La prima volta che ho incontrato Laura Bispuri non ho capito niente. Era qualche anno fa. Lei era in concorso in un piccolo festival, io ero in giuria. Presentava un corto, Salve Regina, sull’incontro fra due corpi: una donna sovrappeso, un uomo in sedia a rotelle, una piscina sullo sfondo. Non mi piacque. Niente di nuovo, mi dissi, archiviandolo nella categoria dei saggi “a tesi” che sono la rovina degli studenti di cinema. Errore.
Il corto vinse comunque un premio. Bispuri proseguì per la sua strada.
La seconda volta che l’ho incrociata è stata al festival di Cannes, mentre cercava finanziatori per il suo primo lungo, Vergine giurata, che qualche tempo dopo sarebbe diventato un film. Un bel film. Talmente buono da conquistarsi un posto nel concorso internazionale del festival del cinema di Berlino. Tratto da un romanzo di Elvira Dones, girato in Alto Adige e ambientato in una comunità montana albanese rigidamente patriarcale, Vergine giurata è la storia di Hana (Alba Rohrwacher), spirito ribelle che per ottenere gli stessi diritti degli uomini sacrifica la propria femminilità alle regole della legge arcaica, il Kanun. Diventando “vergine giurata” Hana acquista un nome maschile, Mark, e il diritto di lavorare. Ma perde la sua identità.
Un bell’esordio, una prova di regia solida e personale. Ma soprattutto il culmine di un lavoro di ricerca sul corpo, sul fisico, sul genere. Uno studio durato anni, coltivato anche attraverso corti come Salve Regina, che ha permesso a Bispuri di avventurarsi con maturità su un terreno spinoso. Capita che un cortometraggio sia solo il pezzo di un percorso più lungo. L’importante è che il regista abbia la meta chiara in testa, perché i compagni di viaggio, purtroppo, a volte possono sbagliare.
È stato difficile realizzare questo film?
Sì, per tanti motivi. Gli attori recitavano in una lingua che non era la loro, i luoghi che ho scelto per girare presentavano enormi difficoltà logistiche, la sceneggiatura aveva una struttura complessa. E avevo tempi strettissimi per le riprese. A dire il vero è stato difficile anche solo arrivarci, alle riprese.
Se dovessi individuare il cuore di Vergine giurata, quale sarebbe?
Il filo rosso è il corpo, o meglio la trasformazione fisica che vive la protagonista. Il mio obiettivo era raccontarlo senza calcare la mano, senza arrivare alla caricatura. Volevo che la trasformazione fosse una metamorfosi delicata. Il film, nella sua parte italiana, è la storia di un corpo che arriva nel nostro paese come “congelato”. E poco a poco si scioglie.
Quando hai scelto Alba Rohrwacher come protagonista?
Ho sempre pensato ad Alba. La preparazione del film è stata lunga, tre anni e mezzo durante i quali lei e io siamo costantemente rimaste in contatto. Abbiamo letto insieme il copione, discusso del personaggio. Una volta arrivate sul set avevamo costruito un background talmente forte che conoscevamo il personaggio in tutti i dettagli.
Come avete lavorato sulla trasformazione fisica di Mark/Hana?
Abbiamo cercato delle linee guida, cominciando a lavorare sui gesti. Prima ho indirizzato Alba su una recitazione molto mascolina, aggressiva e caricata. Poi abbiamo lavorato in sottrazione per “diminuirla”. C’è stato anche un lavoro diciamo “estetico”: abbiamo indurito il volto di Alba scurendole occhi e capelli.
Hai incontrato delle vere “vergini giurate” prima di girare?
Sì. Il primo incontro è stato forte, ero molto agitata. Mi trovavo per la prima volta su quelle montagne e sapevo che le vergini giurate erano piuttosto restie a lasciarsi contattare. Ma alla fine ce l’ho fatta. L’incontro è avvenuto in un piccolo albergo: la donna con cui ho parlato aveva appena 35 anni. Era molto dura. Diceva continuamente: “Per me l’amore è la morte”. Sono persone molto fedeli alla scelta che hanno compiuto e pochissime di loro hanno tradito il patto: secondo il Kanun la parola data va rispettata. Ne ho poi incontrate altre, tutte tra i 60 e gli 80 anni, e una di loro appare anche nel film. Sono creature particolari… creature a metà, consumate nel corpo e nello spirito da una vita condotta in isolamento sulla neve, in villaggi sperduti e lontani da tutto. Certo poi ognuna di loro è diversa, ogni donna ha alle spalle una storia e un motivo personale per intraprendere questo tipo di percorso.
