Ha vinto l’ultima edizione del RIFF con una storia d’amore e sesso che poco lascia all’immaginazione. Così il 32enne Adriano Giotti racconta la sua opera prima: «Come nel punk con due accordi si riusciva a raggiungere una grande libertà d’espressione, in Sex Cowboys abbiamo cercato di sfruttare al massimo l’essenzialità dei mezzi a disposizione».
Adriano avrebbe voluto scrivere romanzi. L’incontro con Alessandro Baricco alla Scuola Holden però ha inaspettatamente modificato i suoi piani. Lo scrittore aveva infatti da poco realizzato il suo film Lezione ventuno e propose agli studenti un corso pratico di regia. Da lì in avanti la vita di Adriano è cambiata. Ora vive tra Madrid e Roma e dopo una gran quantità di videoclip e corti, ha appena realizzato il suo lungometraggio d’esordio Sex Cowboys, trionfatore al RIFF: un piccolissimo film indipendente (coprodotto con la Inthelfilm di Marco Simon Puccioni) incentrato su una coppia che per sbarcare il lunario riprende i propri rapporti per venderli sul web e dove il sesso viene messo in scena in maniera molto esplicita.
Fabrique ha incontrato Adriano, accompagnato anche dai due protagonisti Francesco Maccarinelli e Nataly Beck’s.
Cos’è che ti ha davvero fatto capire che il tuo ambito era quello dell’audiovisivo e non della narrativa? Come mai hai iniziato con i videoclip?
Perché il cinema a differenza della scrittura è un atto collettivo e per questo motivo mi stimola molto di più. Avendo suonato in un gruppo musicale per diversi anni, iniziare con i videoclip mi sembrava la cosa più naturale. Ne ho girati più di ottanta, spesso per gruppi indipendenti a basso budget, ma anche un paio per i Mallory Knox e gli Hermitage Green che sono stati prodotti dalla Sony. Ho scelto fin dall’inizio, nei clip e poi nei corti, di gestire in prima persona piccoli set, piuttosto che fare l’assistente in grandi set inseguendo i sogni degli altri, anche se avevo pochi mezzi. Ho fatto la stessa cosa con Sex Cowboys, dove siamo riusciti a fare cinema in quattro persone più tre attori.
A proposito di Sex Cowboys, com’è nata l’idea del film e come hai scelto i due protagonisti?
Le cose che scrivo nascono sempre da un’emozione, da esperienze personali o che sento molto vicine. Mi definisco un cercatore di storie, un esploratore, più che uno che si mette a tavolino e scrive. Sapevo che Francesco e Nataly erano i due attori perfetti, sia a livello fisico che di metodo di lavoro, per incarnare i protagonisti. Tanto è vero che Sex Cowboys è iniziato a nascere dentro di me mentre guardavo la relazione che si era instaurata tra loro sul set del videoclip degli Hermitage Green, che abbiamo fatto insieme. Lavoro sempre con attori di metodo che diventano i personaggi. Questo è fondamentale per arrivare a quella verità e a quella fisicità che cerco sempre nelle mie storie.
Francesco: Il fatto che noi tre ci conoscessimo bene e avessimo già lavorato insieme ci ha portato ad avere una grande libertà di comunicazione. Credo di parlare anche a nome di Nataly dicendo che, artisticamente parlando, ci siamo sentiti costantemente protetti da Adriano. Per un film così spinto in cui la fisicità viene messa parecchio a nudo, questa è una cosa straordinaria che ti fa lavorare in maniera serena.
Nataly: Per me recitare è una cosa istintiva e ho vissuto tutto in maniera molto naturale. Dal mio punto di vista fare scene di sesso, anche esplicite, è come girarne una in cui stai bevendo o mangiando. Non mi sono né scandalizzata né preoccupata, era tutto molto fluido e se sul set ero vestita o svestita non faceva alcuna differenza. Abbiamo lavorato molto prima di girare per entrare nei personaggi e questo mi ha davvero aiutato.
Tornando a te, Adriano, il tuo film per diversi aspetti ricorda il cinema di Cassavetes.
Nel progetto di Sex Cowboys che mandavo in giro in cerca di finanziamenti c’era proprio il riferimento esplicito a Cassavetes, di cui sono un grande estimatore. Nel mio film c’è lo stesso spirito: è sostanzialmente autoprodotto, visto che pur di realizzarlo ho investito i miei risparmi personali, e fa leva su attori con cui è stato possibile lavorare molto sul piano dell’improvvisazione. Nelle prove lavoro tanto sull’improvvisazione per tirare fuori ancora più verità di quella che posso aver scritto, perché è chiaro che nelle cose che scrivi c’è una verità intellettuale, mentre negli attori c’è una verità istintiva ed emozionale che è sempre bene cercare di sfruttare appieno.
In Sex Cowboys colpisce molto la costante vicinanza della macchina da presa ai corpi degli attori. Ti sei ispirato allo stile di qualche altro regista in particolare?
Il mio cinema in effetti è molto incentrato sullo stare addosso ai personaggi. La mia è una “visione con”, nel senso che empatizzo con i personaggi e cerco in tutti i modi di far vivere allo spettatore le cose molto da vicino. Da questo punto di vista i miei registi di riferimento sono i Dardenne. Quello che però sento di aver fatto in più in questo film è la combinazione delle riprese con la GoPro tenuta a mano dagli attori con quelle con la Red, che nelle scene di sesso dà un effetto di verità molto forte. Ovviamente per ragioni di censura non ho potuto spingere troppo. Il mio obiettivo in ogni caso non era scandalizzare ma raccontare una storia che fosse reale, anche sul piano della fisicità.