Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, Mauro Mancini scrive e dirige nel 2005 il corto Il nostro segreto, che segna l’inizio di numerosi successi internazionali. Esordisce nel lungometraggio con Non odiare, unico film italiano in concorso alla 35esima Settimana Internazionale della Critica, acclamato dal pubblico. È un’opera prima che ha uno sguardo rivolto verso le contraddizioni che si celano in ognuno di noi, raccontate dal regista sullo sfondo di una società dove serpeggiano profonde spaccature culturali.
Dopo la presentazione del tuo film a Venezia, quali sono le tue sensazioni?
Ho avuto la fortuna di ricevere un’accoglienza molto calorosa alla prima, addirittura cinque minuti di applausi in sala. È stato un qualcosa di inaspettato che è andato al di là di ogni possibile previsione. Del resto questa Mostra ha segnato un punto di rinascita e mi ha dato la sensazione che si può tornare in sala con pochi ma necessari accorgimenti. Ho preso davvero coscienza di aver realizzato Non odiare solo vedendolo insieme a tantissime altre persone: fare cinema è un atto di fiducia reciproca perché i film si fanno insieme.
Da dove nasce la necessità di raccontare una storia che invita alla comprensione dell’altro?
Nasce da un trafiletto che avevamo letto su un quotidiano io e lo sceneggiatore Davide Lisino. Un medico ebreo aveva rifiutato di compiere un’operazione di routine su un paziente con un tatuaggio nazista, dichiarando che l’intervento sarebbe andato contro la sua coscienza; il paziente venne operato da un altro medico. Il nostro protagonista Simone Segre, interpretato da Alessandro Gassmann, sta per salvare un uomo vittima di un incidente stradale al quale assiste, ma quando scopre la svastica tatuata sul corpo della vittima tradisce il giuramento di Ippocrate, lasciandolo al suo tragico destino. L’intolleranza è uno dei mali della nostra società e nel film siamo partiti da un odio ben specifico per poi concentrarci su un’intolleranza più ampia, intesa in senso lato. Non bisogna essere indifferenti, ma pensare con la propria testa e aprirsi al dialogo mettendosi in ascolto. Mi piacerebbe che questo film venisse proiettato nelle scuole e che lo vedessero anche i ragazzi, la generazione che ha in mano il futuro.
La storia è ambientata a Trieste, città multietnica, ma l’intolleranza si diffonde in tutto il territorio italiano, perché l’Italia non ha un’identità culturale davvero comune. Il cinema può contribuire a diminuire queste distanze culturali?
La cultura in generale ha il compito di diminuire queste distanze, suggerendo delle domande a chi guarda o legge, per indurlo a una riflessione, lasciando che sia poi lui a trarre le conclusioni. Erigere muri è semplice, abbatterli è molto più complicato.
Qual è il punto di vista della storia?
Cercare di non giudicare i personaggi è stato molto difficile, perché il pregiudizio interviene inevitabilmente quando scrivi. Il mio non è un film privo di punto di vista, ma con la macchina da presa ho scelto di stare un po’ più distante del solito perché nella vita a volte guardi delle cose che accadono e non puoi farci niente. Guardarci dall’esterno ci aiuta a comprenderci meglio e aiuta anche gli altri.
Il ritmo della comunicazione è scandito da silenzi e pause che mettono in risalto l’espressività degli attori, lasciando che il dialogo avvenga quasi senza usare le parole.
Non odiare è molto asciutto nella regia, nella messa in scena e nei dialoghi perché volevo il più possibile evitare che si generassero degli equivoci e le parole spesso portano a degli equivoci. Uno sguardo invece può essere più sincero delle parole. Sapevo di avere due attori pazzeschi, con cui potevo lavorare sui silenzi e sui non detti.
Cosa rappresenta l’attrazione che nasce tra Marica (interpretata da Sara Serraiocco) e Simone?
È l’attrazione per un mondo che non conosci, ma che ti affascina, con il quale non puoi convivere in quel momento, anche se probabilmente vorresti. Il loro è quasi un abbraccio carnale tra persone che si cercano. È voglia di accudire l’altro.
Simone e Marcello, il fratello neonazista di Marica, hanno entrambi ereditato dai rispettivi padri un determinato retaggio culturale che li accomuna e li divide allo stesso tempo. È come se si guardassero allo specchio senza riconoscere il proprio riflesso.
Quando Simone si prova il cappotto del padre, non l’ho volutamente ripreso attraverso lo specchio perché volevo che stesse da solo con lo specchio e noi non vedessimo ciò che vedeva lui. Simone e Marcello si guardano allo specchio, ma è come se non si vedessero: nella scena che ho citato ho cercato proprio di restituire questo effetto. In altri momenti invece sono inquadrati mentre si specchiano, anche per dare l’idea che siamo più di un pensiero solo e che possiamo imparare a diventare più di quello che siamo già.