trovano diversi nell’aspetto, ma con dei comportamenti fisici che rimandano a loro, perché nella ricostruzione che l’animatore fa in cuffia è come se venisse naturale creare una somiglianza del personaggio con l’attore. Quindi per l’attore rivedere il film deve essere strano, perché non si è se stessi, però poi arrivano dei lampi in cui ci si riconosce.

C.R.: Inoltre, gli attori non si sono mai incontrati quando sono state registrate le voci. 

A.R.: Infatti. Nel caso di Yaya e Lennie, Ciro Priello e Fabiola Balestriere si sono incontrati, ma nel caso di altri attori, che pure nel film interagiscono, l’interazione non è stata reale. Quindi per loro deve essere una strana emozione.  

L’intervista completa sarà sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma” in uscita ai primi di dicembre.

 

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Resurrection Corporation, l’animazione “in nero” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/resurrection-corporation-lanimazione-in-nero/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/resurrection-corporation-lanimazione-in-nero/#respond Fri, 15 May 2020 07:55:26 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13939 Omaggio al Dottor Caligari, a 100 anni dal capolavoro espressionista La lavorazione di Resurrection Corporation, film d’animazione molto sui generis, ha richiesto oltre quattro anni, partendo dalla lunga gestione del soggetto e della sceneggiatura fino al complesso lavoro di character design e animazione, realizzati con tre software differenti (grafica, lip sinc e body animation). Al […]

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Omaggio al Dottor Caligari, a 100 anni dal capolavoro espressionista

La lavorazione di Resurrection Corporation, film d’animazione molto sui generis, ha richiesto oltre quattro anni, partendo dalla lunga gestione del soggetto e della sceneggiatura fino al complesso lavoro di character design e animazione, realizzati con tre software differenti (grafica, lip sinc e body animation). Al primo passaggio di lavorazione, ne è seguito un secondo mirato a raffinare i movimenti e le luci fino alla fase di post produzione in cui sono susseguiti doppiaggio, sonoro, colonna sonora e montaggio.

Bastano pochi frame, con l’uso del bianco e nero, l’animazione spigolosa e le inquadrature statiche per capire che il film derivi i suoi elementi più caratteristici dall’espressionismo tedesco: anzi, si può dire che Resurrection Corporation sia l’omaggio a che il regista Alberto Genovese e lo sceneggiatore Mattia de Pascali hanno voluto fare alla pietra miliare di quel cinema, ovvero Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, che proprio quest’anno compie giusto cento anni.

Umorismo macabro

La trama ha quel giusto grado di umorismo black che si addice ai modelli di riferimento: Caligari è un becchino che non ha più lavoro da quando la morte stessa è stata bandita dalla città, soppiantata da un metodo pratico di… resurrezione.

Quali sono state le vostre principali ispirazioni, a parte naturalmente Wiene?

Mattia Intanto in Resurrection Corporation c’è il mesmerismo [una specie di ipnotismo in voga nell’Ottocento, ndr]: nelle intenzioni di Alberto la tematica avrebbe dovuto essere anche più presente, comunque abbiamo attinto a La verità sul caso di Mr. Valdemar, il classico di Edgar A. Poe. Per quanto riguarda la cultura nazionale, non saprei indicare un modello di riferimento conscio. Di italico ci sono solo due o tre conoscenze in comune tra me e Alberto che abbiamo usato per immaginare alcuni personaggi del film…

Alberto: Sì, confermo che il leitmotiv che ha dato la spinta al film è il racconto di Poe; poi per il resto, quando penso a qualche prodotto italiano che mi ha ispirato, mi vengono in mente I tre volti della paura di Mario Bava e Contronatura di Antonio Margheriti; ma c’è anche tanto cinema classico, partendo appunto dal capolavoro di Wiene fino a La sposa di Frankenstein di James Whale.

Uno dei richiami stilistici più forti al dottor Caligari (oltre il nome) sono proprio le architetture della città. Il castello invece si ispira, suppongo, al Nosferatu di Murnau. Quali altri omaggi si nascondono nel film?

Mattia: Tutte le citazioni dal punto di vista grafico sono merito di Alberto, che mi parlava di espressionismo prima ancora che scrivessi una sola riga di soggetto. Nonostante il nome del protagonista, non ci siamo focalizzati unicamente sull’opera di Wiene, ma abbiamo guardato anche ai classici della Universal e ai Maghi del terrore di Roger Corman come ulteriore punto di riferimento. Se esistono altri omaggi non sono intenzionali, ma nascono spontaneamente; fatta eccezione per il nome di un personaggio, la signorina Freudstein, che è un rimando a un classico di Fulci. Comunque nulla di particolarmente cerebrale. Mi serviva un nome ed è il primo che mi è venuto in mente.

Alberto: Se si guarda attentamente, in Resurrection Corporation ho disseminato vecchi poster del cinema muto, da Nosferatu – esatto – a Vampyr di Carl Theodor Dreyer, passando anche per l’Urlo di Munch; naturalmente queste sono le citazioni più esplicite, ma c’è un immenso immaginario cinematografico nel film, anche per quanto riguarda i maestri del gotico italiano come Bava o Margheriti.

Guardando Resurrection si ha l’impressione di una commistione eterogenea di generi.

Mattia: Sicuramente era voluto che fosse un film d’animazione a tema horror con toni da commedia grottesca. Qualche altro spunto potrebbe rimandare alla fantascienza, ma non era nostra intenzione inserire quanti più generi possibili. O meglio, non ci siamo mai interrogati su questo punto, abbiamo sempre discusso della storia. È stata la narrazione a spingerci sui terreni più consoni.

Alberto: Mi è sempre piaciuto mescolare i generi, anche nelle mie prove cinematografiche precedenti come L’invasione degli astronazi che misceleva horror, fantascienza, spy story e commedia; Dolcezza extrema invece era un melting pot tra cinema di animazione (con i pupazzi di stoffa sullo stile di Meet The Feebles di Peter Jackson), horror, commedia e grottesco anni Ottanta. Credo che il cinema non possa sottostare a limiti di genere se vuole esprimere veramente qualcosa.

Qual è la cosa di cui siete più fieri riguardo alla produzione del film?

Mattia: Lavorare per anni su qualcosa di estremamente originale e vederlo finalmente completo ti rende orgoglioso. Ma con l’autocompiacimento bisogna sempre andare cauti. I motivi di fierezza è giusto che ti vengano donati da un pubblico.

Alberto: Il superamento di una sfida titanica come realizzare un film d’animazione con un budget ridottissimo è sicuramente un bel traguardo, se poi, come spero, piacerà al pubblico, allora la soddisfazione sarà decisamente raddoppiata.

Quale pensate sia il miglior modo per permettere al pubblico di vedere Resurrection Corporation? Avete già delle idee su come distribuirlo, nonostante le difficoltà di questo  periodo?

 Mattia: I nostri lavori precedenti sono stati distribuiti in DVD, blu-ray e on demand, quindi non ci aspettiamo sicuramente di fare un passo indietro. La sala cinematografica oggi è quasi un’utopia. A ogni modo, prima di metterci in contatto con i distributori è indispensabile che il film segua un suo percorso per i festival e che accumuli recensioni. Purtroppo, a causa della pandemia, sono già saltati vari eventi; motivo per cui abbiamo deciso di mostrare Resurrection Corporation alla critica prima ancora di una sua anteprima ufficiale.

Alberto: Sì, cerchiamo di creare un corposo background al film, una specie di pagella composta da recensioni e partecipazioni ai vari festival cinematografici che spero si riprenderanno presto. In questo modo potremo presentare alle società di distribuzione qualcosa di davvero appetibile.

