Inizia con una citazione di Zygmunt Bauman Non credo in niente. È stato girato, ma anche scritto e prodotto nel giro di soli 8 mesi, che hanno visto sparpagliate al loro interno anche le 13 notti di set effettive. Il film di Alessandro Marzullo risulta anche da una sorta di assemblaggio espanso di due suoi cortometraggi precedenti, Quando il cielo è scuro e la sua Parte II. Ai protagonisti principali dei corti, Giuseppe Cristiano, Demetra Bellina, Mario Russo, Renata Malinconico e Jun Ichikawa si sono aggiunti Gabriel Montesi e Antonio Orlando per dar vita a uno degli esordi più graffianti e stralunati di questo giovane decennio, in sala dal 28 settembre.
L’opera prima di Marzullo mostra un impatto estetico quasi selvaggio, fatto di pellicola tirata e luce sporca. Scatta un’istantanea smaliziata su una serie di quasi trentenni che attraversano la notte romana. Una notte che sembra infinita perché composta da molte notti temporalmente sconnesse nel montaggio come in un videoclip. Una città deserta illuminata da colori acidi affétta questa coralità di personaggi con in comune solo un imminente cambio di programma nelle loro vite già abbastanza scombussolate di millenials. Il regista ci fa guardare alla sua generazione attraverso un puzzle di anime ampiamente rappresentative. Così al ricatto sguaiato del lavoro nero per una coppia di musicisti lavapiatti si affianca la noia solitaria di una hostess taciturna ma piena di altri talenti e parcheggiata in un hotel. Entriamo poi nelle confidenze sentimentali di un meccanico logorroico all’amico attorucolo che flirta tra letti e amplessi distribuiti come sigarette offerte.
Tutti loro prima o poi passeranno da un paninaro notturno caput Romae che dispensa massime metropolitane come ingredienti di panini improbabili. A Roma le paninoteche notturne su camper e tutti i loro addetti vengono chiamati “zozzoni”. Quasi fosse un concetto filosofico al neon, e addirittura superiore alla distinzione tra luoghi e persone. Le filosofie farneticanti di uno “zozzone” di periferia fanno da fil rouge per le varie storie e i sogni che ognuna disvelerà. Ecco, i sogni stanno appesi al cavo di un microfono, o in un viaggio mai fatto, o tra le speranze riposte in un provino, ma a prescindere vanno a sbattere sull’accogliente furgone di quel paninaro notturno, e scendono giù insieme a una birra.
Con i suoi riferimenti a «Rossellini, Cassavetes e Kar Wai», Non credo in niente è imbevuto di uno stile sincopato, un po’ sconclusionato come la vita romana, e la narrazione non lineare gli dona il fascino notturno e sbandato dei sentimenti che percorre ognuno dei ragazzi, anzi, degli uomini e delle donne in ballo in questa città ingrata. Una Roma che se una volta faceva andare via Remo Remotti, oggi, nel 2023 i suoi giovani se li tiene stretti al seno freddo di asfalto in un’illusione fin troppo lucida e reiterata.
«Ci innamoriamo perché prendiamo le droghe sbagliate», dirà uno dei personaggi. La disillusione la leggiamo già chiaramente nel titolo, Non credo in niente è un piccolo manifesto di una generazione confusa tra speranza e rassegnazione. Una girandola di strade buie percorse da mille contraddizioni che il regista rappresenta efficacemente come nel caso di un freddo bacio a stampo per dirsi addio sovrapposto a immagini di lava che scorre lenta e ineluttabile.
Il cast è trasognato, pulsante, cool, pieno di vitalità e il soundtrack di Riccardo Amorese segna il pastiche ben oltre il semplice commento musicale. Allora la musica di un violino suonato in cucina e una canzone cantata in un locale possono diventare avamposti sul territorio lontano dei sogni in una metropoli che preme e luccica come pinze di acciaio rugginoso. E se il vero problema di questa generazione fosse soltanto ritrovare il sorriso nelle cose semplici?