Fabio Condemi, da Pasolini a De Sade
Giovanissimo e straordinariamente colto, persona dalla mitezza inconsueta e insieme autorevole, il regista Fabio Condemi si è segnalato al panorama nazionale nel 2017 con una menzione speciale alla Biennale di Venezia. La sua profondità di sguardo si misura spesso con testi e autori dalla letteratura, da Walser (con il premiato Jakob Von Gunten), a Joyce, a Pasolini e De Sade (La filosofia nel boudoir).
Come ti sei avvicinato al teatro?
Ho iniziato a Roma studiando Lettere, poi al Teatro Stabile di Genova per un anno, come attore. Mentre ero lì feci il provino come regista per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico: decisi di portare l’unico testo teatrale di James Joyce, Esuli, un omaggio a Ibsen. In Accademia ho fatto incontri importanti: Lorenzo Salveti, allora direttore, Manetti, Cirillo, Paolo Terni che era un grandissimo musicologo. Infine Giorgio Barberio Corsetti, per me un’autentica rivoluzione: ci propose di lavorare liberamente sui testi di Pasolini. Lo ammirai molto per la grande libertà che ci dava. Dopo l’Accademia chiesi di fargli da assistente, e da lì è cominciato un altro percorso importante, dal 2015 ho seguito molte opere liriche con lui.
Il tuo primo spettacolo è stato un testo di Pasolini.
Sì: Bestia da stile, un’autobiografia poetica traslata nella Repubblica Ceca, un diario pieno di appunti e riferimenti culturali scritti nell’arco di dieci anni. Insomma un testo quasi impossibile da mettere in scena e fu proprio la ricerca di un linguaggio per rappresentarlo ad appassionare me e gli attori: il grado di vibrazione del testo sul palco era incredibile.
Qual è il metodo di lavoro di Fabio Condemi?
Disegno molto. Non benissimo, ma sto migliorando! Ho bisogno di contemplazione, di trovare un silenzio dentro di me in cui le parole di uno scrittore cominciano a tradursi in immagini. Non lavoro con le improvvisazioni, credo piuttosto nella grande libertà dell’immaginazione, nella meditazione sulle cose. Poi, nel momento in cui qualcosa si è formato nella mia testa, lo metto alla prova assieme agli attori, in un dialogo aperto.
È stato questo il processo anche per Jakob Von Gunten?
Robert Walser è un autore particolare. Si è rinchiuso volontariamente in un manicomio a Herisau in Svizzera, dove è rimasto fino alla morte, avvenuta la notte di Natale del ’56. Jakob è ambientato in un istituto in cui si impara a servire, parla dell’estasi dell’obbedienza contro un’idea di libertà generica. Ci siamo detti che, per lavorarci, tutti noi dovevamo essere schiavi di qualcosa, anche io come regista: ci siamo chiusi in una stanza con una dedizione da servi, lavorando su gesti a vuoto, così sono nate le geometrie alla base dello spettacolo.
Che rapporto hai con il cinema?
Mi piacciono i registi che hanno uno sguardo nuovo, limpido, sulla realtà. Andrej Tarkovskij, Sergei Parajanov, Peter Greenaway. Un regista a cui penso molto è Jonas Mekas, del New American Cinema Group. Diceva di essere un “filmer” e non un “film-maker”: i suoi film sono lunghissimi diari filmati, quasi tutti dedicati ai fratelli Lumière. La qualità del suo cinema che trovo incredibile è questa capacità di sguardo che si concentra tutta nella scelta dell’inquadratura, una contemplazione che allo stesso tempo ci parla interiormente ed è un atto politico.
Il tema dello sguardo emerge nel tuo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia.
In un’epoca saturata dalle immagini, per noi che ci occupiamo di rappresentazione, il tema dello sguardo, del saper guardare, mi sembra importante. Lo spettacolo è un omaggio a Pasolini che parte dalle sue sceneggiature: una scrittura al limite tra letteratura e cinema.
Di nuovo una prospettiva trasversale sulle arti.
È come per il lavoro con l’opera lirica: si tratta di sentirsi esuli ma in senso positivo. Questo mi dà la possibilità di partire ogni volta da un grado zero. Ho bisogno di stare nel limite tra la rappresentazione e ciò che non è rappresentabile. È qualcosa che ha a che fare con la chimica, quasi: un rapporto tra il vuoto dell’inizio, il testo, il palco, me che ci lavoro. C’è uno scritto che amo molto di Thomas Eliot, Tradizione e talento individuale, che parla proprio del rapporto tra tradizione e creazione: il poeta deve agire come un reagente chimico.
A cosa serve il teatro?
È difficile dare una risposta. Il teatro funziona per illuminazioni. È il suo essere effimero che offre la possibilità di questi momenti. È un luogo mentale che rimane e agisce dentro la mente dello spettatore: il segno teatrale è un sassolino che crea richiami infiniti. In Jakob Von Gunten a un tratto il protagonista immagina di essere nella campagna di Russia con Napoleone e dice che sarebbe un soldato perfetto, che diventerebbe una rotellina nell’ingranaggio di qualcosa di più grande di lui: non vedrebbe mai Napoleone, ma sarebbe lì e terrebbe la testa china per un imperatore che non esiste. Quello che noi facciamo è questo, il teatro è così: è chinare la testa a un dio nascosto.
Leggi l’intervista completa a Fabio Condemi a pag. 20 su Fabrique du Cinéma n. 28