Vitale, concreto, coraggioso, Illoco Teatro è un atto politico di fantasia, una ribellione inesausta all’appiattimento delle narrazioni. Artisti, attori, insegnanti, guerriglieri dello spazio teatrale e sociale. È riduttivo costringere nelle definizioni la compagnia fondata nel 2011 da Annarita Colucci – direttrice artistica – e Roberto Andolfi – regista.
Dove vi siete incontrati?
A: Ci siamo incontrati all’Accademia internazionale di teatro di Roma – ex Circo a Vapore – che ci ha dato una formazione spiccatamente legata a Jacques Lecoq, contrapposta alla pedagogia dell’attore “esecutore” e orientata a formare artisti. Siamo attori fisici, corporei, gestuali. Nel teatro, dice Guido Di Palma, devi sapere «a chi sei figlio», anche se poi ci fai a pugni, lo rinneghi, vai a cercare un’altra casa, devi sapere da dove vieni.
R: Ad esempio io so che questa modalità di lavoro onnivora, dolorosa fino a perdere le forze, è figlia della direttrice e insegnante Silvia Marcotullio.
Siete scomodi nelle etichette del teatro “per bambini” o “per adulti”.
A: Sì. Cosa vuol dire teatro “per bambini”, “per ragazzi”, 3-6 anni, 9-12…? Il ritmo di una narrazione è universale. A qualunque età si può entrare, sedersi e prendere qualcosa. Cerchiamo di porci nella condizione dello spettatore; non tanto “capirà?”, ma “stiamo raccontando qualcosa?”.
R: Questo è Lecoq: uno sguardo opposto che ti spinge a chiederti: quello che sto facendo comunica al pubblico, oltre che a me stesso? Il problema è che gli adulti pensano che un bambino non debba affrontare “temi delicati”, che non possa ascolta la Primavera di Vivaldi perché è troppo complessa, e il risultato è che i bambini si ritrovano a vedere spettacoli con un attore con una maschera di spugna in testa e una brutta musica da pianola…
In U-mani costruite un dispositivo fra cinema e teatro.
R: Siamo partiti dalla storia di un bambino a cui si rompe la televisione – era nata questa suggestione durante il lockdown – e con una telecamera analogica e un proiettore rotto abbiamo iniziato a giocare al cinema, prendendo inizialmente una marea di cantonate! Ci sono una serie di piccoli set sul palco, nei quali i piccoli personaggi – la protagonista è, letteralmente, una mano – vengono micromanipolati dagli attori che si muovono sul palco. Tutto avviene live, io monto quello che girano tre camere in diretta durante lo spettacolo, cercando di costruire il flusso di un film proiettato sullo schermo. Nell’inquadratura a volte si vedono le braccia e le facce degli attori, ma non è un errore; serve a riportare lo spettatore lì, insieme agli attori, a partecipare a qualcosa che sta avvenendo in quel momento.
Il tema della “perdita” ricorre in tutti i vostri lavori.
A: È il tema che ci accompagna per tutta la vita: perché perdiamo qualcuno, perché perdiamo dei luoghi, perché perdiamo delle abitudini, quella parte di noi non esiste più. Anche la crescita è in qualche modo la morte di una parte di noi stessi.
R: È centrale in Catch Me, che è uno spettacolo scritto a partire da dei nastri ritrovati, in cui una persona aveva registrato i propri sogni. Da questi sogni è evidente che aveva perso il padre da bambino e, mentre li ascoltavamo, questa perdita del padre ha acquisito per noi il valore di una perdita delle regole e delle certezze in cui ci siamo riconosciuti.
Dove avete trovato i nastri con i sogni registrati?
R: È una bella storia! Per la scenografia di Lumen, Anna aveva trovato un baule da un rigattiere, che ci ha detto di portarlo via con tutto quello che c’era dentro. E dentro c’era un mucchio di roba, tra cui una serie di nastri, su cui erano registrati 106 sogni. Io sono completamente impazzito. Volevo metterne in scena 7, legandoli a degli oggetti. Sembrava un’idea molto chiara, ma più lavoravamo su quel materiale, più gli attori ci entravano in contatto, e più andava sfumando. Perché mi accorgevo che di Ennio, l’uomo che ha registrato questi sogni, non sapevamo nulla. Ma scoprivamo anche che i sogni sono l’universalità per eccellenza. Ad esempio, in un sogno lui cerca di parlare in italiano, ma parla in tedesco e il padre non lo capisce: tutti si possono riconoscere in questo, cioè nell’impossibilità di comunicare coi propri genitori. Quello che è successo è che ciascuno degli attori ha cominciato a costruire il proprio Ennio. E litigavano fra loro! Ennio non è così, è cosà, ha amato solo lei, non è vero… infine, è venuto fuori uno spettacolo che parla di quattro Enni diversi, che servono soprattutto a loro stessi per dialogare, per assolversi, per capirsi, per perdonarsi.
A: Lo spettacolo stesso è, in parte, un racconto di ciò che è stato il processo. Parte del testo è infatti una messa in scrittura di quello che veramente accadeva alle prove, in cui ci attaccavamo, difendevamo il nostro Ennio, poi alla fine eravamo d’accordo, ci emozionavamo, ci proteggevamo…
Avete rigenerato una sala nello spazio sociale Spin Time Labs a Roma.
A: Siamo arrivati a Spin Time nel 2017, cercavamo uno spazio per provare. È iniziato un dialogo con le realtà del palazzo e piano piano è diventata la nostra casa. Dopo un anno abbiamo chiesto se c’era un piccolo spazio di cui ci potevamo prendere cura, e ci hanno portato al piano meno due; da lì è nato lo spazio Almenodue, un vecchio garage che abbiamo rigenerato affittando la sala per le prove alle compagnie e reinvestendo gli incassi per cambiare il pavimento, ritinteggiare, fare lavori strutturali, murari, mettere le porte, eccetera. Poi insieme al collettivo Spin OFF e all’Orchestra Notturna Clandestina abbiamo trasformato la vecchia sala convegni in auditorium e abbiamo messo in piedi una stagione teatrale – con nomi come Cosentino, Sinisi, Musella, completamente volontari – nel frattempo il giornale Scomodo ha rigenerato un’area molto grossa, e ora la nostra sala è circondata da un bar, una sala studio, una biblioteca, e il piano meno due è diventato un luogo culturale.
Qual è la cosa più importante che insegnate ai vostri allievi?
A: Lo studio teatrale è allenamento, è un’attitudine al fallimento che è propria del teatro. Spesso i più giovani vivono il fallimento come un rifiuto: “Questa cosa io non la so fare”. E invece andare a fondo e scoprire che quella cosa la sai fare, e magari meglio di come te la sto insegnando, è solo una questione di starci, in quella cosa.
R: È qualcosa di non razionale. È coordinazione e ritmo. Per questo all’inizio ci si scontra così tanto con i propri limiti. Gli allievi arrivano e non sanno recitare. Dopo dieci giorni di lavoro, sono consapevoli di non saper recitare. A quel punto stanno peggio – è successo anche a noi – ma una volta che qualcuno ti mette di fronte agli errori che fai, hai la possibilità di fare un salto. Però devi smettere di chiederti: l’ho fatto bene o l’ho fatto male? Quello che conta è se quello che stai facendo traduce sul palco quello che davvero vuoi fare.
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