31 giorni di riprese; 138 di postproduzione; 1372 tagli. Il lungometraggio d’esordio di Lorenzo Corvino è un’operazione cinematografica insolita, coraggiosa e sicuramente fuori dagli schemi per il panorama italiano. Wax – We are the X, non a caso, si è guadagnato il neologismo di “Self(ie) Movie” in virtù della particolare tecnica di ripresa con cui è stato realizzato. La pellicola, infatti, è stata interamente girata in soggettiva, consacrando anche lo smartphone a strumento di narrazione filmica a tutti gli effetti. Il regista ha scelto questo stile inedito per raccontare la cosiddetta ‘generazione X’, quella di chi è nato tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, schiacciata tra aspirazioni frustrate e occasioni inesistenti.
«Wax è molto autobiografico – ammette Lorenzo Corvino – ispirato da una profonda delusione professionale. Ero stato scelto per girare il mio primo spot grazie a Fabio Zamarion, il direttore della fotografia di Tornatore, che aveva fatto il mio nome al produttore. Lo spot però fu interrotto dal cliente in fase di riprese. Vi avevo investito tempo ed energie ma, ovviamente, mi son sentito dire che “mi sarei rifatto coi lavori successivi”. Ho deciso di raccontare un’esperienza simile alla mia al cinema, attraverso parole, emozioni e sentimenti. I modelli a cui mi sono ispirato sono Y tu mama también, Jules et Jim e The Dreamers. Quest’ultimo non è un film che amo particolarmente ma mi affascinava l’idea di un’unione che genera la forza, del totale superiore alle singole parti. Questo è il messaggio più importante e infatti, in Wax, il tema della gelosia è completamente assente».
Quali sono state le sfide principali in fase di realizzazione?
Realizzare un crossover di genere senza perdere le fila del discorso. Wax fonde animazione, mockumentary, road movie, thriller, comicità slapstick, dramma sociale e disaster movie. Con così tanta carne al fuoco, non è semplice mantenere una compattezza. Il film, inoltre, è sincopato e frammentato: si ricorre spesso al jump cut, tanto caro alla Nouvelle Vague. L’idea di girare in soggettiva è nata da subito, assieme allo script, ed è una metafora della frammentarietà della visione e delle prospettive dei protagonisti. Volevo che lo spettatore raccogliesse, nella seconda parte, i frutti dei vari elementi seminati nella prima mezz’ora; che si sentisse attivo, coinvolto e lusingato. Il pubblico è parte integrante della storia: quel “noi” del titolo comprende anche loro. Altra notevole difficoltà è stata trovare una distribuzione. Inizialmente nessuno credeva nel mio progetto per via delle tecniche scelte (l’iphone, nel 2013, non era ancora uno strumento di ripresa a tutti gli effetti), delle location, del cast internazionale… La ricerca è durata due anni, uno dei quali trascorso a portare Wax ai festival di tutto il mondo con ottimi risultati. Pochi giorni fa ho saputo che siamo nella rosa dei vincitori della 49a edizione del World-Fest di Houston, kermesse in cui fu premiato anche il primo cortometraggio di Steven Spielberg. Noi sapremo di che riconoscimento si tratta il 16 aprile.
Cosa ti rende maggiormente soddisfatto del risultato finale?
La coesione tra gli attori, nostro obiettivo sin dai casting. È un film di tanti esordienti e volti nuovi e anzi, una volta tanto siamo noi italiani a dare visibilità ad attori stranieri. Ho voluto fortemente un’attrice francese come protagonista per dare genuinità ai dialoghi, sottolineare il confronto/scontro con gli attori italiani. Senza attriti linguistici, i momenti più forti si sarebbero ridotti a un vicendevole piangersi addosso. Era fondamentale la presenza autentica di un’altra cultura. Gwendolyn Gourvenec, la protagonista, è una delle venti attrici che son venute dalla Francia a fare il provino completamente a spese loro. Noi non credevamo che sarebbe successo, ma chi è veramente motivato lo fa, a rischio e pericolo di non essere scelta. Gwendolyn ha dimostrato di possedere la tenacia che deve animare un’esordiente. Altre attrici si sono talmente appassionate al progetto che hanno accettato ruoli minori. Mi ha colpito l’assenza di competitività, il sincero lavoro di squadra e l’alchimia tra gli attori e la troupe. Anche i mostri sacri Rutger Hauer e Jean-Marc Barr si sono messi in gioco con grande umiltà e per passione, pretendendo da me lo stesso atteggiamento nei loro confronti.
In una scena del film, Livio (Davide Paganini) e Joelle (Gourvenec) discutono animatamente sulle ragioni della condizione disagiata vissuta dei trentenni di oggi. La ragazza accusa gli italiani di pigrizia mentre lui dà la colpa al sistema. Tu a quale delle due visioni ti senti più vicino?
Forse la mia è una risposta prevedibile, ma la verità è che entrambi veicolano un punto di vista che io voglio proporre. La speranza ha certamente un ruolo fondamentale in questa situazione, ma bisogna avere la grinta per conquistare il proprio posto. Questo film può essere un punto di aggregazione per dire: non lasciamoci definire dagli altri, né “sacrificabili” né in altro modo! Ritroviamo la coesione sociale che ci manca. La crisi finanziaria non dev’essere un pretesto, ma uno spunto per mettersi, insieme, a cercare una soluzione. Il tema del confronto generazionale, più che mai attuale, è affidato ai personaggi di Rutger Hauer e Andrea Sartoretti. Il primo incarna la generazione che ha originato il problema, quella da redimere. Sartoretti rappresenta l’altra faccia del dibattito. Fateci caso: lui usa il taccuino per prendere appunti; Hauer impugna la pendrive. In un momento in cui il cinema è diventato voracità d’immagine, la ricerca della conciliazione, qui, è nei dettagli. Il film è sul conflitto generazionale, ma non implica che un dialogo non sia possibile.