 

 

 

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Dietro al successo del Re Leone gli effetti visivi targati MPC https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/dietro-al-successo-del-re-leone-gli-effetti-visivi-targati-mpc/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/dietro-al-successo-del-re-leone-gli-effetti-visivi-targati-mpc/#respond Thu, 05 Sep 2019 08:56:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13228 Con un trionfo al box office internazionale da oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, Il re leone si attesta tra i film più riusciti di casa Disney: sebbene sia da molti considerato un vero e proprio feature film per il realismo delle immagini e per l’effettivo impiego di alcune riprese reali, se considerato film d’animazione si […]

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Con un trionfo al box office internazionale da oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, Il re leone si attesta tra i film più riusciti di casa Disney: sebbene sia da molti considerato un vero e proprio feature film per il realismo delle immagini e per l’effettivo impiego di alcune riprese reali, se considerato film d’animazione si attesterebbe come quello di maggiore incasso di tutti i tempi.

Per realizzare questa produzione il regista Jon Favreau è stato riconfermato dalla Disney dopo il successo de Il libro della giungla, vincitore dell’Oscar per i migliori effetti visivi, assieme a un team di circa 1250 artisti e tecnici, parte dei quali avevano già lavorato al precedente successo di Favreau. Ma grazie al lavoro di animazione ed effetti visivi svolto dalla società MPC, il livello della computer grafica impiegata nel Re leone si è spinto ancora oltre. L’obiettivo del regista era infatti quello di realizzare un film che avesse il realismo visivo di un documentario ma lo stile di racconto e il consueto mood disneyano.

Il lavoro di dettaglio raggiunto sui personaggi e le ambientazioni è in effetti stupefacente, e ancora più la coerenza delle inquadrature con l’iconico film del 1994: con questa recente produzione si è infatti voluto replicare l’esatto stile registico del predecessore, incrementandone il realismo sì con la nuova grafica, ma anche mediante animazioni secondarie sulla moltitudine di personaggi realizzati.
L’esperienza visiva è certamente coinvolgente e l’animazione dei personaggi principali è credibile perché, nonostante parlino, si è impiegato uno stile di animazione non invasivo e quindi il “volto” dei personaggi si muove in base ai reali movimenti che la muscolatura facciale degli animali è in grado di compiere.

Il re leoneDal punto di vista tecnico, l’innovazione più significativa è stata certamente quella di aver impiegato la realtà virtuale quale ambiente immersivo per la ripresa delle scene. In pratica, il regista e i suoi collaboratori più stretti, tra i quali il direttore della fotografia Caleb Deschanel e il supervisore degli effetti Rob Legato, indossavano dei caschi da realtà virtuale che li immergevano interamente nei set realizzati in computer grafica: in questo modo erano in grado di consultarsi su come impostare le inquadrature ed effettivamente girarle mentre guardavano all’animazione dei personaggi già presenti all’interno del mondo virtuale. Era possibile anche modificare le luci in tempo reale ed impiegare diversi sistemi di ripresa come carrelli, crane ecc; insomma, era come girare su un set reale con attori in carne e ossa, ma in un ambiente controllato e con la possibilità di ripetere il ciak quante volte necessario.

Nel prossimo numero di Fabrique, Gianluca Dentici che ha lavorato al film come Senior Compositor Key Artist a MPC London, ci illustrerà il percorso realizzativo e tecnico che ha portato alla creazione delle splendide immagini del Re leone. Stay tuned!

 

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Ride. Pasquale Croce tra Kubrick e GoPro https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/ride-pasquale-croce-tra-kubrick-e-gopro/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/ride-pasquale-croce-tra-kubrick-e-gopro/#respond Wed, 24 Apr 2019 10:27:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12938 Dalla ILM passando per la Weta Digital. Le società di effetti visivi digitali sono ormai un must per il cinema anglosassone, e il pubblico nostrano ancora arranca quando si tratta di associare questo tipo di cesellamento filmico all’Italia. Noi intanto abbiamo fatto una chiacchierata con Pasquale Croce, socio cofondatore di EDI Effetti Digitali Italiani, a […]

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Dalla ILM passando per la Weta Digital. Le società di effetti visivi digitali sono ormai un must per il cinema anglosassone, e il pubblico nostrano ancora arranca quando si tratta di associare questo tipo di cesellamento filmico all’Italia. Noi intanto abbiamo fatto una chiacchierata con Pasquale Croce, socio cofondatore di EDI Effetti Digitali Italiani, a proposito del loro lavoro nella post-produzione di Ride, thriller diretto da Jacopo Rondinelli, scritto e supervisionato artisticamente dai Fabio Guaglione e Fabio Resinaro di Mine.

[questionIcon] Come è avvenuto il primo contatto tra voi e gli autori di Ride?

[answerIcon] Inizialmente con i due Fabio, che ormai tenevamo d’occhio dopo il loro esordio con Mine. Però è stato un primo passo un po’ fuori dagli schemi, perché noi solitamente entriamo nei progetti con un’idea ben precisa di quello che andremo a fare, dall’inizio alla fine.

[questionIcon] E in questo caso no?

[answerIcon] No, perché gli autori ci hanno spiegato che avevano girato il film usando praticamente solo GoPro, con un’infinità di punti macchina e senza sapere ancora, di preciso, come il film sarebbe stato montato. Non solo, avevano bisogno anche di effetti digitali sui totem neri, che però sono parte fondamentale della storia.

Ride con Lorenzo Richelmy

[questionIcon] Certo, perché gli attori interagiscono con questi parallelepipedi di kubrickiana memoria.

[answerIcon] Appunto, quindi noi avremmo dovuto creare una parte grafica su quello che a tutti gli effetti è quasi un personaggio del film, senza avere una precisa idea della porzione di informazioni da rivelare di volta in volta. Un vero rebus: ogni elemento era interdipendente.

[questionIcon] Quindi come siete riusciti a risolverlo?

[answerIcon] È stata una sfida per noi di EDI e l’abbiamo accettata con piacere. Certo, i creativi del gruppo erano entusiasti mentre i pragmatici decisamente meno, ma ci sembrava giusto metterci alla prova, e una corsa del genere non potevamo farcela sfuggire. Poi abbiamo comunque avuto il contributo giornaliero di Rondinelli e Guaglione, che con sceneggiatura alla mano ci hanno aiutato nell’inserimento, a livello di intreccio, delle grafiche da aggiungere ai totem. Si vedeva quanto tenessero al loro film.

[questionIcon] Parliamo invece delle GoPro, supporto principale su cui Ride è stato girato. Qual è la difficoltà nell’aggiungere gli effetti su questo tipo di macchine da presa commerciali?

[answerIcon] Il discorso è tecnico. Cerco di semplificarlo un minimo: anche se, in generale, i sensori digitali hanno una maggiore risoluzione sul canale del verde e minore su quello del blu e del rosso, con le macchine da presa professionali è possibile avere un’ottima qualità di scontornamento sia con il green-screen che con il blue-screen. Nel nostro caso, invece, il sensore della GoPro, piccolo e non orientato al mercato professionale, non avendo sufficiente qualità sul canale del blu, ci ha obbligato a scegliere il green-screen. Ora ti faccio io una domanda: dove è stato girato, per la maggior parte, Ride?

ride

[questionIcon] In un bosco, ovviamente.

[answerIcon] Appunto, perciò green screen in mezzo alla vegetazione. Il delirio. Nel 60% dei casi si è dovuto intervenire facendo maschere a mano, avendo sempre una base di tentativo in automatico e poi una rifinitura manuale.

[questionIcon] Ma i problemi con le GoPro non finiscono qua.

[answerIcon] Ovviamente no. Le lenti grandangolari delle GoPro cambiano da macchina a macchina. Di solito per le riprese di un film si usa un solo set di lenti per le inquadrature, invece in questo caso avevamo molte macchine con lo stesso tipo di lente, anche se ognuna inevitabilmente aveva una sua piccola differenza. Infatti basta una minima variazione nella manifattura dell’ottica, che in questo caso è in plastica, per avere una grossa differenza in termini di distorsione dell’immagine che si traduce in variazione nell’ordine di parecchi pixel. Quindi noi non potevamo nominare ogni ripresa sapendo precisamente da quale macchina veniva, anche se a un certo punto abbiamo iniziato a riconoscerle a occhio. Per ogni scena dovevamo creare una mappa di deformazione in modo da ritrovare lo stesso tipo per compositare sopra la grafica. Non avevamo mai lavorato con le GoPro, ma anche per questo abbiamo intrapreso questo lavoro come una sfida personale.

