Fra i più notevoli giovani talenti registici contemporanei, Premio Hystrio Scritture di Scena e Premio Scenario 2017, nel 2020 Liv Ferracchiati ha ricevuto una Menzione speciale alla Biennale di Venezia con un ringraziamento per aver «gettato nuova luce su ciò che dobbiamo fare per vivere una vita significativa, come dobbiamo relazionarci con il mondo, come dobbiamo agire». Classe 1985, l’artista umbro ha già alle spalle una significativa carriera di sperimentazione dinamica fra le forme della scena, tutte legate da un’urgenza essenziale: un principio assoluto di presenza, una determinazione alla trasformazione, la lotta per uno stato di grazia sul palcoscenico come nella vita.
Qual è il tuo primo ricordo legato al teatro?
A 8 anni i miei mi portarono a vedere un adattamento da un romanzo di Dostoevskij. Dopo quella volta, trovando gli spettacoli che mi portavano a vedere noiosissimi, finsi di avere la febbre. Era quel tipo di teatro museale che spesso si pensa adatto agli abbonati, ma quando ero abbonato io non mi piaceva. Il pubblico è un insieme di persone intelligenti. Poi vidi Ascanio Celestini in La pecora nera. Fu uno spartiacque: il modo in cui dal foyer saliva sul palco, il fatto che si sedesse e lo spettacolo iniziasse così, senza troppi orpelli, e che parlasse come fino a un minuto prima parlava con le persone in platea, mi fece pensare che esisteva un’altra possibilità di fare teatro.
Cosa è rimasto nel tuo teatro di queste prime impressioni?
La ricerca del rapporto diretto con il pubblico: quando lo spettacolo riesce a innescarsi si stabilisce quasi una presa erotica sullo spettatore, non in senso sessuale ma nel senso che sfiora i sensi, sposta nel corpo, smuove fisicamente le persone. È facile accorgersi di quando non scatta, basta contare i telefoni in platea: ogni volta che uno spettatore guarda un cellulare un regista muore, un attore sviene, un produttore ha un malore. Ma quando c’è dialettica, succede qualcosa. Dovrebbe essere sempre così il teatro, altrimenti non è teatro.
Nei tuoi lavori non si punta il faro sul transgenderismo, è un elemento integrato nella drammaturgia. Un approccio avanti anni luce alla nostra società, magari uno scorcio di futuro possibile.
Ho notato, ad esempio, che le nuove generazioni di attori e drammaturghi che partecipano ai miei laboratori sono più consapevoli. È un tema che ci coinvolge perché tutti costruiamo la nostra identità di genere – maschile o femminile o non binaria – aderendo, o rifiutando, un modello culturale. Il discorso del genere è complesso, anche se più vado avanti e più faccio fatica a capire cosa significhino maschile e femminile di preciso.
È appena uscito il tuo romanzo, Sarà solo la fine del mondo (Marsilio), sulla storia di un personaggio transgender, dal concepimento alla morte.
Inizialmente mi dicevo: si capirà che non è un’autobiografia? In fondo quanti autori cisgender scrivono di personaggi cisgender ma non si tratta di autobiografie? Che poi anche se si volesse scrivere una biografia vera e propria ci si riuscirebbe? Io e Greta Cappelletti a distanza di anni ancora litighiamo sulle battute di Peter Pan guarda sotto le gonne; a volte io dico: questo è un mio ricordo! E lei: ma no, è mio! Probabilmente alla fine è un ricordo costruito insieme, non è vero niente. La percezione modifica ciò che è accaduto realmente, la memoria con le sue lacune fa il resto, quindi, di fatto inventi. E se quello che scrivi è organico per te e per gli altri, a volte diventa più forte di ciò che è vero. Anche nella narrativa, per me è importante che la scrittura sia performativa.
Con la tua compagnia The Baby Walk hai portato in scena una Trilogia sull’identità.
Sono tre spettacoli dai linguaggi completamente diversi. Il primo capitolo, appunto Peter Pan guarda sotto le gonne, è un lavoro a scavare: poche parole, linguaggio molto semplice e realistico. Si racconta di bambini. Sono andato proprio al parco ad ascoltare i dialoghi dei ragazzini: scarni, semplici, spesso diretti. E c’è la danza: Peter Pan è interpretato da Alice Raffaelli, una danzatrice oltre che un’attrice, che ha una cognizione scenica assoluta – una potenza. Al contrario Stabat Mater è uno spettacolo di prosa, si usano tante parole, il protagonista parla tanto perché performa la propria identità attraverso la parola. È una storia con al centro un corpo femminile che si esprime al maschile e sul diventare adulti: il tema principale è l’incapacità di tagliare il cordone ombelicale con la madre, una simbiosi che molti creano con i propri genitori anche senza essere transgender.
In Un eschimese in Amazzonia, ti esponi tu stesso sul palco.
È il terzo capitolo della Trilogia, quello più performativo. Io sono in scena insieme a un coro, ho un microfono con asta come nella stand-up comedy e improvviso praticamente tutto. Ci premeva raccontare la difficoltà di una persona transgender nella relazione con la società: dover spiegare ogni volta agli altri chi sei, scegliere di dire, o non dire, e cosa; non c’è un prontuario da seguire, quindi ti trovi a improvvisare, come avviene in questo spettacolo. Inizialmente non avevo nessun coraggio di espormi, ma poi ho capito che sul palco a parlare con il pubblico doveva esserci l’autore. E restare lì, nell’azione, in quella zona grigia in cui scatta qualcosa fra il teatro e la realtà, anche quando quello che sta accadendo non è esteticamente canonico, anche se è sbilenco.
La tragedia è finita, Platonov ha vinto una Menzione speciale alla Biennale Teatro 2020.
Platonov è uno dei rari testi che ho pensato di mettere in scena. Ho iniziato a studiare e raccogliere materiale dal 2013. In scena c’è questo Lettore che legge e rilegge l’opera di Čechov e a un certo punto interagisce con i personaggi. Volevo indagare come un’opera d’arte influisca davvero nella vita di chi ne fruisce, come qualcosa di profondo ti agganci, ti sposti, crei in te una trasformazione interiore e come esci da quell’esperienza, se sei cambiato. Platonov ha avuto quest’effetto su di me, il mio obiettivo era provare a riprodurlo.
Quali sono gli autori di riferimento di Liv Ferracchiati?
Mi appassiona particolarmente la letteratura russa: Turgenev, Lermontov, Dostoevskij. Per quanto riguarda il cinema sono cresciuto con Woody Allen e Nanni Moretti, che ora sento più distanti ma hanno contribuito molto alla mia visione ironica della vita, poi Truffaut, Cassavetes, Kaurismäki. Con le serie ho un problema, non riesco a vedere neanche la prima puntata: sono schiacciato dalle aspettative che quelle 8, 9, 10 stagioni hanno su di me. Mi sono appassionato soltanto a Trotsky, anche se forse l’abbiamo vista solo io e la madre dell’attore che fa Trotsky.
A cosa ci serve il teatro nel 2021?
A teatro, c’è un’energia tra chi fa lo spettacolo e chi lo riceve. Può sgretolarsi e cadere tra la prima fila e il palco, oppure invadere la platea, e poi tornare indietro e investire gli attori, che la riflettono a loro volta… questa dialettica tra attore e spettatore, che è il quid del teatro, secondo me nel 2021 dovrebbe servire a scuotere le persone e portarle a essere attive. Nel Platonov, Čechov si chiede: «perché non viviamo come avremmo potuto?». La potenza dionisiaca del teatro serve a questo: infondere vitalità, portare le persone a vivere come, invece, potrebbero.