Dagli esordi come critico alla collaborazione come soggettista di C’era una volta il West di Sergio Leone (qui la sua opera prima), dal successo di Profondo rosso al recentissimo “remake” di Suspiria realizzato da Luca Guadagnino (qui la recensione), la fama di Dario Argento è in continua ascesa.
Argento fa il salto da critico cinematografico appassionato di film di genere a sceneggiatore e poi a regista, anche grazie a Bernardo Bertolucci: dopo aver lavorato insieme alla sceneggiatura di C’era una volta il West di Sergio Leone, l’amico lo incarica di realizzare l’adattamento cinematografico del romanzo La statua che urla (The Screaming Mimi) di Fredric Brown. Terminato il lavoro, Argento inizia a proporre a vari produttori il soggetto, ma il copione rischia più volte di essere modificato o attribuito ad altri. Così, con l’aiuto del padre, fonda la società di produzione autonoma S.E.D.A. Spettacoli, in questo modo finanzia e dirige la sua opera prima.
L’uccello dalle piume di cristallo (1970) è un raffinato film tra il noir e il thriller, basato sul gioco di sguardi con lo spettatore. La sequenza che apre la pellicola concentra l’attenzione sui preliminari del delitto più che sull’omicidio in sé, in un montaggio alternato che è un flirt con il pubblico in sala, un mostrare e nascondere; una tensione avvolgente tra desiderio e repulsione che fa del primo film del regista romano un successo commerciale eclatante e inaspettato.
Le riprese, iniziate nel settembre 1969, durarono sei settimane e si rivelarono più problematiche del previsto: tra i contrasti con l’attore Tony Musante che riteneva Argento un regista improvvisato, i tentativi di boicottaggio della società cinematografica Titanus di Goffredo Lombardo e il rischio continuo di superare i costi di produzione, la realizzazione del film fu tutt’altro che semplice. Il 19 febbraio del 1970, L’uccello dalle piume di cristallo esce in sala con un divieto ai minori di quattordici anni e la critica, dopo un’iniziale freddezza, lo accoglie come «un sasso nello stagno del cinema italiano». Qualcosa destinato a cambiarlo, dando il via a un filone noto come giallo all’italiana.
Argento è un visionario dalla tecnica impeccabile, sperimenta soluzioni innovative e improbabili, l’opera prima contiene diversi elementi che verranno perfezionati nei film successivi, andando a comporre la sua personalissima firma registica: l’uso singolare della soggettiva e il ralenti esasperante, i primissimi piani, il montaggio alternato, la scarsità dei dialoghi, il whodunit (il giallo deduttivo a enigma) e l’interesse per le psicopatologie.
Il punto focale del film però, come in quasi tutte le opere di Dario Argento, non sta in superficie. Il protagonista della pellicola è Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore italo-americano che lavora a Roma, dopo essersi specializzato nello studio degli uccelli rari. Unico testimone di una colluttazione in una galleria d’arte tra una donna e una figura misteriosa in nero, Sam non può più partire per gli Stati Uniti con la sua ragazza, Giulia (Suzy Kendall). Solo lui può identificare quella figura, ma continua a sfuggirgli un particolare risolutivo per il caso. Ed è proprio il tentativo di Dalmas di analizzare i dettagli di ciò che ha visto, il focus del film, per questo la scena della galleria d’arte è soprattutto una lezione di cinema, una profonda analisi della poetica e della teoria dello sguardo.
Per quanto si tenda a legare la figura di Argento a Alfred Hitchcock – in quanto maestro del brivido – è evidente il debito del primo cinema argentiano nei confronti della filmografia di Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo ma anche Sei donne per l’assassino) e di Sergio Leone – soprattutto nella scelta delle musiche di Ennio Morricone. Quello che però rende Dario Argento un grande regista già dal suo esordio è soprattutto il suo essere un vero cinefilo: Argento conosce il cinema ancora prima di farlo, lo capisce profondamente ancora prima di scriverlo e lo ama in modo sincero quando il suo non esiste ancora. Il voto che compie il maestro della suspense è pura devozione alla settima arte, non al denaro non all’amore né al cielo, prendendo in prestito le parole di De Andrè, solo al cinema.