[questionIcon] Voi avete anche ricreato una città completamente in 3D, è stato quello il compito più arduo?

[answerIcon] È stato un compito diverso, più vicino al nostro core business. La lavorazione in 3D è una delle nostre grandi passioni, perciò devo dire che l’elemento più complesso di Ride alla fine è stato adattarsi alle GoPro, proprio perché a livello organizzativo c’erano più variabili e più incognite.

ride

[questionIcon] Che programmi e strumenti avete usato per creare?

[answerIcon] Intanto ognuno di noi ha una tavoletta grafica, che utilizza sempre e comunque, anche per muoversi sull’interfaccia. Chi opera ha sempre una penna in mano. Per il dipartimento di compositing il programma principale è Nuke (di cui EDI è il più grosso parco licenze in Italia). La sua struttura a nodi ci permette di condividere tutto in ogni momento, ed è perfetto perché così puoi creare una sottostruttura che diventa di fatto come un vero e proprio plug-in senza bisogno di programmare tutte le volte. Così possiamo standardizzare: aumenta la qualità e si riducono i tempi. Ride aveva anche molta motion graphic su cui lavorare, perciò per quello ci affidiamo al pacchetto Adobe: After Effects, Photoshop e Premiere. Per il 3D invece utilizziamo Maya per la parte generale e le animazioni e Houdini per gli effetti particellari, come duplicazioni e liquidi.

[questionIcon] Perciò quanto è durata la post-produzione?

[answerIcon] Diciamo 4-5 mesi di lavoro effettivo, per compositing, motion graphic e 3D. Abbiamo lavorato su circa 6-700 inquadrature.

[questionIcon] Siete soddisfatti del risultato?

[answerIcon] Soddisfattissimi. Bellissima sia l’esperienza sia il lavoro con regista e sceneggiatori. Siamo pronti a una nuova collaborazione con loro, perché sono convinto che questi autori emergenti siano legati al futuro di EDI.

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Victor Perez: Echo, gli effetti visivi come strumenti per raccontare https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/victor-perez-echo-gli-effetti-visivi-come-strumenti-per-raccontare/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/victor-perez-echo-gli-effetti-visivi-come-strumenti-per-raccontare/#respond Fri, 29 Mar 2019 10:40:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12777 A volte bisogna semplicemente buttarsi anima e corpo, assorbire tutto come una spugna, sperimentare, rischiare e sì, anche divertirsi. Il cinema, nella sua accezione più ampia, offre queste possibilità, ma ci vuole un taglio particolare di sguardo per coglierle tutte. Victor Perez ci sta riuscendo alla perfezione. Fresco vincitore del David di Donatello agli effetti […]

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A volte bisogna semplicemente buttarsi anima e corpo, assorbire tutto come una spugna, sperimentare, rischiare e sì, anche divertirsi. Il cinema, nella sua accezione più ampia, offre queste possibilità, ma ci vuole un taglio particolare di sguardo per coglierle tutte. Victor Perez ci sta riuscendo alla perfezione. Fresco vincitore del David di Donatello agli effetti visivi per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione e vincitore del Best International Short Film Director ai Fabrique Awards per il suo cortometraggio Echo, Victor, spagnolo di nascita ma ormai adottato dal nostro paese, ci ha raccontato la sua vita tra effetti visivi, regia, scrittura e un amore per il cinema perfetto nella sua splendida follia.

[questionIcon] Cominciamo proprio da Echo, il tuo ultimo lavoro come regista. Come nasce l’idea?

[answerIcon] Risale addirittura a dodici anni fa, ma all’epoca non c’era la tecnologia per girare quello che avevo in mente. Poi mi sono trovato a Stoccolma per uno spot della Nike agli Stiller Studios, dove si fa motion control. Lì ho raccontato la mia idea, cioè girare con due macchine da presa simultaneamente una persona che vede un suo doppio allo specchio, ma dieci secondi più avanti. A loro è piaciuta e hanno deciso di co-produrre il corto con me, perché la storia è talmente legata alla tecnologia che sarebbe impossibile pensare le due cose separate. Hai seguito il corto in ogni suo aspetto? L’unica cosa che non ho fatto sono i panini [ride, ndr]. L’ho scritto, prodotto, diretto, ho supervisionato gli effetti con tutto il team. Certo, avevo una squadra formidabile che mi aiutava, ma in Echo ci ho messo l’anima, dall’inizio alla fine. Ho chiesto tanti piccoli favori a molte persone, e sono fiero di aver imparato facendolo, perché poi girare e sperimentare serve anche a quello.

[questionIcon] E oltre al Fabrique Award hai ricevuto una nomination insperata.

[answerIcon] Sì, è incredibile. Echo è stato nominato ai Visual Effects Society Awards proprio per l’innovazione nel campo della cinematografia virtuale fotorealistica. Siamo infatti riusciti a sincronizzare per la prima volta nella storia due macchine da presa montate su due robot controllati al computer (motion control), una per l’immagine vera e l’altra per il riflesso nello specchio, usando un algoritmo – inventato da noi – che ci ha permesso di calcolare la posizione del riflesso in relazione alla camera principale in diversi momenti nel tempo e a diverse velocità: quello che abbiamo chiamato Time Displacement. Così abbiamo creato l’effetto di uno specchio virtuale, e lì mi sono veramente messo in gioco, riuscendo a mettere in scena lo sfalsamento temporale di una delle due camere pur mantenendo l’angolazione del riflesso in relazione alla macchina da presa principale. I Visual Effects hanno compreso l’enorme lavoro innovativo e hanno candidato Echo, per la prima volta un cortometraggio, assieme a film con budget multimilionari come Aquaman, Jurassic World, Ready Player One e Benvenuti a Marwen. Essere nominato insieme a Spielberg e Zemeckis è già un onore.

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[questionIcon] Spielberg è infatti uno dei tuoi modelli di regia.

[answerIcon] Non si può prescindere dal suo lavoro e dalla sua storia. Oltre a lui, direi David Fincher nell’uso del racconto visivo, Sergio Leone e poi, inevitabilmente, Christopher Nolan, avendo anche lavorato con lui in Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Nolan è il perfetto esempio del regista contemporaneo: un autore con i budget dei blockbusters.

[questionIcon] Tu però nasci come attore, gli effetti visivi e la regia sono arrivati dopo.

[answerIcon] Paradossalmente sì. In Spagna già a quattordici anni ero un attore professionista. Però ho sempre adorato sperimentare con la “materia cinema”. Mio fratello, che è un fotografo ed è molto più grande di me, quando ero piccolo mi aveva insegnato a fare dei piccoli lavori in stop-motion. Mi divertivo a creare questi film usando i miei Transformers. Avevo sei anni e ricreavo le esplosioni con il cotone e la plastilina: mi sono reso conto solo da adulto che era folle lasciar giocare un bambino con tutte quelle macchine fotografiche, ma era il mio divertimento. Poi a sedici anni ho portato i miei lavori in uno studio di grafica per fare una stampa e mi hanno preso a lavorare. Da lì non ho mai smesso.

[questionIcon] L’amore per l’Italia passa per una donna, giusto?

[answerIcon] Sì, la mia vita è cambiata quando ho conosciuto quella che è oggi mia moglie. Ero a Reggio Emilia per un corso di scultura, facevamo maschere in cuoio secondo la tradizione della Commedia dell’Arte. Davvero, non apriamo questo capitolo [ride ancora di gusto, ndr]… però è lì che ho conosciuto mia moglie e ho deciso di trasferirmi stabilmente. Solo che per via dell’accento era difficile trovare lavori interessanti come attore, quindi mi sono iscritto alla scuola di cinema dove insegnava Vittorio Storaro. Avevo ventisei anni ed ero assieme a tanti giovani, ma credo che avere studiato tardi ha fatto sì che potessi affrontare tutto con più maturità e consapevolezza.

