Lunghe strade desolate, pagliai seccati dal sole, casolari isolati, crepuscoli lenti. Un temporale e un’alba fredda, scossa dall’abbaiare di un cane. È la provincia russa di fine Ottocento dove prendono vita le opere di Anton Čechov e dove nasce Djadja Vanja (Zio Vanja).
Vinicio Marchioni riprende il testo del drammaturgo russo, lo dirige e lo interpreta insieme a Francesco Montanari creando Uno Zio Vanja, in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma fino al 25 febbraio.
Nell’adattamento scritto da Letizia Russo, l’azione drammaturgia cechoviana è spostata ai nostri giorni, in Italia. La vecchia piantagione piena di debiti amministrata da Ivan Petrovic Voiniskij, chiamato da tutti, zio Vanja (Vinicio Marchioni) e dalla nipote Sonja (Nina Torresi), diventa un teatro di provincia nelle zone colpite dal terremoto. Il restauro drammaturgico trasforma lo spettacolo in una sorta di specchio dove possiamo vedere riflesso il nostro paese.
Inalterata rimane una delle costanti di Čechov, il nulla. Non succede niente nel teatro di Vanja, semidistrutto dal terremoto, dove da dietro un muro squarciato spunta l’albero di un giardino desolato, forse una fievole speranza. Sogno, annichilito dall’inerzia del fallito Telegin (Andrea Caimmi), reciso dalla monotonia materna di Marija (Alessandra Costanzo) e offuscato dalle nenie della balia Marina (Nina Raia). L’unica novità sono due ospiti, il Professor Serebrjakov (Lorenzo Gioielli) e la sua giovane moglie Elena (Milena Mancini). La loro presenza smuove il torpore, cambia le monotone abitudini, scuote il Dottor Astrov (Francesco Montanari), ma poi tutto torna come prima. Due colpi di pistola a vuoto e il nulla riprende il suo posto da protagonista.
È uno zio Vanja tenero e clownesco quello interpretato da Marchioni, entra in scena in ciabatte e tuta acetata, simile a un attore di un vaudeville, comico come Čechov l’ha scritto, triste e arreso alla sua esistenza di fallito, come la modernità l’ha voluto. Al suo fianco c’è Astrov, a cui Montanari riesce a dare un’energia triviale, che sottolinea i lati più oscuri di questo personaggio, spesso rappresentato in maniera troppo elegante. Non è il dandy sofisticato e affascinante, ma il medico stanco di sfidare la morte, che la monotonia della provincia ha reso sboccato e burbero, tanto da arrivare a molestare Elena. Si ubriacano di grappa e non di vodka, Astrov e Vanja, cantano Cuore matto, riflettono sulle loro vite vuote, sulle loro menti intelligenti offuscate dal tedio e dalla noia.
Sono due comici di un teatro vuoto inchiodati a un punto di non ritorno, come un paese terremotato abbandonato per sempre. Astrov pretende risposte da un’Italia assente, occupata solamente a distruggere e inquinare le sue montagne, le sue città (chiari i riferimenti all’ILVA di Taranto, alla TAV, alla Terra dei Fuochi, alla superficialità con cui si costruisce nel nostro paese), s’indigna, urla, sbraita sentenze e poi il nulla ritorna. Fanno lo stesso Sonja ed Elena, vorrebbero tanto suonare di notte, desiderano la musica più di ogni altra cosa al mondo, eppure non osano: il vecchio professore riposa e non si può disturbare. Allo stesso modo non potranno mai osare di desiderare un amore vero.
A scuotere il tedio e l’inerzia dei personaggi di Čechov venne la rivoluzione russa, quel “si deve fare” tanto agognato alla fine arrivò. L’urlo di Munch travolse tutto, il mondo e l’arte andarono incontro a cambiamenti radicali. Il nulla venne sconfitto. Uno Zio Vanja mostra allo spettatore come ai giorni nostri quest’inerzia, questa incapacità di agire, sia tornata.
Il nostro è un paese immobile, quasi inagibile come il teatro di Vanja e i suoi artisti, i suoi intellettuali annaspano verso un futuro incerto alle prese con politici arrivisti e tronfi. Forse non resta che aspettare un cambiamento con la stessa inerte fiducia nel futuro di Sonja, e sperare che il nostro Urlo arrivi presto.