Il primo lungometraggio del cagliaritano Gianclaudio Cappai è un noir sulla rabbia e la vendetta assolutamente da non perdere.
Bruno convive con una terribile malattia, un dolore che ha radici in un tempo lontano di cui nemmeno la moglie Elena è a conoscenza. Fino a quando Bruno avrà l’occasione di tornare nei luoghi da dove tutto è cominciato, una fornace in dis uso divenuta rifugio di un uomo e della figlia. Atmosfere claustrofobiche ed inquietanti, in cui lo spazio non è solo un luogo fisico ma l’unica forma di espiazione per un uomo che del passato porta i segni tra le pieghe del corpo e dell’anima.
Prodotto dall’indipendente Hirafilm, con un budget di 578mila euro, il contributo di Regione Lazio e Regione Lombardia, in associazione con Media Sponsor e Obiettivo Energia, con il sostegno di Lombardia Film Commission, il film è stato presentato in anteprima al Bif&st 2016 nella sezione ItaliaFilmFest/Nuove Proposte e proprio in questi giorni è nelle sale.
Senza lasciare traccia è il tuo primo lungometraggio, interamente autofinanziato. È stato difficile trovare i fondi?
Produttivamente questo film nasce come reazione, concreta e indipendente, a due miei progetti ambiziosi che sul punto di partire si erano arenati per colpa del solito procrastinare che ammorba diversi produttori cinematografici italiani. Non due treni persi, bensì due treni deragliati. Un ko dopo l’altro. Abbiamo deciso quindi, noi come società Hirafilm, di “partire” da soli per mettere in piedi finanziariamente il film con un budget stimato medio/basso, poco meno di 600.000,00 euro. Periodo? Fine estate del 2013. Non volendo perdere altro tempo, parallelamente alla ricerca dei fondi, abbiamo iniziato di fatto a preparare il film con le risorse economiche che avevamo a disposizione. Tenere vivo questo doppio binario è stato determinante, perché i due aspetti (budget ed esecutivo) si corroboravano a vicenda, permettendoci step by step di rendere plausibili le date di inizio riprese che ci eravamo prefissati, ovvero inizio marzo 2014. Quando a questi due aspetti si è aggiunta l’effettiva disponibilità del cast artistico principale, allora era evidente a tutti che non si poteva più tornare indietro. E a quel punto, venendo alla tua domanda, una delle difficoltà maggiori è stata convincere la banca (una delle tante) a farci un prestito per chiudere le sei settimane di riprese senza panico o spargimenti di sangue. E così è stato, soprattutto grazie a un paio di preziose consulenze finanziarie, quelle giuste per intenderci…
Il tax credit è stato fondamentale per la realizzazione del film?
Assolutamente decisivo: diciamo che un terzo del budget è stato coperto dal tax credit, sia esterno e interno. Tuttavia anche in questo caso, va detto, c’è stato un perseverante lavoro “ai fianchi” che veniva da lontano, proprio da quei due film non realizzati ma le cui sceneggiature avevano calamitato l’interesse di alcuni imprenditori privati. Imprenditori che fortunatamente ci hanno sempre sostenuto, nonostante lo sviluppo del progetto ogni tanto si frenasse per poi riprendersi. Altri tasselli produttivi dipendevano dalla scelta delle location, di qui il Fondo della Regione Lombardia (abbiamo girato in parte nel basso lodigiano) e a seguire quello della Regione Lazio. Aggiungi sponsor vari e, last but not least, un finanziamento diretto da parte nostra come aumento di capitale della società.
Quali consigli ti senti di dare a dei giovani autori che spesso si trovano ad avere difficoltà produttive e di finanziamento?
Non credo di essere portato a dare consigli in merito, perché su questo tema sono spesso istintivo e radicale, né d’altra parte vorrei che si finisse sempre per dire banalità del tipo: “Facciamo di necessità virtù… prodursi da soli ti dà una libertà creativa che non avresti ecc.” In realtà l’autoproduzione è un gioco insano, molto spesso frustrante, quasi sempre devastante. In tutta onestà mi viene difficile consigliarla come iter produttivo. A mente fredda dico che è sempre meglio cercare un produttore che creda in te, qualcuno con cui avere un costante scambio dialettico sul film e per il film, che lo arricchisca, perfino lo rimetta in gioco ma senza sabotarlo e che alla fine lo porti a termine.
Il film esce fuori dagli stereotipi del cinema italiano. Drammi domestici e famiglie in crisi lasciano spazio a un linguaggio nuovo, oserei dire inaspettato, un po’ in linea con i registi del momento Mainetti e Rovere…
Complesso e sperimentale insieme sono due concetti che alle mie orecchie suonano come un complimento. Credo tuttavia che rispetto ai miei lavori precedenti questo film sia quello più leggibile, incastonato com’è tra alcuni elementi di “genere” e tensioni drammatiche da Kammerspiel. Francamente non lo accosterei troppo ai nomi da highlights, eppure in effetti ad accomunarli è proprio quella pura e ludica voglia di utilizzare il genere, decontestualizzarlo per poi approdare a qualcos’altro. Se poi questo qualcos’altro diventa un film di culto, come sembra stia accadendo a Lo chiamavano Jeeg Robot, be’, non si può che esserne felici.
Da cosa nasce l’idea del film?
Nasce da un storia vera, o almeno lo spunto iniziale si riallaccia al fatto che una mia amica, malata di tumore, associasse con convinzione la sua malattia a un intimo trauma della sua infanzia. Il mistero di quel trauma e soprattuto le reazioni ed emozioni da esso innescate, sono stati il punto che ha dato il via allo script. Questo film è un’intromissione nel “lato oscuro” della vita. Solitamente non ho alcun interesse a trattare argomenti da ricerca sociologica. Per me è molto importante tradurre delle esperienze personali con i miei mezzi estetici. È un fatto di precisione. Tutto ciò che è “macroscopico” rende la precisione impossibile e si corre il rischio di perdersi in un falso pathos.
Un cast d’eccezione (Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich) per un’opera prima: come sei riuscito a mettere insieme attori di questo calibro?
In effetti, devo ammettere che l’ottimo ed eterogeneo cast di questo film, essendo un’opera prima, non era affatto scontato. Anzi. In fase di sceneggiatura non mi ero focalizzato su nessun attore in particolare, eccetto Vitaliano Trevisan, straordinario scrittore prestato al cinema, che per me rappresenta la combinazione perfetta di stranezza, profondità e originalità. Per tutti gli altri ruoli mi sono avvantaggiato dell’esperienza preziosa e paziente della casting director Stefania De Santis, con la quale mi sono trovato molto bene. Il resto del lavoro di convincimento, probabilmente, lo ha fatto la storia e la possibilità per gli attori di sperimentare certe cose con più libertà.