«L’idea che la cultura non è una parte integrante del nostro Paese, e che con la cultura non si mangia, ci è entrata in testa, ci ha colonizzato». Così Giovanni Ortoleva, regista fiorentino neanche trentenne, già premiato come «promessa» nel 2018 con una menzione speciale alla Biennale College, ha presentato il suo nuovo lavoro alla Biennale Teatro 2020. Estremamente lucido, stratificato, dinamico, il teatro di Ortoleva rifiuta di romanzare il mondo. Piuttosto, invita tutti noi a ricominciare «a parlare. Non individualmente, cercando di farci le scarpe a vicenda, ma insieme, come gruppo, perché in teatro da soli non si può fare niente».
Come hai incontrato il teatro?
Al liceo andai a vedere un amico che faceva Mercuzio in Romeo e Giulietta, e in scena morì urlando come un pazzo, mi si ficcò in testa. Il resto dello spettacolo era un incubo, uno Shakespeare fatto in una parrocchia, ma lui ci sconvolse tutti, ci fece venire la pelle d’oca. Né io né i miei compagni riuscivamo a credere a quanto era stata intensa quell’interpretazione di un nostro amico che vedevamo tutti i giorni, e questa cosa mi colpì profondamente: la possibilità di diventare un’altra persona sul palco, di arrivare a qualcosa che poteva scuotere un’intera platea, mostrare qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato. In quel momento ho sentito un profondo fascino. Per anni ho cercato di capire, e credo che sia nato lì il mio desiderio di avvicinarmi al teatro.
Sei reduce da un debutto alla Biennale Teatro 2020. Come sei arrivato fin qui?
Dopo il liceo avevo chiaro che dovevo andarmene, quindi mi iscrissi all’università a Trento per studiare psicologia cognitiva. La fuga è sempre stata una cosa in cui sono un campione: non sappiamo quello che vogliamo ma dove non vogliamo stare lo sappiamo bene. Sono fuggito anche da Trento, nel 2013. Avevo ventun anni, scappai a Roma per seguire due laboratori, uno con Fiorenza Menni e uno con Antonio Latella al Valle occupato. Fu un’esperienza molto intensa, ero il più piccolo, dormivo lì, e capii che era ciò che volevo fare. Nel 2014 sono entrato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi. I miei genitori si sono ripresi da questa decisione forse l’anno scorso, quando mi hanno preso in Biennale.
Il tuo primo lavoro, Oh little man, è un monologo sul capitalismo e sulla scomparsa del tessuto sociale.
Sì. È un lavoro del 2018 con Edoardo Sorgente. È la storia di un broker finanziario che mentre è in nave ha un’illuminazione: deve vendere tutto prima che sia troppo tardi, perché sta per esplodere una bolla finanziaria. Solo che non riesce a mettersi in comunicazione con la terra. Quindi passa questi 45 minuti di spettacolo a impazzire. Alla fine la nave affonda, e il pubblico deve decidere se salvarlo o no, dandogli o non dandogli un salvagente.
E il pubblico cosa decide di solito? Lo salva o no?
Lo salva sempre. E poi se ne pente. Si rende conto di aver salvato un individuo terribile. Volevo indagare i meccanismi di empatia, e ho scoperto che anche se nella vita, forse, le persone si comporterebbero diversamente, in un contesto come il teatro sono portate a fare “il bel gesto”. È difficile per una comunità intera chiudersi, dire di no. Ed è interessante quello che succede dopo, quando la voce dice: «complimenti, avete salvato un capitalista», e le televisioni in scena mostrano immagini di disastri ambientali. Gli spettatori si arrabbiano, si sentono presi in giro. Ma nessuno riesce mai a tenere una linea dura di fronte a un personaggio che ha dichiarato esplicitamente di essere pronto a passare sopra qualsiasi cosa per il proprio profitto.
Per la Biennale hai messo in scena un testo di Fassbinder.
Rainer Werner Fassbinder è stato un mio riferimento culturale per anni, e questa è stata l’occasione di incontrarlo. I rifiuti, la città e la morte è un testo del 1975 che scrisse quando aveva la mia età, durante un viaggio in aereo. Parla di una giovane prostituta che si chiama Roma, del suo rapporto con Dio e della sua incapacità di vivere tra gli uomini. È un testo sull’antisemitismo che usa gli stereotipi dell’antisemitismo, e per questo è stato a lungo scambiato per un testo antisemita e censurato. Portandolo in scena mi sono accorto che anche adesso la critica continua a osteggiarlo. Io credo, al contrario, che sia il più bel testo di Fassbinder. Un autore utopico nel profondo – il desiderio di un mondo dove non ci si sfrutta era dietro ogni sua opera – ma allo stesso tempo capace di scendere a patti con ciò che aveva intorno.
I tuoi ultimi due spettacoli, Saul e I rifiuti, la città e la morte, raccontano storie di devozione.
Mi interessa il rapporto con ciò che è “più alto”. Il Saul, che con Riccardo Favaro abbiamo tratto liberamente dall’Antico Testamento e da André Gide, è la storia di un Re che viene abbandonato da Dio. Allo stesso modo, I rifiuti, la città e la morte di Fassbinder è la storia di una ragazza che si sente abbandonata da Dio. Crede, crede, crede, ma un certo punto si chiede: «Dio, perché ci fai questo?». Sono ateo, ma ho un grande rispetto per alcuni aspetti della tradizione cristiana. L’umanità, la collettività, per me, è l’alto. Immaginare qualcosa di più alto ci aiuta a vivere con gli altri, perché di fronte all’alto siamo tutti degli zeri. E allora possiamo fare qualcosa insieme.
Cos’è il teatro?
È un comportamento verso cui tendiamo, è un’abitudine, è come correre o nuotare. Diciamo tanto che il teatro è morto, ma se morisse davvero sarebbe un problema serio. Io credo che il teatro sia inevitabile per noi. Quindi cerchiamo di farlo sopravvivere, nonostante chi lo vuole far morire dall’interno, cioè chi continua a farlo senza crederci più. È quello il vero problema, non il pubblico diffidente, che si convince se gli fai vedere qualcosa di onesto, senza strizzargli l’occhio, affondando direttamente nella materia, evitando la “nebbiolina” del contemporaneo. Il teatro è un’azione indiretta sul mondo. Non credo che possa “cambiarlo”, ma credo che possa modificare la percezione e la sensibilità delle persone. A Berlino c’è un parco con un orto di cui ognuno può coltivare una parte. Condividerlo fra cittadini è un atto pubblico di responsabilità che chiede, insegna e pretende dalle persone di rispettare il lavoro altrui, qualcosa di molto più utopico di un “bello spettacolo”. Ecco, se mai riuscirò a fare qualcosa di simile con il mio lavoro, a creare un senso di rispetto, di amore per l’altro come fa quell’orto in un parco di Berlino, sarò molto felice.