Michelangelo Antonioni è l’autore di riferimento del cinema moderno, fin dall’esordio con Cronaca di un amore (1950 – restaurato nel 2004), la pellicola che ha segnato la fine del neorealismo. L’opera prima di Antonioni e tra i primi film ad affrontare i moderni temi dell’incomunicabilità, dell’alienazione e del disagio esistenziale.
Come Dario Argento (qui la sua opera prima), anche Antonioni inizia la sua carriera con la critica cinematografica, frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia e nel 1942 collabora con Roberto Rossellini e scrive con Luchino Visconti (qui la sua opera prima), dopo una parentesi come aiuto regista di Marcel Carné in Francia. Il regista ferrarese si trova ad essere testimone del passaggio da un’epoca a un’altra e il suo cinema ne è un riflesso, Cronaca di un amore è un’opera molto personale, un noir con un solido intreccio: la storia di un adulterio ambientata nel mondo corrotto dell’alta borghesia industriale lombarda.
La prima inquadratura prende forma in una serie di foto amatoriali fatte a una giovane donna, delle istantanee rubate. La bellissima e povera Paola Molon (Lucia Bosé) è la moglie di Enrico Fontana (Ferdinando Sarmi). Il ricco imprenditore incarica il detective Carloni (Gino Rossi) di indagare sul passato della moglie, poiché è ricomparso Guido (Massimo Girotti), l’ex amante di Paola. La relazione riprende e i due decidono di liberarsi del marito di lei, ma i preparativi si rivelano inutili perché l’uomo muore in un incidente e, proprio quando non ci sarebbero più ostacoli, Guido se ne va preso dal rimorso.
Michelangelo Antonioni ha avuto per maestri i suoi occhi, viene spesso definito regista borghese e autore della crisi, ma è soprattutto il maestro dell’incomunicabilità. La sua critica sociale si annida nei conflitti tra i personaggi, attraverso i loro comportamenti descrive l’aridità dell’ambiente nella quale si muovono: quello dei ricchi, della gente che ha il tempo per coltivare il superfluo perché ha già tutto il resto e non deve lottare per sopravvivere. L’alta borghesia difettata e paranoica, profondamente infelice, che ha tutto e non ha niente.
In mezzo alla superficialità fatta di capricci, pellicce e Maserati in regalo, Antonioni crea uno squarcio dentro questi ricchi annoiati e ci permette di sbirciarne l’interiorità e soprattutto i vuoti. Scopre i suoi personaggi e li lascia nudi, deboli ed esposti, creando con lo spettatore un’intimità sfacciata e paralizzante. L’incomunicabilità invece è perfettamente espressa nei campi lunghi, dalla freddezza formale delle inquadrature; lunghi piani sequenza dilatano la narrazione insieme ai tempi morti contemplativi. Memorabile il dialogo tra i due amanti sul ponte, mentre stanno progettando l’omicidio del marito di lei: sia gli attori sia la macchina da presa si muovono con movimenti circolari che li riportano al punto di partenza, e ne simboleggiano la staticità sentimentale.
Un film senza mutamento, freddo, su relazioni fredde tra persone gelide e la freddezza è il cuore dell’opera, anche se, come dice Andrey Tarkovskij «Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i suoi grandi film non solo non invecchiano ma col tempo si riscaldano». Insieme all’ineluttabile solitudine umana, in questo intreccio di storie e relazioni che sono i film di Michelangelo Antonioni, l’unica certezza è che l’amore non c’è. La vita la decide il destino e il contrario della solitudine non è la compagnia, ma l’intimità, vedere attraverso le cose e non distogliere lo sguardo.