Fabio Guaglione e Fabio Resinaro si incontrano tra i banchi di scuola nella metà degli anni Novanta, in un liceo scientifico di San Donato Milanese. Vogliono fare il cinema.
È però subito chiaro che non hanno intenzione di seguire il percorso fenotipico del giovane “cinematografaro”: è il 2004, e loro si mettono in testa di girare un cortometraggio di fantascienza spaziale in 35 millimetri, con scenografie ricostruite in studio e un gran numero di effetti digitali. Eppure solo due anni dopo E:D:E:N è pronto, e sbaraglia la concorrenza ai festival di genere di mezzo mondo. Poi un mediometraggio, insieme a SKY. Poi un altro corto, che li porta al Festival di Sitges nel 2008. Lì però, ancora non lo sanno, in ballo c’è molto più che un premio. In giuria c’è il loro Big Fish, nel senso proprio di un pesce grosso: un producer della 20th Century Fox. E così arriva la telefonata. Fabio e Fabio volano in America, i produttori vogliono fare un film proprio dal loro cortometraggio. È presto chiaro però che la major vuole snaturare il progetto, e i nostri si trovano di fronte al dilemma: Hollywood o le proprie idee?
Tornano in Italia, back to square one. Realizzano faticosamente un lungometraggio nel 2012, True Love, che in Italia non riesce a uscire nelle sale, e poi hanno l’idea di Mine.
Mine racconta la storia di un soldato americano che si trova solo, in territorio straniero, con il piede sopra una mina. Pensando alla vostra carriera, quanto c’è di autobiografico?
F.G. [ride] Beh, il film parla dell’importanza di non perdere la determinazione e andare avanti, soprattutto quando sembra che non ci sia nessuna direzione in cui sia meglio andare. Molto, direi!
F.R. C’è sempre tanto di autobiografico nei nostri film, anche perché cerchiamo di prendere una situazione che può essere tipica, e guardarla da un punto di vista diverso e personale.
Questo punto di vista personale si sente nel film, anche se vedendolo in anteprima ho avuto più volte l’impressione di trovarmi di fronte a un’opera più mainstream che indipendente, un film “americano”. Voi come lo definireste?
F.R. Per noi è assolutamente un film indipendente, a partire dal budget. Senza dare numeri, il film è costato la metà di quanto costa una tipica commedia italiana! Per raggiungere quello standard qualitativo ci siamo occupati di tutto, dalla scrittura agli effetti visivi. Il nostro approccio è quello dei filmmaker, non abbiamo fatto scuole, ci siamo buttati subito imparando sul campo nei quindici anni di esperienza insieme.
F.G. Siamo cresciuti in Italia, ma le nostre influenze culturali vengono dal cinema americano e dalla cultura asiatica. Personalmente credo che il nostro, così come Jeeg Robot, faccia parte di una volontà di rinascita e realizzazione di prodotti competitivi a livello internazionale. Poi che il film si faccia a Hollywood o a San Donato Milanese non ci interessa.
Però a differenza del film di Mainetti, Mine è girato all’estero, in inglese, e con un cast di rilievo tutto americano.
F.G. Ci sono storie che hanno bisogno di un certo registro: per quanto mi riguarda, se sto vedendo un film di sci-fi ambientato su un’astronave e il personaggio parla italiano mi sento “espulso” dal film immediatamente. È una questione culturale. Jeeg Robot ha fatto un lavoro splendido, e diverso.
E quindi per quale mercato è Mine?
F.R. Pensa soltanto che il film uscirà prima in Italia, e solamente nel 2017 nel resto del mondo. Bisogna iniziare a ragionare in maniera diversa, solo non siamo abituati.
F.G. Come spesso si sente purtroppo quando si parla di questi nuovi progetti fuori dagli schemi, anche noi abbiamo avuto problemi a trovare un produttore in Italia. Ma perché fermarsi al nostro paese? Siamo andati all’estero perché là c’erano i soldi per fare il film, Peter Safran [il produttore] aveva già realizzato Buried – Sepolto vivo, sapevamo che poteva capire la nostra storia. Lui si è fidato a mandare due esordienti su un’isola in Spagna, con un attore americano, Armie Hammer, che veniva dall’esperienza di The Social Network di David Fincher. Qui non sarebbe successo.
A proposito di fiducia, quanta libertà avete avuto, e come ve la siete guadagnata?
F.R. Abbiamo convinto il produttore con le nostre idee, per esempio la sceneggiatura era lunga 94 pagine, meno dello standard americano, eppure avevamo già tutto il film in testa, e sapevamo che alla fine non sarebbe stato corto, anche perché si tratta di un plot difficile, poteva anche annoiare. Se non stanca è stato anche merito di Armie Hammer, che ha retto con il suo magnetismo un film che lo vedeva per gran parte del tempo bloccato su una mina nel deserto. Sul set certe volte rimanevamo incantati mentre lui a fine take improvvisava anche solo con un gesto, che però era sempre perfetto.
F.G. E poi alle volte per superare alcuni ostacoli basta farsi furbi. Per esempio nel film si parla della Manovra Shuman, un modo disperato per sfuggire all’esplosione di una mina. Avevamo un consulente ex-marine sul set e pensavamo che avrebbe scoperto che l’avevamo inventata, così siamo andati prima da lui e gli abbiamo detto “la conosci la Manovra Shuman, giusto?”, e lui “Sì, certo”.
F.R. Lo abbiamo spiazzato.
Ci ho creduto anche io! Anche per il suo valore simbolico all’interno del film. E devo dire che il vostro è un film carico di simbologie.
F.G. È la nostra cifra. Ci piace costruire rimandi e ci fa piacere che anche gli spettatori se ne accorgano. Mine parla di un soldato su una mina, ma anche di tutte quelle situazioni in cui ci siamo trovati bloccati, e abbiamo dovuto confrontare le nostre paure. Parla a tutti.
E adesso la domanda classica. Dopo Mine?
F.G. In America ci rappresenta un’agenzia, lì funziona che ti mandano i copioni senza il regista e tu scegli, ma non è sempre facile lavorare su un copione di altri… Abbiamo le nostre idee.
F.R. Intanto aspettiamo che esca! Mine ci ha rubato la vita dal 2012 più o meno. Abbiamo delle idee, ma prima vogliamo vedere il nostro esordio al cinema.