[questionIcon] E il punto di svolta, purtroppo, te l’ha dato sempre l’Italia.

[answerIcon] Sì, io ero a L’Aquila durante il terremoto. Ho visto la mia casa crollare. Sono rimasto con solo un pigiama per due settimane, ma quando non hai più niente da perdere capisci chi sei e cosa vuoi. Sono andato a Londra e mi sono gettato nel mondo degli effetti visivi: mi divertivo, mi ci pagavo le bollette, ma il tarlo della regia era sempre lì. Per tanti anni ho aiutato gli altri a creare le loro storie, ora voglio parlare delle mie. Gli effetti visivi devono essere strumenti per raccontare, devono supportare un’idea e renderla possibile.

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[questionIcon] Hai lavorato anche agli effetti visivi de Il ragazzo invisibile – Seconda generazione.

[answerIcon] Esatto. Non lo nascondo: è stato difficile lavorare qui, perché non essendoci una tradizione di film dove gli effetti visivi hanno un grande impatto nel modo di raccontare la storia, le produzioni in Italia partono con una mentalità completamente diversa rispetto al mondo anglosassone o americano a cui sono abituato. In Italia ci sono artisti di grandissimo talento, e ho dovuto lavorare a lungo per permettere a loro di dare il meglio, alla produzione di credere a degli effetti “costosi” e alla società che produce gli effetti visivi di stabilire un workflow che non ha nulla da invidiare ai più grandi studios. La fatica maggiore è stata far credere a tutti che ce la potevamo fare… e così è stato. Per fortuna Gabriele Salvatores, Nicola Giuliano, Francesca Cima, Carlotta Calori e RAI Cinema hanno creduto in me, dandomi praticamente carta bianca. Tanti ripetevano “non si può fare”, ma grazie al duro lavoro abbiamo raggiunto un risultato incredibile, questo al cinema si vede e fa la differenza. Ciò dimostra quello che ho detto a tutto il team fin dalla prima riunione: è possibile, si può fare e lo abbiamo fatto.

[questionIcon] Quindi essere VFX Supervisor in Italia o in America è molto differente.

[answerIcon] È soltanto una questione di tradizione, abitudine e pratica. Questi elementi preparano un mindset alla produzione per poter considerare i VFX come un elemento narrativo importante quanto il montaggio o la fotografia. Qui abbiamo il talento ma non lo sappiamo sfruttare. Avendo lavorato a Pirati dei Caraibi e a Il ragazzo invisibile – Seconda generazione posso dire che i procedimenti sono gli stessi, solo che in Italia c’è un rumore di sottofondo che ripete “eh, ma qua le cose sono diverse”. Io voglio invece dimostrare che in Italia si possono fare le cose in maniera diversa, si può creare un’industria di questo tipo, e conIl ragazzo invisibile – Seconda generazione ho già messo un tassello in questa direzione. È ironico che debba essere uno spagnolo a rompere le scatole per far funzionare le cose: ma io amo questo paese, ci vivo e voglio poterlo valorizzare.

[questionIcon] E ora?

[answerIcon] Ora sto lavorando al mio primo lungo: Ensemble. Sarà una storia cyberpunk sulla musica classica. Penso sia un progetto che possa unire tutte le mie passioni, impiegando gli effetti visivi al servizio della storia. Lo spettatore deve meravigliarsi e credere che quello che vede sia possibile, perché gli effetti visivi vanno pensati durante la scrittura e inclusi nell’idea di regia. Non è necessario un budget enorme, perché nelle ristrettezze si stimola la fantasia e, paradossalmente, si lavora meglio, hai meno pressioni esterne e puoi mantenere la tua idea durante tutto il processo di realizzazione.

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La strada dei Samouni: tecnica e poetica in un dramma animato https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/la-strada-dei-samouni-tecnica-e-poetica-in-un-dramma-animato/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/la-strada-dei-samouni-tecnica-e-poetica-in-un-dramma-animato/#respond Wed, 17 Oct 2018 07:50:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11612 Un progetto iniziato quasi dieci anni fa, con la regia del pluripremiato documentarista Stefano Savona e le animazioni di Simone Massi, disegnatore di fama internazionale, non poteva che lasciare il segno. La strada dei Samouni, premiato allo scorso Cannes con il prestigioso Oeil d’Or come Miglior Documentario, parte da lontano. Era il 2009. Stefano Savona […]

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Un progetto iniziato quasi dieci anni fa, con la regia del pluripremiato documentarista Stefano Savona e le animazioni di Simone Massi, disegnatore di fama internazionale, non poteva che lasciare il segno.

La strada dei Samouni, premiato allo scorso Cannes con il prestigioso Oeil d’Or come Miglior Documentario, parte da lontano. Era il 2009. Stefano Savona si recò a Gaza per tenere inizialmente un videoblog: ogni giorno avrebbe pubblicato un contributo filmato che raccontava le fasi di quel momento terribile e sanguinoso della storia recente che prende il nome di Piombo fuso. Titolo che Savona ha dato anche al lungometraggio che ha plasmato da quell’esperienza, con cui ha partecipato al Festival di Locarno di quello stesso anno nella sezione Cineasti del Presente, vincendo anche il Premio Speciale della Giuria.

«Quindici giorni dopo la fine dei bombardamenti ho incontrato, poco fuori Gaza, uno dei membri della famiglia Samouni», ci racconta Savona. I Samouni sono una famiglia di agricoltori, vivono fuori città, circondati dalla campagna che coltivano a lattuga e mandorle. La tragedia si era da poco consumata: un soldato israeliano, senza motivo, aveva sparato a uno dei capifamiglia, Ateya, padre della piccola Amal, protagonista del film, e poi un missile era stato lanciato sulla sua casa. Molti membri della famiglia sono rimasti sepolti dalle macerie, lo stesso si credeva di Amal, che però, miracolosamente, è stata portata in salvo.

Savona, che conosce bene luoghi e persone delle sue zone di interesse – è laureato in Archeologia e Antropologia, e i suoi studi si sono concentrati soprattutto sull’Egitto, la Turchia, Israele, dove ha partecipato a diversi scavi -, già pensava che la storia dei Samouni valesse la pena di essere raccontata, ed è allora tornato un anno dopo sul luogo dell’eccidio per raccogliere materiale ulteriore. «Nonostante il ritorno e le nuove riprese, mancava tutta la parte pre-attacco, la storia della famiglia e dei membri che erano morti. Grazie ad Amal e ai suoi disegni, ho pensato che quello che mancava potesse essere disegnato e animato».

la strada dei samouni

E nel film i tragici disegni di Amal aprono alla ricostruzione animata: insieme a sua cugina, la bambina è in grado di riproporre col disegno il momento della morte di suo padre con minuzia di particolari, ma il vero dramma, il dramma dei piccoli, è come disegnare l’albero di sicomoro che sta di fronte casa sua. Un’idea coraggiosa, quella di Savona, e dalle potenzialità straordinarie. Ed è qui che si immette sulla strada dei Samouni anche Simone Massi, per molti il più grande disegnatore della sua generazione in Italia. Capacità evocativa rara nel cinema (non solo d’animazione), tratto inconfondibile, stile “graffiato” (ci dice Savona), ideale per lo scopo del lm.

