Classe 1983, Alessandro Grande ha presentato il suo primo lungometraggio, Regina, all’ultimo Torino Film Festival, unico titolo italiano in concorso: il film è finalmente ora in sala, dopo il lungo stop dovuto al lockdown.
Regina nasce dal bisogno di elaborare il trauma contemporaneo del conflitto generazionale tra genitori (assenti o privati del loro ruolo) e figli (oppressi da un profondo senso di colpa). Per il giovane regista, d’altronde, è proprio a questo che serve il racconto per immagini, a esternare dei sentimenti e delle emozioni che, per trovare la loro massima espressione e libertà, hanno bisogno di spingersi oltre i limiti della carta e della scrittura. Un lavoro, dunque, quello del regista, che Alessandro Grande vede proprio come un’urgenza personale: «È un discorso di sensibilità. Portare avanti un film o un corto richiede uno sforzo di energie tale che devi necessariamente credere in quello che racconti e, per farlo, ciò deve per forza nascere da un bisogno soggettivo di esplorare determinate corde del nostro animo, dei nostri pensieri, del nostro mondo interiore».
Cosa ti ha spinto a scegliere la strada della sceneggiatura e della regia?
Il cinema, prima di intraprendere il percorso universitario, lo percepivo solo come un intrattenimento: qualcosa di affascinante, ma totalmente distante da me. Durante l’università, però, mi ci sono avvicinato in modo più approfondito e ho capito che era ciò che volevo fare nella vita. Così, quasi in punta di piedi, ho realizzato un primo cortometraggio: una rivisitazione de La sequenza del fiore di carta di Pier Paolo Pasolini [episodio del film collettivo Amore e rabbia, 1969 ndr], in chiave contemporanea e totalmente opposta rispetto all’originale, per dimostrare come la tematica fosse talmente universale da mantenere comunque intatta la stessa valenza significativa. Da quel momento, ho incominciato un vero e proprio percorso nel cinema breve, che poi è terminato nel 2018 quando ho vinto il David di Donatello con Bismillah.
Regina è il tuo primo lungometraggio, come sei arrivato all’elaborazione di un’opera più lunga?
Alla base c’era la volontà di intraprendere un ulteriore step nella mia vita professionale e artistica. Con i corti avevo già toccato diversi argomenti, per cui sentivo l’esigenza di raccontare una storia a più ampio respiro. Tutto ciò è avvenuto in maniera abbastanza naturale, per cui non mi sono posto il problema della durata, mi sono invece lasciato andare liberandomi da ogni vincolo di tempo.
In Regina è molto interessante il ruolo genitoriale che emerge, dove i padri partono e le madri sono assenti. Cosa puoi dirci a riguardo?
Se l’assenza della figura materna è un aspetto che sto ancora cercando di metabolizzare per ampliarlo in futuro, in Regina emerge soprattutto l’idea di un conflitto generazionale tra un padre e una figlia che si ritrovano, da soli, a dover superare insieme un percorso di crescita. Lui deve diventare uomo e padre, prendendosi le sue responsabilità; lei deve, invece, fare i conti con un peso che è più grande di lei, un enorme senso di colpa. Questi due aspetti, emersi già durante l’ideazione del soggetto, si sono rafforzati quando ho letto Il complesso di Telemaco di Recalcati. Grazie a questo saggio, sia io che lo sceneggiatore Mariano Di Nardo ci siamo maggiormente resi conto di quanto oggi ci sia sempre più bisogno di genitori che si assumano la propria responsabilità e di quanto i figli necessitino, per crescere, di una figura che possa guidarli e indirizzarli per non andare allo sbando.
Fin dall’inizio Regina appare come un’adulta che si prende cura del padre. Cosa puoi dirci rispetto al percorso di crescita di Regina e Luigi?
Ogni personaggio deve avere un carattere e un pensiero, deve essere reale. Abbiamo perciò deciso di costruire questi due personaggi in modo che fosse già da subito chiaro chi sono e come reagiscono. Se Regina non fosse stata caratterizzata da questo suo senso di responsabilità fin dall’inizio, se non fosse stata più matura e sensibile rispetto alla sua età, non avrebbe capito l’importanza di quello che è successo. Non avrebbe provato un enorme senso di colpa dal quale cerca di liberarsi durante tutto il racconto, salvo poi rendersi conto che è più grande di lei. Subentra allora il padre e il suo percorso di redenzione, generato proprio dall’impossibilità di Regina di accettare la realtà. I due personaggi compiono un percorso di crescita complementare.
Parlando più nello specifico della messinscena, ci sono numerose inquadrature che sostano su spazi vuoti, perché questa scelta visiva?
Essendo una regia totalmente al servizio degli attori e fatta di piani sequenza, sostare su degli spazi vuoti serviva per creare delle pause dal portato emotivo, ma anche per permettere allo spettatore di avvicinarsi ai personaggi, facendolo quasi entrare all’interno della scena. È dunque uno stile che ho deciso di sperimentare fin da subito: ero conscio dei rischi, soprattutto a livello di ritmo, ma ero sicuro che raccontandolo in questo modo avrei potuto far affezionare di più lo spettatore alle vicissitudini dei protagonisti.
Come hai costruito sul set il rapporto di complicità tra i due attori, Ginevra Francesconi e Francesco Montanari?
Sono due attori che hanno sposato in pieno il progetto, nonostante le difficoltà derivate dall’utilizzo costante del piano sequenza. Abbiamo fatto molte prove, siamo entrati nella mente dei personaggi: Ginevra ha addirittura preso lezioni di canto e di chitarra con il maestro Bruno Falanga, che poi ha fatto le musiche del film. Anche Francesco è stato bravissimo a spogliarsi di ogni restrizione e a mettersi a nudo per dare vita a un personaggio normale e non caricaturale, assolutamente reale come io desideravo.