Ci vorrebbero pagine e pagine, libri interi – e ce ne sono – per raccontare l’avventura artistica di Marco Martinelli.
Con Ermanna Montanari, una delle più grandi attrici teatrali italiane, e con un gruppo affiatatissimo di persone amiche, Marco Martinelli ha creato il Teatro delle Albe, oggi Ravenna Teatro, che dalla città romagnola si è imposto come una delle realtà più vive della scena nazionale e internazionale. Un teatro antico e contemporaneo, il loro, attento a temi che abbracciano le inquietudini del presente con scritture originalissime, oppure che rendono ipercontemporanei i grandi classici. Ecco, così, che dalla drammaturgia creata da Marco Martinelli scaturiscono spettacoli che possono raccontare l’epopea di Marco Pantani oppure un Molière che si impregna dei sapori e dei suoni di Scampia.
Oggi Marco Martinelli, raggiunta una “maturità” artistica che è consapevolezza e lucidità di sguardo, debutta al cinema. Si è “inventato” sceneggiatore e regista di un film che prende vita, quasi a mo’ di spin off, da un bellissimo spettacolo teatrale dedicato alla figura di Aung San Suu Kyi, la coraggiosa leader birmana, impegnata nella lotta per i diritti umani tanto da meritare il Premio Nobel per la pace nel 1991.
Naturale allora chiedere a Marco Martinelli cosa abbia significato per lui debuttare dietro la macchina da presa, firmare un’opera prima a sessanta anni. «È stata un’esperienza entusiasmante, in ogni momento, dalla sceneggiatura alle riprese al montaggio. Ho letto da qualche parte che i calligrafi dell’antica tradizione cinese, arrivati alla maturità, si cambiavano il nome: era un modo per rinascere, per rinnovare la propria arte. Così è capitato a me, dopo quarant’anni di teatro: trovarmi sul set è stato come cambiare nome».
In questi anni Martinelli ha elaborato un modo di comporre con i suoi attori per il palcoscenico che lo ha reso sicuramente riconoscibile. E trasporre un’opera dalla scena al set ha comportato, racconta il regista, anche un cambio di stile: «Certo la scrittura cambia, e non tanto per l’alchimia con gli attori, ma per il fatto che quando scrivi per la scena hai tutta l’aria attorno, quando scrivi per il cinema devi pensare che tutto sta racchiuso in quel “quadro” che è il fotogramma. A teatro lo spazio sembra limitato, in realtà ha l’infinitezza del qui e ora, del nostro essere di carne, attori e spettatori, il fiato sul collo. Al cinema, invece, le potenzialità che dà la macchina di catturare tutti gli spazi del pianeta, si imprigionano in quella “finestra”».
Ma cosa spinge a scrivere per il teatro o per il cinema? Per Marco «è sempre una domanda oscura che porta a scrivere, ha a che fare con le nostre viscere: e questa domanda rimbalza sui fatti che ti accadono, o che accadono agli altri che “sono” te, talvolta anche “più te di te”. Che io scriva di derelitti davanti a una slot machine, di morti nel mediterraneo, di come è stato ammazzato un campione come Marco Pantani, di come una donna in Birmania ha resistito agli arresti per vent’anni, la domanda è sempre quella, ha a che fare con Dioniso, dio allo stesso tempo vittima e carnefice: chi sono io? Cos’è questa violenza nera che mi attraversa? E perché in me, nonostante tutto, qualcosa spinge sempre verso la luce?».
Dioniso, la vecchia divinità dell’ebrezza e del teatro, il nume tutelare di quanti, in qualsiasi modo, fanno teatro, torna spesso nei racconti di Marco Martinelli. E torna soprattutto quando questo regista, con il suo gruppo, ha a che fare con gli adolescenti: «da molti anni, infatti, il Teatro delle Albe è impegnato in una originalissima “non-scuola”, una forma speciale di teatro fatto con ragazzi e ragazze adolescenti». Esperienza iniziata a Ravenna, e poi replicata con enorme successo in vari luoghi del mondo, spesso segnati da serie difficoltà: da Scampia, a Napoli, fino a Diol Kadd in Senegal; da Milano a Chicago, dalla Francia al Brasile. È possibile allora insegnare la passione per il teatro? «La passione non s’insegna – risponde Marco – ognuno di noi sa che cos’è, è quella che ci fa vivere e morire. La passione è ardore, incendio, e insieme patimento». Dunque come vi siete rapportati ai ragazzi turbolenti di mezzo mondo? Come avete coinvolto tanti giovani e giovanissimi? «I bambini e gli adolescenti sono il sacro. Sono l’oro del mondo. Non cadiamo nell’equivoco dei cellulari sempre accesi, quella non è che la superficie, la schiuma delle onde. Dobbiamo saper guardare oltre, noi adulti, e leggere dietro quell’apparenza, là in fondo pulsano cuori assetati di felicità e di assoluto».
Molti dei ragazzi coinvolti nelle prime “non-scuole” ravennati oggi sono parte integrante della compagnia di Marco ed Ermanna, oppure lavorano altrove. Altri non hanno continuato a fare teatro o cinema, eppure la passione cova ancora dentro di loro. Allora, intanto, aspettiamo il film di questo debuttante dalla lunga storia.
Nel cast, oltre a Ermanna, anche Sonia Bergamasco e Elio De Capitani, a raccontare – partendo dal punto di vista di sei bambine – una storia birmana: «Quando si debutta a sessant’anni – conclude Martinelli – si ha negli occhi la storia del cinema, quella di cui ti sei nutrito fin da quando eri ventenne, da Dziga Vertov a Kaurismaki, passando per Fellini e Pasolini, in un immaginario ispirato ad autori come Derek Jarman o Sergej Iosifovič Paradžanov per la loro visionarietà e ritualità: un cinema d’arte e poesia che per decenni ha nutrito il mio teatro».