«Ci siamo conosciuti prima ai David di Donatello» racconta Massi «poi abbiamo legato ancora di più alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Stefano stava lavorando al suo nuovo progetto, è venuto a casa mia, me ne ha parlato e ho accettato subito. C’era già un primo montaggio, ed era relativo al dopo. Stefano aveva bisogno dell’animazione per ricostruire tutto quello che non aveva potuto filmare, ovvero le scene della famiglia Samouni, fino al raid israeliano. Si tratta di un film complesso che ci ha impegnato per svariati anni. In generale il mio lavoro si è concentrato sul disegno, sullo stile, talvolta sul numero degli oggetti presenti nell’inquadratura e sul rapporto luci e ombre. Sul montaggio non sono mai intervenuto perché non avevo e non potevo avere la visione d’insieme».

Terminato il montaggio degli inserti animati, arriva la succulenta sfida della ricostruzione sonora. Savona si è recato a Istanbul, insieme a due giovani assistenti, Alessandro Drudi e Virginia Nardelli, che stanno seguendo le sue orme: sono allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia a Palermo, la sede dove si studia il cinema della realtà. «Siamo stati a Istanbul due settimane, e lì abbiamo registrato le voci di decine di palestinesi e siriani emigrati in Turchia, ricercando la voce adatta per ogni personaggio della parte animata, prestando attenzione ai vari accenti».

Ancora Massi: «È stata un’esperienza straordinaria. Per la prima volta ho lavorato con una squadra di disegnatori, sotto la direzione di un altro autore. Al di là del successo di critica e del premio ricevuto al Festival di Cannes, La strada dei Samouni mi ha fatto conoscere
al di fuori del circuito in cui mi sono sempre mosso, quello legato ai festival di animazione e del cortometraggio. Ancor di più il film è lì a testimoniare che un lungometraggio animato con la mia tecnica e la mia poetica si può fare eccome».

la strada dei samouni

Così ha preso vita, quindi, questo film ibrido destinato ad avere molti epigoni. Inoltre, i film di Stefano Savona possono fare scuola almeno per due motivi. Il primo è che, a ben guardarli, sono un compendio di cosa vuol dire assumere la giusta distanza quando si filma un soggetto cogliendone in flagrante la quotidianità, le sofferenze, le gioie, i momenti di intimità riflessiva, ma sempre con grande rispetto, discrezione, umiltà: da questo punto di vista, come avevamo già riportato dalla Croisette subito dopo aver visto il film, è magistrale il momento in cui la madre di Amal, seconda moglie di Ateya, impasta il pane e racconta della perdita del marito, creando un corto circuito, un’alternanza di adesione e distacco dalla storia, rivolgendosi a chi la sta filmando e poi ritornando alle sue faccende e ai figli da accudire; ne viene fuori un quadro struggente, intenso, che fa risaltare l’enorme dignità di un essere umano anche quando si confronta con il ricordo di una tragedia.

Il secondo motivo è che Savona nei suoi documentari ha il coraggio di prendere posizione: come in Piombo fuso, come in Tahrir (film del 2011 che racconta un altro evento cruciale del Medio Oriente contemporaneo, e cioè l’insofferenza, la protesta e infine la rivolta del popolo egiziano contro il regime di Mubarak), anche ne La strada dei Samouni (qui il trailer ufficiale) il regista sceglie da che parte stare, ma senza proclami, solo con l’ausilio dello strumento cinematografico, solo col mostrare e senza il dimostrare. Esemplari, in tal senso, sono due momenti: il beffardo murales disegnato da un soldato israeliano sul muro della casa di Ateya, con una lapide su cui è scritto Arabs 1948- 2009 e il commento ingenuo di uno dei fratelli di Amal – «certo che non sono mica normali» – e la frase «perché dobbiamo soffrire tanto, noi che siamo nati qui?» pronunciata da Faraj, un altro dei gli di Ateya. Un quesito tragico che come risposta contempla solo un rispettoso silenzio.

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L’eterno ritorno del futuro. Ready Player One e gli altri https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/leterno-ritorno-del-futuro-ready-player-one-e-gli-altri/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/leterno-ritorno-del-futuro-ready-player-one-e-gli-altri/#respond Mon, 27 Aug 2018 08:00:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11168 All’affezionato lettore di Fabrique sempre aggiornato sulle novità dell’industry, così come allo spettatore medio e a quello che va in sala solo per digerire il pandoro o la colomba pasquale, sono certo non sfuggirà il trend della cinematografia mondiale degli ultimi anni, i cui contenuti e generi sembrano riproporsi con ciclicità. Sono altresì convinto che […]

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All’affezionato lettore di Fabrique sempre aggiornato sulle novità dell’industry, così come allo spettatore medio e a quello che va in sala solo per digerire il pandoro o la colomba pasquale, sono certo non sfuggirà il trend della cinematografia mondiale degli ultimi anni, i cui contenuti e generi sembrano riproporsi con ciclicità. Sono altresì convinto che nessuno ritenga che ciò accada per casuali e irrefrenabili ispirazioni artistiche, ma che sia in gran parte dovuto a manovre economiche e mediatiche attentamente pianificate; non ci giriamo attorno, i blockbuster ‒ perché è di quello che stiamo parlando ‒ sono macchine per fare soldi. Tanti. Lavorando nel settore degli effetti visivi all’estero, mi rendo ancora più conto di quanto gli sforzi che noi “tecnici” facciamo per realizzare scene mozzafiato siano indirizzati a creare immagini per stupire e intrattenere lo spettatore: tutti gli artisti che vi partecipano amano tantissimo questo lavoro, e la passione che viene profusa si traduce in un successo visivo garantito, anche se a volte la narrazione può risultare debole rispetto all’impatto delle immagini.

In ogni caso, come anticipavo, la ciclicità dei contenuti e dei generi è sotto gli occhi di tutti, ed è talmente palese che le macchine produttive hanno cominciato a offrire al loro pubblico dei prodotti la cui matrice narrativa è già conosciuta ma reinterpretata in chiave differente, oppure spostata più indietro o in uno spazio-tempo parallelo. In altre parole il fenomeno degli spin-off (Il signore degli anelli, Avatar – in arrivo fino al numero 5! –, Animali fantastici e dove trovarli, riuscitissimo spin-off di Harry Potter, e naturalmente tutti gli Star Wars). Vediamo dunque le tendenze tematiche e di genere che hanno caratterizzato gli ultimi anni. A cavallo fra Ventesimo e Ventunesimo secolo si moltiplicano – non a caso – i film cosiddetti “catastrofici” che non hanno risparmiato né ambientazioni spaziali né terrestri. Titoli come Independence Day (1996), Mars Attacks! (1996), Armageddon (1998), Deep Impact (1998), poi ancora Twister (1996), Volcano (1997), Dante’s Peak (1997) e nel mucchio metterei anche Titanic (1997). Gli anni intorno al 2000 sono stati invece gli anni del ritorno al musical con Moulin Rouge (2001) e Chicago (2003), che con il loro successo hanno traghettato la rinascita del genere provocando un’inarrestabile ondata di nuove uscite già a partire da Il fantasma dell’opera (2004), Sweeney Todd (2007), Mamma Mia! (2008), Les Miserables (2012), fino ai più recenti Into the Woods (2014), e La La Land (2016). Il 2018 infine ha segnato il ritorno del genere sci-fi nella sua variante più sporca e cyber già anticipato con l’uscita di Blade Runner 2049 a fine 2017, che ha portato a casa due Oscar per la Migliore Fotografia e i Migliori Effetti Visivi, quindi importanti riconoscimenti sul versante delle immagini.

blade runner 2049

È d’obbligo (e romantico) sottolineare che il regista Denis Villeneuve ha fatto un grande uso di miniature per la realizzazione di molte delle inquadrature a volo d’uccello sulla città, ben 38, alcune alte fino a 4.5 metri di altezza. Un grande omaggio a quella che fu la tecnica del primo film datato 1982 e che, nonostante gli anni e l’ormai standardizzato impiego della computer grafica, ha dimostrato di saper ancora dar vita a immagini suggestive e realistiche. Ma, a testimonianza dell’attualità del genere, anche le holding delle piattaforme digitali hanno deciso di mettersi in gioco producendo serie televisive di stampo fantascientifico. Altered Carbon, tratto dal romanzo cyberpunk Bay City di Richard K. Morgan, è stata una delle prime serie interamente prodotte da Netflix e a cui ho avuto, tra l’altro, l’opportunità di lavorare. La produzione ha puntato molto sulla qualità delle immagini e sugli e etti visivi, che poco hanno da invidiare ai veri e propri film. Girata alla risoluzione di 5K e andata poi in onda a 4K, la serie rappresenta infatti uno dei primi esperimenti di prodotti ad altissima risoluzione destinati alla fruizione casalinga.

