Probabilmente nemmeno nei suoi sogni Sydney Sibilia era arrivato a immaginare che il suo film d’esordio avrebbe riscosso tanto successo: Smetto quando voglio è stato visto da più di 600.000 spettatori, superando i 3 milioni e 600 mila euro di incasso. Davvero niente male.
Non solo il pubblico ma anche la critica, in maniera pressoché unanime, ha riservato all’opera prima di Sibilia un’accoglienza assai positiva. E meritatamente. Quello del trentaduenne regista salernitano, trasferitosi a Roma dopo aver realizzato il primo corto Iris Blu (2005) con Cristina Capotondi, è infatti uno dei debutti cinematografici più interessanti dell’anno. Anche se chi conosceva i suoi corti poteva ipotizzarne l’arrivo sul grande schermo (Oggi gira così del 2010 era un gioiellino di scrittura e tempi comici), Smetto quando voglio sorprende per la capacità di intrattenere lo spettatore con intelligenza attraverso una lunga serie di trovate esilaranti, senza mai perdere ritmo. Solo il tempo ci dirà se dal fortunato caso di questo film – che racconta con piglio scanzonato le vicende di un gruppo di ricercatori precari intenti a sbarcare il lunario mettendo su una squinternata banda di spacciatori di smart drugs – potrà nascere lo spazio per una nuova commedia italiana. Nell’attesa, noi di Fabrique salutiamo con entusiasmo questa operazione riuscita e coraggiosa, cercando di scoprirne di più proprio con l’autore.
Qual è la storia produttiva di Smetto quando voglio e come sei riuscito nell’impresa di farti finanziare il film da Fandango?
Oggi gira così era piaciuto molto a Domenico Procacci, che mi aveva invitato a metter su un gruppo di scrittura. Con Valerio Attanasio avevamo già scritto il nuovo soggetto e presto abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura insieme ad Andrea Garello. Inizialmente dubitavo che il progetto sarebbe davvero andato in porto, ma dopo la consegna della prima stesura mi sono reso conto che le cose si stavano sviluppando in maniera positiva. Nel gennaio 2012 il film è stato calendarizzato e successivamente sono iniziati i contatti con Rai Cinema e il percorso per il finanziamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Hai trovato difficoltà nel passare dalla forma del cortometraggio a quella del film? Da dove è nata e come hai sviluppato l’idea di base?
In una primissima fase avevo in mente una serie di situazioni e personaggi che avrei poi voluto legare tra loro attraverso un filo narrativo. Ben presto però mi sono reso conto che questo metodo, che avevo ampiamente utilizzato nei corti, non era proficuo per un lungometraggio. Ora era fondamentale capire subito di cosa e di chi volevo parlare, concentrandomi poi su alcuni personaggi e sul loro arco di trasformazione. Raggiunta questa consapevolezza, mi sono imbattuto in un articolo di giornale in cui erano intervistati due netturbini romani che, pur laureati in filosofia, erano contenti del loro lavoro. Ciò che mi colpiva era la loro serena rassegnazione. Siamo dunque partiti da questa suggestione andando a cercare altre storie simili (molte delle quali ci hanno più o meno direttamente ispirato per il film), per poi sviluppare intorno a esse un mondo coerente e verosimile dove le persone più intelligenti vivono ai margini.
Quali sono stati i vostri modelli narrativi?
Inizialmente abbiamo fatto un elenco di alcuni film e serie televisive a cui volevamo ispirarci: ne facevano parte Limitless, Big Bang Theory, Snatch, Romanzo criminale e 21, dal quale abbiamo ripreso la struttura circolare. Nonostante la storia di Smetto quando voglio giri intorno all’elaborazione di una droga sintetica, tra i riferimenti non c’era Breaking Bad, di cui avevo sentito parlare ma che non avevo ancora visto. A un livello più inconscio e generale, credo poi di essere molto legato a un certo tipo di cinema americano degli anni ’80 e ’90 con cui sono cresciuto. Penso a film come Ritorno al futuro, Salto nel buio e Navigator, con quelle loro sceneggiature prive di sbavature.
Qual è stato invece il tuo approccio alla regia? E, rimanendo sull’aspetto visivo, cosa ti ha portato alla scelta di una fotografia così satura?
Ancora oggi mi sento principalmente uno sceneggiatore, oltre che un intrattenitore. E la messa in scena la penso sempre come qualcosa che deve essere funzionale alla storia. In Smetto quando voglio ho sempre cercato di evitare uno stile invasivo per non rischiare di scivolare nell’autocelebrazione e perdere di vista ciò che conta davvero: la storia e i personaggi. La regia in fondo non è altro che uno degli aspetti di un lavoro molto più ampio.
Per quanto riguarda invece la fotografia, la volontà era quella di tradurre anche sul piano visivo l’idea di una commedia diversa dal solito. Il colpo d’occhio è fondamentale. La maggior parte degli spettatori ormai scelgono se andare a vedere o meno un film dopo aver guardato il trailer sul web. Volendo evitare la fotografia satura al punto giusto del cinema italiano e partendo dalla consapevolezza che preferivamo rischiare di sbagliare piuttosto che aderire a una soluzione standard, ci siamo ispirati all’estetica ipersatura della serie inglese Utopia di Dennis Kelly.
Puoi già dirci qualcosa sul tuo prossimo film?
Attualmente sto ancora seguendo Smetto quando voglio. Per tornare a scrivere ho sempre bisogno di sentirmi un po’ orfano. A un certo punto arriverà il momento in cui non mi vedrò più legato al primo film e inizierò a lavorare seriamente al nuovo. Comunque farò senz’altro un’altra commedia: l’idea è quella di concentrarmi su qualcosa di un po’ matto. Spero di spiazzare gli spettatori lasciandoli increduli. In ogni caso, cercherò di seguire la strada più difficile, consapevole che per il secondo film ci sarà molta aspettativa da parte del pubblico. Che non voglio in alcun modo deludere.