Classe 1985. Il regista Daniele Misischia ha esordito in sala a ferragosto con un The End? L’inferno fuori, horror inconsueto per il mercato italiano e venato di reminiscenze dei classici degli anni Ottanta.
Una formazione cinematografica iniziata alla NUCT di Cinecittà, le esperienze come operatore di macchina da presa e regista di seconda unità per i Manetti Bros ne L’ispettore Coliandro e Il commissario Rex. ll suo zombie movie low budget, prodotto dalla Mompracem degli stessi Manetti e RAI Cinema, grazie al braccio distributivo di 01 Distribution è uscito in sala a metà agosto e vede come protagonista Alessandro Roja. L’ex-Dandi di Romanzo criminale – La serie veste i panni di un manager di alta finanza che resta chiuso in un ascensore mentre intorno a lui si consuma un’apocalisse che vede le persone infettarsi trasformandosi in zombie.
Ambienta tutto a Roma Misischia. Dalle immortali silhouette delle statue che dominano San Giovanni ci rinchiude in un incubo claustrofobico fatto di elementi caratteristici del genere horror. All’interno di questo spazio angusto determinato solo dai numeri dei piani, riversa i peccati di un personaggio snob e infido che dovrà cercare di sopravvivere, come mai avrebbe immaginato, in un tripudio di splatter, exploitation e rimorsi di coscienza. Così abbondano scene di azione e corpo a corpo, sangue utilizzato come una punteggiatura grafica a segnare i personaggi quanto il mood di una storia ben determinata a terrorizzare il suo pubblico.
Come nasce l’idea del tuo The End?
Qualche anno fa, insieme al co-sceneggiatore Cristiano Ciccotti. Pensavo che sarebbe stato divertente raccontare l’apocalisse dal punto di vista di un poveraccio bloccato dentro un ascensore. Ragionando abbiamo capito che la soluzione meno costosa e più veloce era lo zombie movie, e da lì ne abbiamo tirato fuori un film atipico per il genere. Perché il punto di forza non è tanto lo zombie, anche se è meglio chiamarli infetti perché sono persone infettate, quanto invece l’assedio claustrofobico portato a un livello estremo.
Un intero film ambientato in situazioni claustrofobiche era anche una delle suggestioni accarezzate a suo tempo da Hitchcock.
Sì, assolutamente. Hitchcock è stato una delle maggiori influenze per me. Soprattutto per la costruzione della tensione nei suoi film.
Chiudere un set e un cast in ascensore che tipo di esperienza si è rivelata?
In realtà è stato complicato da realizzare, ma anche molto divertente. Complicato perché un film tutto in una sola location ti costringe a mantenere una tensione sempre altissima. La concentrazione quando si gira su quello che sta succedendo e sulle scene d’azione deve rimanere massima per necessità, altrimenti rischi di rendere il film noioso per lo spettatore. Ma è anche divertentissimo, perché stabilizzarti sulla stessa location ti obbliga a stare in contatto ancora più stretto con cast e troupe. Da queste cose nascono buone sinergie che ti fanno vivere meglio il set.
Tutto va avanti per una porta bloccata che decreta la vita o la morte di ogni personaggio. C’è qualche episodio che ti è rimasto impresso durante la lavorazione?
Ti potrei raccontare un paio di cose legate alla lavorazione e alla preparazione di Alessandro Roja all’interno dell’ascensore. Prima di ogni scena di suspense o azione avevamo stabilito con lui di far partire una musica assordante. Un grind-metal che potesse fomentare l’adrenalina nell’attore. Invece per la suspense avevamo scelto la musica de La cosa composta da Ennio Morricone, con un andamento molto lento e thrillerico. Roja ha voluto anche essere sorpreso sul set riguardo all’entrata in scena degli zombie per lavorare meglio a uno spavento reale, e il risultato si vedeva bene già dai girati. Molte volte facevamo rumori improvvisi o lasciavamo passare gli infetti davanti all’ascensore dov’era chiuso, ma senza che lo sapesse prima.
Più che a The Walking Dead, ormai una sorta di bibbia moderna per chi si cimenta nello zombie movie, ti rifai alle lezioni di Bava, Carpenter e Romero confezionando il tuo lavoro in stile anni ’80.
È verissimo. The Walking Dead non l’ho mai apprezzata come serie. Giusto la prima stagione era interessante, con Frank Darabont alla regia, che ho sempre ritenuto molto in gamba. Però poi anche TWD ha subito la maledizione di un po’ tutte le serie. Andando avanti i personaggi si annacquano diventando irrealistici e ora galleggiano in una soap-opera-zombie. Riguardo all’horror mi sono rifatto a John Carpenter e Sam Raimi, e a Romero fino a un certo punto. Qualcuno ha trovato similitudini tra The End? e i due Demoni di Lamberto Bava. E sicuramente credo che qualcosa a livello inconscio ci sia.
Roma e gli zombie. Il tuo film è una specie di metafora sociale alla Romero rispetto a questo binomio?
Non volutamente. Per quanto riguarda un sottotesto sociopolitico sicuramente qualcosa c’è, perché quando si fa un horror si va a rappresentare la società, anche se in modo grottesco. Il nostro contesto però non è squisitamente legato a Roma, perché la storia potrebbe essere ambientata in qualsiasi grande città di potere governata dal denaro. Poteva trattarsi di Milano come New York. Certo, con Roma ho avuto la possibilità di girare in una delle città più belle del modo. Quindi fare un totale dall’alto con il drone riprendendo i cadaveri sul Lungotevere è un’occasione ghiotta per un regista di genere.
Infatti da qualche tempo il cinema di genere ha ricominciato a interessare gli autori e il pubblico. Come vedi il futuro dell’horror?
È un genere che ha ancora tanto da dire, anche se in questo momento i film che escono sono spesso la fotocopia l’uno dell’altro. Quando però è usato per raccontare qualcosa di attuale offre l’occasione di riflettere. Le persone amano spaventarsi, soprattutto al cinema, perciò è un genere che non morirà mai. Anche se alcuni mi hanno detto: “Scusa, l’horror mi spaventa, perciò non andrò a vederti al cinema”. Come se avessi girato il nuovo Esorcista. Magari! È l’unico film che riesce ancora a terrorizzarmi. Però aver fatto un film prodotto da RAI e Manetti Bros, e poi distribuito da 01, è la prova concreta che qualcosa sta cambiando. Spero che si arrivi presto a produrre in Italia una decina di film di genere all’anno, cosa fino a poco tempo fa impensabile.
The End? ha un punto interrogativo nel titolo. Stai già puntando a un sequel o a un franchise?
In realtà no. O non ancora. The End? era stato proposto come titolo internazionale da uno degli organizzatori del London FrightFest Film Festival, al quale abbiamo partecipato lo scorso anno. Il titolo originale era In un giorno la fine, ma a me era piaciuta molto quella nuova idea del punto interrogativo così, prima dell’uscita italiana, abbiamo deciso con 01 di renderlo titolo ufficiale. Secondo me non è un film da sequel, ma se dovesse capitare e ci fosse possibilità non mi tirerei indietro.