I dieci episodi si concentrano sulla rappresentazione di una società futuristica dove l’identità umana può essere codificata e immagazzinata digitalmente per essere ricaricata chirurgicamente nella colonna spinale e trasferita da un corpo all’altro: ciò permette agli esseri umani di sopravvivere alla morte fisica facendo in modo che i ricordi e la coscienza siano “inseriti” in nuovi corpi sintetici, clonati o naturali, che vengono considerati come mere custodie della mente. Con un plot così suggestivo ovviamente non poteva non essere ricreata un’ambientazione coerente, così per tutta la durata degli episodi le storie si intrecciano sullo sfondo di palazzi avveniristici ricoperti di ologrammi, astronavi orbitanti, dormitori di containers sui ponti e le consuete fumose e pericolose strade dei bassifondi delle tipiche città futuristiche. Purtroppo, forse tutta questa consuetudine estetica doveva essere accompagnata da un racconto meglio strutturato e, nonostante i molteplici espedienti, a mio avviso piuttosto didascalici, di rendere la serie più “cool” farcendola di nudità e scene di violenza alle volte al limite con lo splatter, viene comunque in superficie l’essenza di un prodotto degno di essere ricordato più per la sua estetica che per l’aspetto narrativo.

Altra produzione di casa Netflix e diretto da Duncan Jones, Mute è anch’esso un film di genere sci-fi e ancora più evidentemente ispirato all’estetica di Blade Runner dal punto di vista delle ambientazioni e delle scelte artistiche in generale. Nonostante il risultato visivo a cui ho anche in questo caso personalmente contribuito, la storia di un uomo muto alla ricerca della sua danzata scomparsa nelle strade di una Berlino futuristica non convince e ha scatenato le opinioni, per lo più negative, di giornalisti e appassionati che da molto tempo attendevano questo film. È stato definito come “un disastro” dalla stampa internazionale, davvero un peccato visto che le precedenti opere di Jones (Moon, Source Code) erano state apprezzate e, forse proprio per questo motivo, le aspettative erano ben altre. Ciò dimostra che il genere sci-fi è per un cineasta un territorio piuttosto pericoloso, dato che il gusto del pubblico si è molto evoluto e la ricetta del mood futuristico fatto di macchine volanti, grattacieli luminescenti, città inquinate e dark, personaggi stile cyber-punk e contenuti trasgressivi non sorprende più.

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Ci vuole una ricetta inedita, e a un certo punto arriva Mr. Spielberg e insegna a tutti come si fa. Quello stesso Spielberg che già tempo fa, in un’intervista congiunta con George Lucas, aveva previsto che le major si stavano interessando sempre più alle serialità televisive e prevedeva un’implosione del film in sala. Del resto, dobbiamo ricordare che il suo Lincoln è riuscito ad arrivare nei cinema solo perché sostenuto dalla sua personale casa di produzione, la Dreamworks, altrimenti sarebbe stato messo in onda da HBO. Ready Player One, ultima fatica del regista di Cincinnati, ha infatti un sapore del tutto nuovo. Nel film siamo proiettati in un mondo dove l’uso della realtà virtuale è ormai l’unica scappatoia da una realtà inquinata e squallida: sì, la ricetta sembra la medesima, ma Spielberg la impiega solo come premessa per sviluppare una trama ambientata nel cyber spazio dove possiamo essere tutto e niente, vivere anche dei veri sentimenti; inoltre l’intuizione di ambientare la vicenda in una sorta di über-anni-Ottanta, con molteplici accenni alla cultura del decennio più pop, restituisce un sapore estetico che è al tempo stesso crudo e nostalgico.

Nel film assistiamo alla plausibile estremizzazione di quello che potrebbe succedere da qui ad alcuni anni, quando quello che attualmente facciamo in chat potrebbe diventare talmente interattivo grazie all’uso del visore, di guanti speciali e altre strumentazioni da poterci offrire le esperienze sensoriali più disparate. Il punto di vista del regista, evidente nel finale, sembra suggerire non solo l’accettazione di questa inarrestabile evoluzione, ma anche la possibilità di una pacifica convivenza tra il mondo reale e quello virtuale, a patto che quest’ultimo non intenda fagocitare la vita vera e le relazioni che vi si intrecciano. Con questo film Steven Spielberg diventa il primo regista della storia dal punto di vista del box office, poiché in totale le sue opere hanno incassato ben 10 bilioni di dollari; ma, mentre scrivo, in questo 2018 i supereroi stanno prendendo il sopravvento, quindi anche quest’anno ne vedremo delle belle.

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MAD, il futuro dell’animazione passa per Napoli https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/mad-futuro-dellanimazione-passa-napoli/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/mad-futuro-dellanimazione-passa-napoli/#respond Mon, 12 Mar 2018 07:49:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9939 Visita guidata agli studi napoletani – decisamente fuori dagli schemi – che hanno dato vita a due degli esperimenti di animazione più riusciti e premiati degli ultimi anni: La Gatta Cenerentola e L’arte della felicità. MAD Entertainment si trova al secondo piano di un bell’edificio tardo-barocco del centro di Napoli, Palazzo Pandola: è qui lo […]

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Visita guidata agli studi napoletani – decisamente fuori dagli schemi – che hanno dato vita a due degli esperimenti di animazione più riusciti e premiati degli ultimi anni: La Gatta Cenerentola e L’arte della felicità.

MAD Entertainment si trova al secondo piano di un bell’edificio tardo-barocco del centro di Napoli, Palazzo Pandola: è qui lo studio napoletano d’animazione dove sono nati due piccoli grandi fenomeni come L’arte della felicità di Alessandro Rak e La Gatta Cenerentola di Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone. In un paese in cui l’animazione per adulti è quasi inesistente, fare due cartoon in quattro anni è quasi un miracolo, ma farli entrambi bene è certamente opera di San Gennaro. E, come vedremo, non è un modo di dire.

Studio dell’anno al Cartoon Movie di Lione, protagonista nei festival con La Gatta Cenerentola (vincitore fra l’altro dei Fabrique Awards come opera innovativa e sperimentale), la MAD è stata paragonata a una piccola Pixar nostrana. Per la qualità dei prodotti realizzati, alternativi fino al midollo e tecnicamente impeccabili, ma anche per il metodo di lavoro “in condivisione”: tutti fanno tutto, l’opinione di ciascuno è importante, your ideas matter direbbero gli americani. Solo che qui, nel cuore di Napoli, non è fiorito un open space luminoso per giovani hipster cresciuti a bacche di goji, cartoon e tisane. Qui è nata “una bottega”, come ci ripeteranno spesso a palazzo Pandola.

MAD EntertainmentUna bottega divisa in due sezioni, a un capo e l’altro dello stesso pianerottolo: la parte creativa e quella amministrativa, che include anche lo studio di registrazione dove sono state arrangiate, scritte e mixate le musiche dei film, finalizzati poi a Roma. La parte per così dire istituzionale della MAD è amichevole fin dall’ingresso a vetri, dove ad accogliere gli ospiti c’è una voce familiare: quella che appartiene, ne La Gatta Cenerentola, all’assistente del re. «Lui è il nostro Marcello Mastroianni – spiega Marino Guarnieri, indicando un uomo gentile alla scrivania, che di professione farebbe il rivenditore di attrezzature cinematografiche – ogni volta che possiamo gli facciamo fare un personaggio nei nostri film». Lungo i corridoi capita di inciampare in uno strumento musicale abbandonato, visto che «qui sono tutti musicisti, e se a qualcuno viene voglia di suonare lo può fare», o in una coppia di poltroncine da cinema, cimeli della prima vita da esercente del produttore Luciano Stella (leggenda vuole che fu al piano superiore del suo cinema, il Modernissimo, che nacque il primo spunto de L’arte della felicità).

