Drammaturgo e autore: il 40enne Stefano Massini è certamente uno dei nomi più importanti del teatro oggi in Italia. Uno dei pochi, dopo Pirandello, Fo, De Filippo, rappresentati all’estero.
La sua è una scrittura incisiva, in costante contatto con la realtà, eppure di grande poesia e umanità. Uno dei suoi testi più recenti – quel Lehman Trilogy che un maestro della regia come Luca Ronconi ha diretto, sua ultima regia prima di morire, al Piccolo di Milano – è un affresco straordinario e appassionante attraverso cui leggere i nostri tempi di crisi. Oggi Massini è consulente artistico di quello stesso teatro, e da Ronconi ha preso l’entusiasmo, la curiosità, la passione per un modo di vivere la scena che non perde di vista l’utopia.
Il teatro, dunque, è il terreno d’azione, l’orizzonte di riferimento per questo scrittore classe 1975: ma ultimamente Stefano Massini si è avventurato anche nel cinema, grazie alla trasposizione filmica per mano di Michele Placido del suo 7 minuti che, in forma di spettacolo, era già stato applaudito in tutta Italia. Naturale, incontrandolo, partire proprio dall’eterna (e forse irrisolvibile) dialettica cinema-teatro. Cambia qualcosa nel pensare un testo per lo schermo o per il palcoscenico?
«Mi sono sempre occupato di teatro – risponde Stefano Massini – che ha una missione e una caratteristica diversa dal cinema. Il cinema spesso si sente legato alla dimensione “commerciale”: la presenza del pubblico condiziona nelle scelte e talvolta anche nella modalità linguistica ed espressiva del film stesso. 7minuti, ad esempio, è un testo nato per il teatro, che non ha come tema il lavoro ma una riflessione sul linguaggio: all’inizio del nuovo millennio ci troviamo sulle spalle un secolo ingombrante come il Novecento, profondamente ideologico, che ci ha lasciato dizionari molto retorici. Però parliamo di fenomeni e problemi d’oggi con quei dizionari, poco utili, perché “sfiaccati” proprio dalla retorica. Cosa succede se qualcuno si trova a discutere di un problema reale con strumenti dialettici di una retorica sindacale superata e inutile? Shakespeare dice che il sentimento è più forte delle parole d’amore. Ecco: oggi avviene lo stesso in ambito politico e sindacale. Il problema è che abbiamo solo quella retorica».
Per Stefano Massini, dunque, la questione è più profonda e strutturata: si tratta di osservare, come al microscopio, la lingua parlata, le chiavi d’accesso alla comunicazione per riflettere su quanto e come possiamo dire (e capire) il presente. L’interesse dell’autore, infatti, è per una drammaturgia non scontata, non consolatoria: «Mi piace una scrittura contraria al comune sentire» dice. Ovvero un parlar “stonato” – così lo definisce – che apra la possibilità di una «biopsia del tessuto comunicativo». Scandagliare la lingua, scavare nelle parole con le parole, inventare possibilità diverse: non è questo il teatro?
«Ricordo – ci racconta ancora– che un regista del calibro di Peter Brook disse, più o meno, che “un ortopedico, un ginecologo, un cardiologo sono tre medici, ma nessuno pretende di convertire l’altro”. Ognuno di noi sviluppa una propria forma di teatro, ma pretendiamo invece di “convertire” chi non la pensa come noi. Il mio discorso teatrale si basa su una certezza: che il teatro e la drammaturgia debbano essere inevitabilmente sperimentali. Ovvero abbiano come obiettivo il cambiamento di chi ne fruisce. Ho scritto Lehman perché sentivo tutti protestare contro l’economia che “affamava il popolo”, contro i consumatori, contro gli economisti “brutti e cattivi”. Ho pensato che servisse un testo che raccontasse un’epopea di banchieri come epopea di grande umanità, ossia l’opposto di quel che ci si poteva aspettare».
E la questione tocca anche i cosiddetti “classici”: per Stefano Massini, «certi autori, come il caustico Molière o il controcorrente Shakesperare, sono considerati “classici” e per questo collocati in una sfera per cui vengono messi in scena come “garanzia rassicurante” per il pubblico, come qualcosa che non farà male. È la tendenza, nefasta e ferale, dell’occidente industrializzato che vuole sempre essere preventivamente rassicurato: viviamo l’era della “rassicurazione preventiva”. Si tratta, invece, di lanciare delle sfide, come in 7 minuti: ho deciso di mettere in scena undici donne di provenienza culturale e economica diversa, armate di armi spuntate per affrontare problemi reali. Se abbiamo solo la fionda per andare contro qualcuno che ha l’atomica, che facciamo? Rinunciamo a combattere? In 7 minuti la violenza scatta quando mancano gli strumenti verbali».
Chiacchierando con il drammaturgo emergono mille spunti di analisi. E Stefano Massini si infiamma affrontando un altro tema che gli sta a cuore. Da quando è esploso il fenomeno dei blog e dei siti, c’è una “proliferazione di giudizi”: «Compro dei biscotti e sulla confezione c’è scritto che, come consumatore, posso esprimere il giudizio connettendomi al blog o sito. Tripadvisor o Trivago ne hanno fatto una questione redditizia. L’aver trasformato ognuno di noi in potenziale “elargitore di giudizi” ci ha reso recensori di ogni cosa in ogni momento. Questo però non ha moltiplicato, ha anzi azzerato le capacità dialettiche e argomentative di giudizio: nel 90% dei casi siamo di fronte al semplice pollice retto o verso».
Però internet e i giornali sono una fonte di ispirazione: «Da anni – racconta – sono abbonato a sei o sette giornali italiani: leggo nel dettaglio, ritaglio e archivio. È un’opera certosina. Con internet mi faccio un’idea di quel che accade fuori da me. È la meravigliosa bolla della medio-sfera, in cui il mio discorso prende forma nel Grande Discorso. La drammaturgia nasce dal rapporto di osmosi con il discorso che sta fuori. Il teatro è come un grande apparato digerente, prende il cibo da fuori, per trasformarlo in calorie, in particelle critiche, e mangiandole le trasforma in risorse di comunicazione».
A chiedergli, infine, come nascono le sue idee, Stefano Massini svela una pratica creativa davvero singolare: scrive in movimento, o meglio pedalando. «Sono incapace di scrivere da fermo: per me la parola è movimento. Dunque esco in bicicletta, ho il telefono con le cuffie e in bici recito ad alta voce. Registro per 30 o 40 km, e quando torno a casa sbobino tutto. Tutto quel che scrivo nasce dal e in movimento. Se sto fermo, vengono fuori solo cose noiosamente celebrali».