Con energia inesauribile, intelligenza e grazia narrativa, Alessandro Blasioli trascina alla luce del palcoscenico il nostro vissuto nazionale come un cantastorie dell’epoca moderna, chiamando alla ribalta fatti e personaggi protagonisti delle vicende politiche italiane per raccontarci con occhi nuovi gli ultimi cent’anni del nostro Paese, e l’Italia in cui viviamo oggi.
La tua prima produzione scritta, diretta e interpretata è Questa è casa mia.
Mi sono preso due anni per scriverlo. In accademia avevo incontrato il teatro di narrazione. Avevo visto Marco Baliani che, seduto su una sedia, riusciva a mostrarti una carica di cavalli al galoppo solo con le parole. Ero rimasto folgorato. Il fatto che una persona, da sola, potesse coinvolgermi, emozionarmi, ricordarmi delle cose importanti, mi ha fatto dire: lo faccio pure io. Voglio farlo. Devo farlo. Questa è casa mia è la storia di un’amicizia fra due ragazzi, all’indomani del terremoto dell’Aquila del 2009. Attraverso il loro rapporto si va a ragionare su tutte le magagne avvenute durante la tentata ricostruzione: a tutt’oggi alcune zone della città sono ancora ferme al 6 aprile del 2009, per non parlare dei piccoli paesi. Il mio tentativo è raccontare i paradossi di questa tragedia in maniera ironica, dissacrante. Volevo creare uno spettacolo che ti fa sganasciare dalle risate e il minuto dopo ti prende a sberle, per lanciare un urlo di rabbia, di voglia di cambiare. Che altro deve succedere, prima che qualcuno reagisca e si pretenda una legge per contrastare lo sciacallaggio post-sismico?
Perché hai scelto di occuparti del terremoto dell’Aquila?
Lo spettacolo ha una forte matrice autobiografica. La prima parte si svolge a Silvi Marina, città della costa abruzzese dove io assieme al mio compagno Antonio – il Paolo della storia – abbiamo passato tutte le nostre estati giocando, divertendoci, ogni estate, tutta l’estate, tranne quell’estate. Nel 2009 ho trovato Antonio ovviamente cambiato. Gli aquilani, a Silvi Marina, quel 2009, erano zombie. Messi negli hotel della costa, o nelle seconde case, stavano tutti lì, senza sapere cosa fare del proprio futuro. Antonio aveva entrambi i genitori senza un lavoro. Li vedevi in bicicletta, con il vuoto dentro, non avevano niente più che il proprio corpo. Lui, a 16 anni, si era ritrovato così, senza nulla. Questa cosa mi colpì, mi colpisce ancora. Nel 2013 andammo con la classe all’Aquila, e i miei compagni erano sconvolti, non sapevano che la situazione fosse ancora questa. Vederli sconvolti mi ha tramortito: ma come, non lo sapevate? Io, da abruzzese, lo sapevo. Mi sembrò un’ingiustizia. Mi sono chiesto: cosa posso fare io? E quello che posso fare io, nel mio piccolo, è raccontare. Dopo le passerelle dei politici restano gli alloggi costruiti in fretta e furia e crollati dopo l’inaugurazione, le intercettazioni telefoniche agghiaccianti di chi ha lucrato sul disastro. Ho sentito la necessità di portare in scena non il dolore di un terremoto, ma il dolore di un abbandono.
In Sciaboletta racconti la fuga del Re Vittorio Emanuele III durante la seconda guerra mondiale.
Sciaboletta nasce da un’esigenza di memoria politica. Quando l’ho scritto, nella mia zona facevano le ronde notturne per picchiare gli stranieri. Riuscivo a fare talmente tanti collegamenti con l’ascesa del fascismo che mi sono detto che era necessario ribadire il passato, per non sbagliare nel presente. Ho preso la prospettiva del Re e mi sono immaginato la sua fuga per salvarsi dai tedeschi, lasciando allo sbaraglio l’esercito. Una fuga che assieme ad altre decisioni ha portato a una delle pagine più nere della nostra storia. Nello spettacolo, però, il Re ci chiede: «Sì è vero, Mussolini l’ho voluto io, ma voi perché l’avete applaudito così tanto? Perché vi siete messi pure voi a chiedere a lui di risolvere la situazione? Non potevate volere un po’ più bene al vostro piccolo Re?». Quando assistiamo a fenomeni di violenza come una ronda, dobbiamo pensare a quali sono le conseguenze. Altrimenti, come in quella poesia di Brecht – Prima di tutto vennero a prendere gli zingari – alla fine verranno a prendere noi perché non sarà rimasto nessuno a protestare.
Che cos’è il teatro?
Il teatro è uno strumento potentissimo, che ha una peculiarità insostituibile: il qui ed ora. Il fatto che quando mi vedi sudare in scena, sudi con me. A teatro si dovrebbero fare le sedute comunali! Perché è una agorà. Si può discutere del futuro di una comunità anche attraverso la fruizione di uno spettacolo. La funzione del teatro deve essere quella ricordarci che viviamo in un contesto che si muove anche in base alle nostre scelte e alle nostre spinte. Andiamo in sala per divertirci, ma anche a prendere pugni nello stomaco. Usciti da lì, non dovremmo essere solo allegri o annoiati, ma incazzati, mossi da qualcosa. Il teatro deve farti vivere una tragedia per permetterti di vivere una catarsi, che possa cambiare qualcosa nel piccolo di ciascuno di noi.
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