Cosa ti ha attirato, fin dal principio, in questa storia?
Il romanzo da cui è tratta la storia mi sembrava molto forte, proprio a livello di plot e di narrazione. Aveva una grande originalità, ma al tempo stesso lasciava spazio per aggiungere qualcosa di mio, per legare il film ai miei lavori precedenti. Direi che il motore è stata la voglia di raccontare al cinema un tipo di femminilità diversa. Anche nei lavori precedenti ho sempre avuto un grande affetto per personaggi femminili in qualche modo incastrati in gabbie – di identità o corporee – che desideravo spezzare. Film in qualche modo “fisici”.
Quanto hai “tradito” il romanzo originale?
Il necessario. Ma del romanzo è rimasto molto: parte dei personaggi e soprattutto il cuore. Nel libro alcune cose sono diverse: l’Italia è Washington, la parte sull’infanzia di Mark non c’è. Ma l’autrice, che ha visto il film, l’ha amato molto.
Il film ha uno stile molto preciso. Quando lo hai visualizzato?
Avevo chiaro fin da subito lo stile. Volevo conservare un forte attaccamento alla realtà, perché senza un legame con il reale la mia fantasia non riesce a mettersi in moto. Però, allo stesso tempo, mi interessava lavorare anche su momenti più lirici. L’idea era che questo film fosse una specie di viaggio, una lunga soggettiva di Mark. Per questo motivo ho girato tutto in piani sequenza, anche se nella parte albanese ho effettuato dei piccoli tagli interni.
Che ruolo ha, simbolicamente, la ragazza con cui Mark entra in confidenza?
È fondamentale, perché crea un legame con lui/lei aiutandolo/a a liberarsi. Così come Mark è stato per tanti anni in apnea, anche lei è costretta a trattenere il respiro per riuscire nello sport che ha scelto di praticare. Il nuoto sincronizzato è per me la sintesi visiva perfetta di una femminilità che ha a che fare con l’immagine di perfezione e bellezza. Cioè una delle gabbie in cui le donne sono rinchiuse.
In che modo questo film parla al pubblico femminile?
È un film che apparentemente riguarda solo la libertà delle donne in Albania, ma in realtà dice di più. Succede che quando lo guardi finisci per chiedertelo anche tu, qui in Italia, quanto siamo libere. Sono forse libere quelle bambine, truccate anche dentro l’acqua, che faticano come matte ma devono sempre sorridere?
In Italia anche le registe donne faticano moltissimo.
È un problema che non ha che fare solo con il cinema, purtroppo. Le statistiche che riguardano la disparità del trattamento delle donne sui luoghi di lavoro sono impressionanti. Nella mia esperienza posso dire che gli ostacoli che ho incontrato sono stati gli stessi che hanno affrontato i miei colleghi uomini. Non mi sono mai sentita oggetto di discriminazioni particolari. Le difficoltà in cui mi sono imbattuta per realizzare Vergine giurata dipendevano dalla complessità del progetto e non, fortunatamente, dal fatto che fosse una donna a girarlo.
Che effetto ti fa essere in concorso in un festival internazionale?
Ero già stata a Cannes perché mi avevano selezionata all’Atelier, poi a Venezia. Ma a Berlino mai. La cosa che mi fa più impressione, e mi emoziona, è l’idea di essere in concorso con Peter Greenaway o Werner Herzog: autori che ho studiato a scuola, e che amo moltissimo.
Premi a parte: cosa vorresti che si dicesse del tuo film?
Sembrerà banale, ma credo che la vera differenza nel cinema la faccia la sincerità con cui un regista svolge il suo lavoro. Quando sento che un regista è sincero, anche se ha sbagliato qualcosa del suo film… io mi lascio coinvolgere, lo rispetto e lo salvo. In questo film non ho fatto altro che seguire me stessa. Spero davvero di essere riuscita a comunicare questo: la mia sincerità.