Si apre con una scena di gioco, l’opera prima di Gianluca Mangiasciutti L’uomo sulla strada. Il gioco tipico dell’infanzia e dell’ingenuità che precede ogni male. Una bambina corre nel bosco insieme a suo padre: i due si nascondono, si cercano e poi si ritrovano. Ma non stavolta. L’età dell’innocenza, infatti, si macchia improvvisamente di un evento tragico: quando Irene vede suo padre morire vittima di un pirata della strada, capiamo che il vero gioco continuerà nella vita adulta, sotto forma di un perverso nascondino. La caccia all’uomo è aperta, e da questo momento ogni azione sarà irreversibile.
Unica testimone dell’omicidio, Irene cresce e diventa una giovane donna (interpretata da Aurora Giovinazzo) con un obiettivo morboso: ottenere giustizia, come suggerisce la sinossi del film. In realtà scopriremo d’essere a tutti gli effetti nel terreno della vendetta personale, dove il bisogno di pareggiare i conti diventa un’ossessione. Poiché nel film il destino si diverte a sbeffeggiare le sue stesse vittime, senza sospettarlo la ragazza verrà assunta proprio nella fabbrica dell’uomo che avrebbe ucciso suo padre (un Lorenzo Richelmy cupissimo, in giacca e cravatta).
Non solo le colpe dei padri, ma qualsiasi storia familiare a un certo punto ricade sui figli: questo sembra volerci dire Gianluca Mangiasciutti con il suo esordio al lungometraggio (presentato in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Panorama Italia di Alice nella città). Lo fa affidandosi ad una sorta di coming of age strutturato sulle insolite premesse del thriller. Ma lo fa anche scegliendo – non a caso – un’attrice come Aurora Giovinazzo per dar corpo a una protagonista tormentata, semplice nella caratterizzazione ma magnetica sullo schermo. Perché in questo caso tifare per lei, nel bene e nel male, dev’essere anche una questione di chimica tra spettatore e messa in scena.
La rabbia di Irene trova una sua dimensione nell’interpretazione ancora rude e viscerale di Giovinazzo, più matura rispetto agli inizi già promettenti di Freaks Out, e senz’altro libera da molti tic del mestiere. Proprio per questo, però, si tratta di una spontaneità tecnicamente difficile da domare, e di fronte ad alcune scene viene da chiedersi se gli alti e bassi di Irene-Aurora siano funzionali a un personaggio ‘sopra le righe’ o avrebbero potuto essere diretti con più minuzia.
Mentre nella sceneggiatura va riconosciuto, purtroppo, l’aspetto più dolente del film (a causa di personaggi collaterali che rimangono bloccati nell’etichetta dello stereotipo, e di un ritmo sempre troppo teso, che non riesce a valorizzare i momenti di vera suspense), è interessante notare l’uso che Mangiasciutti fa della composizione visiva e della fotografia (di Luca Ciuti), eleggendole a veri e propri strumenti narrativi. Rispettando la cara vecchia scuola del genere thriller (e quindi optando per chiaroscuri ‘premonitori’ e palette eleganti, senza cedere alla tentazione del prototipo estetico Netflix), i tagli di luce dedicano un’attenzione particolare al personaggio di Lorenzo Richelmy, e il posizionamento dei personaggi nell’inquadratura non è mai casuale. È così che il regista riesce a suggerirne l’ambiguità, partendo dall’immagine per creare un distacco tra buoni e cattivi. O meglio: tra chi caccia e chi viene cacciato.
Convinti che nelle opere prime conti più il potenziale espresso che il fattore mancante, allora L’uomo sulla strada ci mostra il gusto di un regista affezionato alla narrazione classica, alla tradizione di un cinema di genere che difende il decoro estetico dall’omologazione mainstream. E, soprattutto, che dà valore al ruolo dell’essere umano nella scelta delle storie da raccontare, ai legami familiari, alla crescita degli eroi e anche a quella degli antieroi. Tanto sullo schermo quanto sul set, poiché le riprese del film sono state discrete e preservate dai social media. «Fare un film non è una vetrina né tanto meno significa farsi pubblicità» scriveva Mangiasciutti qualche mese fa. «Ho preferito rimanere isolato e concentrarmi su una cosa che aspettavo da anni». E a noi questa dimensione intima di un cinema fatto senza aspettative, guidato dalla passione e dal bisogno di indagare le emozioni, piace.