Si intitola Mondocane, ed è il film d’esordio di Alessandro Celli, regista romano, già vincitore di un David di Donatello per il miglior cortometraggio con un piccolo, indimenticabile capolavoro dal titolo Uova. Era da tempo che si aspettava la sua opera prima; Celli l’ha realizzata grazie Matteo Rovere e alla sua Groenlandia, e la collaborazione creativa e fruttuosa fra regista e produttore ha dato i risultati sperati: il film è stato proposto al pubblico durante la Settimana Internazionale della Critica di Venezia, suscitando entusiasmo anche da parte della critica. Della realizzazione e delle riflessioni su Mondocane abbiamo discusso con Alessandro Celli in una videochiamata fluviale, raggiungendolo a Ischia, dove è impegnato per le riprese di un nuovo progetto, separati solo dai circa trenta chilometri di mare che corrono tra la grande isola e Napoli.
Domanda di rito, per iniziare: parlami della…
Genesi del progetto.
Appunto. Meno male che l’hai detto tu. È un’idea che avevi da tanto tempo?
Avevo nel cassetto l’idea di fare un film che avesse certe caratteristiche che mi rappresentassero al meglio, come idea di cinema, come film con cui esordire dopo il mio percorso professionale. L’idea di base mi è venuta tre anni fa, e in un anno e mezzo l’abbiamo scritto io e Antonio Leotti. Matteo Rovere si è innamorato del progetto e ha subito portato il suo contributo con una visione che era assolutamente compatibile con la mia idea di partenza, che era un racconto di formazione e una storia di amicizia.
Immagino abbiate trovato un terreno comune nella cinefilia, nei riferimenti.
Certo, ho preso spunto da alcuni film che sono importanti per me, penso a La zona di Rodrigo Pla, tanti film brasiliani che rasentano la distopia come Tropa de elite, Bus 174 di José Padilha, e poi ho rivisto tutta la filmografia di Hector Babenco, insomma, influenze che poi ho miscelato in questo concept che mi stava molto a cuore, la mia versione di Oliver Twist, in un certo senso.
Quindi l’apporto di Rovere è stato importante anche in fase di immaginazione del mondo di Mondocane.
Rovere segue tutto, conosce la sceneggiatura pure meglio di me! Mondocane è un film dove il produttore è importantissimo, come succedeva un tempo quando si garantiva su un esordio anomalo e coraggioso.
Questo film ti ha concesso di scrivere senza dover dare troppe spiegazioni: è un mondo che sembra così lontano dal nostro ma in realtà è più futuribile di quanto sembri, ed è governato da leggi che non facciamo così tanta fatica a comprendere o immaginare. Stringi un patto con lo spettatore.
Abbiamo fatto in modo di creare un meccanismo che facesse stare un po’ sull’attenti lo spettatore. Mi ha sorpreso, subito dopo la proiezione a Venezia, la tendenza diffusa da parte di chi ha visto il film di sovrinterpretare: volevano a tutti i costi vedere significati e simboli mentre io volevo che rimanessero sullo sfondo e liberi di essere interpretati. Questo mi dà modo di citare uno dei maestri più importanti che ho avuto, Barry Gifford: da lui ho capito che era importante dare al pubblico anche qualcosa da elaborare, più livelli oltre a quello che è eloquente sullo schermo.
Questo è il tuo primo lungometraggio, è vero, però hai un percorso che ti ha fatto arrivare preparato alle riprese.
Tutto è servito, anche il momento in cui sono stato lontano dal set e ho lavorato allo sviluppo progetti, potremmo dire che sono stato a bottega! Scherzi a parte, questo è il film che ho sempre voluto fare e l’occasione per farlo si è presentata nel momento più inatteso.
E durante la lavorazione ci sono stati momenti di crisi, da parte tua?
È stato un film difficilissimo da fare. Abbiamo girato in piena pandemia, una delle prime produzioni a partire dopo il lockdown. Nei giorni in cui eravamo murati in casa non abbiamo mai smesso di vedere self-tape, per fare in modo di poter girare d’estate. E poi è stato difficile per le ragioni che immagini, con le moto, le armi, tanti attori minorenni, ma Rovere mi ha messo nella condizione di potermi esprimere, e di farlo in maniera audace. Qui non si tratta solo di riuscire a fare un film, ma di fare un film che alla base ha una visione ben precisa, da costruire da zero, dove tutti i reparti sono coinvolti.
Approfondiamo questo aspetto. Come si dialoga con i reparti per concepire un mondo così?
Bisogna mantenere fissi alcuni punti, che provengono dalle reference. Con Andrea Cavalletto, il costumista, c’è stato un grande scambio di film da vedere, di fotografie, abbiamo fatto tanta ricerca, ispirandoci alle baraccopoli di tutto il mondo. Noi ne abbiamo replicata una che è a Buenos Aires, per esempio, ma che non è diversa da qualcosa che abbiamo trovato in Calabria. Quindi, ecco, la povertà era sicuramente un tema di ricerca, volevamo rendere disperato questo mondo. Con Giuseppe Maio, il direttore della fotografia, invece sono stato chiaro sul fatto di non volere un mondo cupo: la palette cromatica che abbiamo scelto doveva celebrare il caldo del sud Italia, un mondo solare, speranzoso nonostante tutto.
Tu sei un regista che ha lavorato spesso, e bene, dirigendo i giovani. Credo che questa tua propensione si noti nei momenti più riusciti del film, che sono proprio le scene con Mondocane, Pisciasotto, Sabrina…
Conosco bene questa età. Durante le riunioni ero convinto che l’età giusta fosse 13, 14 anni, il cambio pelle può accadere in una estate, a qualcuno succede poco prima, a qualcun altro poco dopo, però, ecco, è il momento in cui tu non sei più bambino ma ci sono le prime avvisaglie che tu possa davvero prendere in mano la tua vita e farne qualche cosa.
Dennis Protopapa e Giuliano Soprano, i due protagonisti, sono molto bravi.
Mi hanno convinto subito, appena li ho conosciuti. Sono diversissimi fra loro, hanno un modo diverso di essere spontanei e sono tutti e due molto interessanti davanti alla macchina da presa. Hanno imparato tutto molto velocemente, anche se siamo arrivati sul set dopo un mese di prove. Quindi erano preparati, questo sì, ma io sul set mi diverto a cambiare un po’ le cose. Nonostante questo, tutto il parlato loro, tutte le loro scugnizzate, le loro cose spontanee, le ho montate.
Che apporto ha dato Borghi al film?
A Borghi devo tantissimo, lui è salito bordo e ha cambiato il volto al progetto con idee importanti e non solo sul proprio personaggio. Si è anche molto interessato alla scelta dei ragazzi che avrebbero condiviso il set con lui.
Che regista sei tu? Poche inquadrature ma tanti ciak, oppure scomponi molto la scena?
Quando vado sul set ho chiarissimo il senso della scena, e faccio i compiti, ho la lista delle inquadrature, però voglio sempre essere sorpreso dalla magia del set. Mi dà una soddisfazione incredibile creare una alchimia con gli attori, fare in modo che non vadano a girare solo quello che hanno provato fino alla nausea, e che qualche cosa che abbiamo pensato così possa invece essere girata cosà. Devo essere il primo a sorprendermi, emozionarmi.
Domanda di rito per concludere, come è stata di rito la prima domanda: hai già idee per il prossimo film?
Ne ho diverse, le sto sviluppando. Vorrei fare in modo di poter proporre di nuovo un mio mondo, qualcosa di visionario ma che abbia anche un tema, come è stato per Mondocane.