E proprio Stella è il cuore di quest’area. La sua stanza, «dove facciamo le riunioni e dove celebriamo lo “stappo” della bottiglia alla chiusura del film», è un piccolo tempio pagano del cinema, tra locandine, pezzi di set, attestati, una maschera da gatto, foto di scena, una gigantografia di Jack Nicholson, un pupazzo di Bozzetto, coppe, trofei, premi. Due premi spiccano, in particolare, l’uno accanto all’altro: «Questo è il premio San Gennaro, il primo che ha vinto L’arte della felicità. E quest’altro pure è il premio San Gennaro, il primo riconoscimento che ha vinto La Gatta Cenerentola. Speriamo che gli porti la stessa fortuna». Non tutti gli autori gradirebbero lavorare con un produttore così vicino, praticamente in casa. Ma alla MAD «ci troviamo bene fianco a fianco con Luciano perché i film non vengono calati su di noi come una concessione dall’alto. C’è compresenza ma anche tolleranza, qui regna un’orizzontalità benefica per tutti».

MAD EntertainmentPer capire il senso di questa orizzontalità basta esplorare l’area “nuova” degli studi, quella creativa, costruita pezzo dopo pezzo di pari passo col procedere dei lavori per La Gatta Cenerentola. Attraversato l’ingresso, superato il cuore pulsante della modellazione dove si lavora su quattro computer alle scenografie e ai personaggi, si raggiunge la stanza comune. Che è luogo di relax (è l’unico posto dove è ammesso fumare) ma anche di lavoro collettivo, stanza per le riunioni e postazione di montaggio condivisa: «Mentre lavoriamo al film il montaggio viene lasciato aperto sul computer – spiega Dario Sansone – Chiunque può mettersi seduto qua e e vedere la situazione, a che punto siamo arrivati, come sta andando». In questo studio, ci spiegano, animatori e modellatori si scambiano le competenze, «per tenere tutto insieme e non segmentare il lavoro».

Tutti fanno tutto è il refrain – incluso portare il caffè. «Non è questione solo di generosità, ma di uno stile di lavoro nato dall’esigenza. Quando Rak voleva realizzare L’arte della felicità, ha dovuto trovare un metodo di lavoro che fosse in scala con il suo piccolissimo budget – ci dice Ivan Cappiello – E così ha messo insieme le persone che conosceva e che amavano l’animazione: gente non esperta ma appassionata e volenterosa, a cominciare dai ragazzi della scuola napoletana di Comics. Il budget ridotto ha portato a soluzioni atipiche, a schemi che sono riusciti a mettere l’essere umano al centro del lavoro. Più che uno studio di animazione questo è un luogo di condivisione, di passione, una bottega. Ci tolleriamo a vicenda per anni puntando al risultato finale». Non c’è distanza gerarchica, per dire, tra la stanza dei quattro registi, con i muri pieni di disegni di bambini («Tra un film e l’altro ne sono nati parecchi»), le tavole di scenografia e un cimelio del film Videodrome, e la stanzetta dove tre stagisti hanno lavorato al corto che precede La Gatta Cenerentola, schizzi alle pareti e un omino di marzapane in cartone che spunta da una scatola (in ogni stanza della MAD c’è un oggetto fuori posto, come in un gioco de La Settimana Enigmistica).

MAD Entertainment
Maria Pia Calzone e Massimiliano Gallo

Il prossimo lungometraggio dello studio, l’adattamento della graphic novel di Rak A Scheleton Story, è per il momento in fase di preproduzione. Ma anche se oggi lo studio è fermo, c’è un via vai di persone che arrivano, si propongono, provano un computer, discutono, fumano. «In questa fase lo studio resta a disposizione dei ragazzi che possono usarlo per sviluppare progetti personali – racconta Rak, circumnavigando un albero di Natale crollato a un lato della stanza – In questa specie di anarchia si punta molto sull’iniziativa dei singoli, sulla loro propositività. E chissà che così non nascano nuovi progetti».

Nuovi progetti per cui servirà, inevitabilmente, del tempo. Perché lo studio non cede di un millimetro a tentazioni più commerciali («Le serie a cartoni? Oggi sono un lavoro a catena di montaggio. Rispettiamo chi le fa, ma richiedono competenze diverse dalle nostre»), anche se a budget più grandi, si intende, non direbbe di no. «Però da grandi budget derivano grandi responsabilità. Certo ci piacerebbe strutturarci meglio, ma da outsider possiamo permetterci il lusso della sperimentazione, perché il rischio di investimento è ridotto». Meglio essere liberi creativamente che sudditi della produzione a ogni costo.

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“Lo Steinway”, la tecnica e la poesia https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/lo-steinway-la-tecnica-la-poesia/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/lo-steinway-la-tecnica-la-poesia/#respond Mon, 08 Jan 2018 09:24:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9618 «L’animazione ha avuto una storia molto ricca, ma il suo futuro è ancora più promettente». A farsi portavoce di questa certezza è Massimo Ottoni, giovane regista del corto d’animazione Lo Steinway che ha conquistato la critica soprattutto per il coraggio sperimentale e per la capacità di utilizzare più tecniche animate in grado di rimandare emozioni […]

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«L’animazione ha avuto una storia molto ricca, ma il suo futuro è ancora più promettente». A farsi portavoce di questa certezza è Massimo Ottoni, giovane regista del corto d’animazione Lo Steinway che ha conquistato la critica soprattutto per il coraggio sperimentale e per la capacità di utilizzare più tecniche animate in grado di rimandare emozioni e stati d’animo con un risultato finale profondamente poetico. Un favore che si è tradotto in una menzione speciale ai Corti d’Argento 2017 e con un premio ottenuto allo ShorTS Film Festival.

Ma come nasce l’iter de Lo Steinway? Questo progetto innovativo, soprattutto per quanto riguarda le scelte produttive italiane, si deve all’unione tra Istituto Luce Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, all’interno del quale si trova il dipartimento di animazione. Proprio qui, dopo aver chiesto agli studenti di cimentarsi con il tema della guerra letta, però, in modo diverso, è stato scelto il progetto pensato da Massimo Ottoni e dal suo team che poi hanno dato vita a Ibrido Studio, una realtà a metà tra uno studio e un collettivo di autori di animazione. Così, grazie alle suggestioni nate dal racconto omonimo di Andrea Molesini e alla capacità narrativa per immagini di giovani animatori, è nata la magia inaspettata del film. Qui la Grande Guerra e la trincea diventano quasi un pretesto per raccontare l’interiorità degli uomini. Il tutto accompagnato dalle note dolci di un pianoforte, lo Steinway appunto, che unisce oltre le divise sull’onda dei pensieri e dei ricordi.

Fin dalle fasi iniziali è stato coinvolto Andrea Molesini. Scrittore di fama ed esperto della prima guerra mondiale, ha realizzato una sceneggiatura tratta da un suo racconto. In che modo l’animazione ha dimostrato di essere il linguaggio migliore per portarlo sul grande schermo?

