Tutti noi dovremmo avere un mondo in più in cui vivere, quello che ci costruiamo con le nostre emozioni», dice Diego, il giovane protagonista del primo lungometraggio di Luigi Pane. E proprio da quelle parole deriva il titolo del film, Un mondo in più, che da oggi comincia un giro nelle sale a partire dal Cinema Farnese di Roma. Dopo il cortometraggio L’Avenir e con la pandemia che fa da sfondo, Luigi Pane torna a «raccontare quanto accade realmente nel mondo», ancorando il suo cinema alla realtà. Protagonisti Francesco Ferrante, Francesco Di Leva, Denise Capezza e Renato Carpentieri.
Qual è stato lo spunto iniziale del film?
L’idea era quella di raccontare una storia che fosse contemporanea e dare allo spettatore la sensazione di star vedendo al cinema qualcosa che sarebbe potuto accadere nella realtà. Volevo raccontare una vicenda che da una parte avesse al centro i legami di sangue, quelli che non siamo noi a scegliere, e dall’altra volevo parlare di eredità culturali. Perché mentre un padre non si può scegliere, un maestro sì. E questo è un concetto fondamentale per me, visto che viviamo in un’epoca in cui molti riferimenti culturali si stanno perdendo. Perciò volevo raccontare di un ragazzo che si trova catapultato in un luogo che per molti è brutto, ma non per lui, perché riesce a vedere il mondo con occhi nuovi grazie proprio alla sua cultura.
Quindi per te radicare Un mondo in più nell’attualità era fondamentale.
Sì, decisamente. Nella prima versione della sceneggiatura che avrei dovuto girare ad aprile 2020 non era neanche presente il Covid. Ma durante il lockdown ho parlato con i miei produttori per inserire dei riferimenti alla pandemia, perché più il tempo passava più pensavo di non poter ignorare quanto stava accadendo, era un evento troppo grande. Mentre vedo che il cinema in parte lo sta ancora ignorando.
Sin da subito il film mostra una vocazione fortemente sociale, che andando avanti viene confermata. È questa la tua idea di cinema?
Credo di sì, perché mi piace raccontare ciò che vedo ogni giorno. Il cinema per me è sempre stato qualcosa in grado di dare ordine alla trama dell’esistenza, e per farlo deve essere legato al sociale e al presente che vivo. La mia idea non solo da regista, ma anche da spettatore, è quella di un cinema che non sia solo di intrattenimento, ma che possa riportare quanto accade realmente nel mondo.
Pasolini è molto presente nel tuo film e si evince il legame che hai con le sue opere. Quali altri autori del cinema italiano sono fonte di ispirazione per te?
Pasolini per me è stato importante in un determinato momento della vita. Come il protagonista mi sono trovato catapultato in un’altra città e mentre studiavo i film di Pasolini vivevo nei luoghi in cui quei film erano stati girati. Per me si trattava quindi di una doppia scoperta: notavo come alcune cose erano profondamente cambiate, mentre altre restavano invece uguali negli anni. Altri autori che personalmente considero importanti sono Antonioni e soprattutto Bertolucci, che ha lasciato una traccia molto forte in tutto quello che faccio. Magari può anche non notarsi dall’esterno, ma io ne riconosco l’influenza.
Un mondo in più è il tuo primo film. Come è cambiato il tuo metodo nel passaggio dal corto al lungometraggio?
Sinceramente non è cambiato. Ci ho messo lo stesso impegno che metto nei corti. I tempi sono stati diversi, sicuramente, ma ho mantenuto il mio approccio di sempre. Certo, è stata un’emozione più forte, più dilatata per certi versi, come i tempi d’altronde, ma il modo di lavorare è rimasto lo stesso.
Diego, il protagonista, ha una passione per la fotografia. Qual è il tuo rapporto con questa pratica?
Mio padre era fotografo e se tante cose riesco ad immaginarle, soprattutto a livello di composizione dell’immagine, lo devo proprio alla fotografia. È così che ho iniziato. Il gusto dell’inquadratura, lo studio della luce: sono cose che ho imparato grazie alla macchina fotografica. Non ho mai nemmeno comprato una videocamera. Anzi, io consiglio sempre ai giovani che si accostano tecnicamente al mestiere di imparare a usare una macchina fotografica.