Oltre a essere un noto romanziere, Andrea Molesini è anche un profondo conoscitore della Storia. E i particolari inseriti in sceneggiatura lo dimostrano. Fondamentalmente, però, sono rimasto colpito nel trovarmi di fronte a un racconto di guerra atipico. Qui, infatti, non si parla di grandi battaglie e non vengono descritte scene cruenti. In sostanza viene meno proprio quello che compone l’iconografia classica del film di guerra. Tutto è giocato sull’attesa, sull’interiorità di questi soldati che aspettano mesi prima di assistere a eventi, se così possiamo dire, degni di nota. Come mi ha spiegato lo stesso Molesini quando sono andato a trovarlo a Venezia, la guerra era fatta per la maggior parte proprio da questo tempo sospeso nelle trincee. Ecco perché la cosa interessante è stata proprio andare a scavare nella psicologia dei soldati che, durante le lunghe attese, avevano tutto il tempo di indagare su loro stessi e sugli eventi in cui si trovavano coinvolti. Tutto questo racconto interiore nella sceneggiatura era affidato alle parole, ma non è altrettanto facile rendere i sentimenti e i moti interiori in immagini. Per questo motivo l’animazione è risultato essere il linguaggio migliore per rimandare questi sentimenti  in modo lirico.

still da Lo SteinwayStabilite le suggestioni e le finalità artistiche del racconto, come avete agito dal punto di vista strettamente tecnico?

Partiamo con il concepire una sorta di analogia tra attore e animatore. La persona che modella il pupazzo, lo mette in scena o lo disegna, sta facendo una performance attoriale. Non usa il suo corpo come strumento, ma trasmette determinati imput emotivi a un elemento esterno. Ovviamente si ha a che fare con un linguaggio sintetizzato e, secondo lo stile usato, è possibile rendere una gamma di emozioni in modo più rapido. Per quanto riguarda Lo Steinway, poi, abbiamo cercato di non perdere i dettagli e le sfumature che caratterizzano la recitazione in senso stretto, nonostante siano veramente difficili da ricreare in un pupazzo, visto che non è possibile contare sulla fisicità o sulla mobilità di un volto. In questo caso, dunque, il lato artistico e tecnico sono strettamente legati tra loro. Il modo in cui viene progettato un pupazzo, infatti, determina anche il modo in cui si andrà ad animarlo e muoverlo nella scena.

Andando più nello specifico, quali sono state le fasi produttive più importanti?

Prima di tutto è giusto chiarire che ci si trova di fronte a un progetto molto ambizioso, soprattutto per il panorama italiano. In secondo luogo, poi, si tratta anche della storia meno adatta da ricreare in stop motion. Lavorando con questa tecnica, infatti, ci siamo trovati a dover fronteggiare molti cambi di scena, oltre a un numero importante di scenografie e personaggi. Ogni singolo elemento è stato costruito meticolosamente. In totale al progetto hanno partecipato sette persone, tutte concentrate sull’aspetto visivo. Per quanto riguarda, poi, le diverse fasi della realizzazione, si è partiti dallo storyboard per arrivare fino alla post produzione. Il tutto per un totale di nove mesi di lavorazione. Questo tempo può sembrare molto per chi realizza dei film in live action, per un progetto di animazione, però, è veramente poco.

Quando si organizza la produzione di un film dal vivo il primo passo consiste nell’identificazione delle location e nella costituzione di un cast. Come viene tradotto tutto questo in un film di animazione in stop motion?

Il primo passo è cimentarsi nella costruzione della scenografia e dei pupazzi, in totale venti. Pur avendo già molti personaggi pronti, infatti, si è presentata la necessità di realizzare un duplicato per alcuni di loro. In questo modo, infatti, abbiamo lavorato con due set in contemporanea per avere delle inquadrature diverse della stessa scena. Per chi non conosce bene la tecnica dello stop motion, diciamo che consiste nell’animare dei pupazzi all’interno della scena fotogramma dopo fotogramma. Si tratta di un processo incredibilmente laborioso. Basti pensare che, lavorando dalla mattina alla sera, riuscivamo a terminare la giornata con circa quattro secondi di lavorato a testa. Per questo motivo, dunque, le animazioni in stop motion possono costare anche più di un film hollywoodiano con tanto di cast stellare. Nonostante siano privi di nomi famosi in cartellone e non abbiano grandi effetti speciali, basano tutta la loro qualità proprio sulla mano d’opera.

Dal punto di vista registico qual è stata la difficoltà più grande? 

La stop motion è piena di difficoltà. Ogni aspetto rappresenta un ostacolo da superare. La più grande, però, è legata all’organizzazione della produzione. È fondamentale, infatti, costruire una macchina in cui tutto ha l’obbligo di funzionare perfettamente. E con tutto s’intendono elementi come la sceneggiatura, le luci e le macchine. Questo vale anche per i film in live, ma per l’animazione è una fase particolarmente complessa, visto che non sono consentiti molti margini di errore o ripensamento.

still da Lo SteinwayNel corto avete scelto di utilizzare due linguaggi animati diversi. Da una parte, infatti, c’è lo stop motion che, a un certo punto del racconto, si fonde con il disegno classico in 2D. Come avete lavorato su questo susseguirsi di linguaggi armonizzandoli insieme? 

Essenzialmente si tratta di una scelta concettuale. Avevamo di fronte a noi una sceneggiatura con una varietà di momenti e sentimenti. Da parte nostra abbiamo deciso di creare delle ambientazioni realistiche con lo stop motion, mentre l’introspezione e il viaggio interiore di ogni soldato è stato affidato al disegno classico. Durante la pianificazione questa scelta non convinceva molto i miei collaboratori. In definitiva avevano paura che i due stili stonassero tra loro. A conti fatti, invece, è uno degli aspetti più apprezzati del film. Dal punto di vista produttivo, poi, ci ha permesso di lavorare in contemporanea. Proprio perché la stop motion richiede dei grandi spazi, e per noi non era possibile lavorare su un numero maggiore di due set, poter contare anche su una seconda tecnica da portare avanti in contemporanea ci ha salvato. Detto questo, però, ci tengo a ribadire che si tratta di una scelta ideologica più che tecnica. Era fondamentale, infatti, trovare il linguaggio lirico per evocare la musica del pianoforte in grado di unire gli uomini al di là dell’uniforme.

Importante tanto quanto la realizzazione dei personaggi è stata la costruzione delle diverse scenografie, che hanno contribuito a rimandare un forte senso di realismo.

Si è trattato di un lavoro veramente laborioso. Ogni scena, infatti, è stata creata manualmente e meticolosamente. Tutto parte dalla consapevolezza che, anche quando si mette in scena un elemento per pochi secondi, questo deve essere curato alla pari di tutto il resto. Il rasoio del capitano, ad esempio, è un oggetto grande solo pochi millimetri. Per quanto riguarda, poi, il frammento di stoffa legato al filo che si vede sventolare in più di una scena, si è lavorato aggiungendo altre specifiche. Oltre alle sue proporzioni, infatti, la difficoltà maggiore era rappresentata dalla necessità di animarlo. Per questo motivo, dunque, al momento della costruzione è stato inserito al suo interno un foglio di alluminio per farlo muovere. Da questi particolari è possibile capire come il lavoro di preparazione della scenografia ha rappresentato una delle fasi più impegnative di tutto il film. Non bisogna dimenticare, poi, che ogni singolo elemento deve essere costruito pensando già all’inquadratura. Noi, ad esempio, usavamo delle macchine troppo grandi per riuscire a entrare in alcuni ambienti nel modo migliore. Per questo motivo, dunque, si è pensato di costruire le diverse parti della trincea in modo tale che fossero rimovibili. Allo stesso modo è stato progettato il rudere all’interno del quale viene trovato il pianoforte, che è stato realizzato in proporzioni piuttosto ampie, visto che era alto come una persona. La particolarità, però, consiste, nell’averlo messo in proporzione con dei personaggi alti, più o meno, trenta centimetri. L’ultima sfida è stata rappresentata dalla resa realistica dell’esterno, ossia dell’ambiente naturale che circonda le trincee e che i soldati esplorano. Per ottenere un effetto soddisfacente abbiamo impiegato delle foto scattate nei dintorni di Torino, in particolare vicino alle Alpi, integrate poi dall’inserimento di altri elementi, come alberi appositamente costruiti. In questo modo siamo riusciti a dare l’effetto di un ambiente molto vasto.

 

 

 

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