Curiosamente i due film che rappresentano l’Italia alla 73a Berlinale hanno al loro centro il sovrannaturale e il mistero, intesi in modo molto personale. Se in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese c’è uno scambio fra anime che sovverte le regole del mondo fisico, Le proprietà dei metalli, primo lungometraggio di Antonio Bigini (passato nella sezione Berlinale Generation – K plus e prodotto da Kiné con Rai Cinema), racconta di un bambino che ha il dono di piegare oggetti di metallo.
Siamo negli anni Settanta: in un paesino montuoso dell’Italia centrale un giorno arriva David, professore universitario di origine americana, per indagare scientificamente le capacità fenomenali del piccolo Pietro che piega, non si sa come, utensili di metallo durissimo. Il bambino, orfano di madre, vive con il padre, un contadino duro e affogato dai debiti, il fratello minore e la nonna. La possibilità di vincere il ricco premio messo in palio “dagli americani” per chi riesce a dimostrare la fondatezza di un fenomeno paranormale innesca in Pietro e nella famiglia una tensione che si risolverà in un non facile ritorno alla vita rurale.
La storia di Le proprietà dei metalli è ispirata ai minigeller, i bambini di cui all’epoca si diceva fossero in grado di piegare i metalli più resistenti, su imitazione del “mago” tedesco Uri Geller e delle sue esibizioni televisive. Alcuni di loro furono in effetti oggetto di studi scientifici da parte di ricercatori, ma alla fine nessuno fu capace di riprodurre il fenomeno in condizioni sperimentali.
Ma tutto questo nel film di Bigini rimane sullo sfondo: non c’è alcun intento di riprodurre un episodio storico dettagliato né di portare sullo schermo degli anni Settanta oleografici. Il cuore del film è tutto nelle parole del professore, che nonostante l’iniziale obiettivo scientifico, riesce a entrare emotivamente in contatto con Pietro, a capire le sue ansie, avvertire la mancanza di affetto di cui soffre da parte dell’unico genitore rimastogli. E se all’inizio sprona il bambino spiegandogli che il dono che possiede è in grado di «cambiare il mondo», facendo capire a tutti che c’è qualcosa oltre le leggi fisiche note, alla fine, disilluso, conclude che quel mondo ignoto, se esiste, vuole restare tale e sottrarsi a qualsiasi verifica.
Il mondo raccontato ne Le proprietà dei metalli è quello remoto di un’Italia contadina, percorso da un “paganesimo rurale”, come lo definisce lo stesso Bigini, in cui l’elemento del mistero e della magia aveva ancora un posto nella vita di uomini abituati a vivere a contatto con la terra e gli animali. Elemento che oggi abbiamo perduto e di cui invece abbiamo un necessità profonda, che il cinema di genere, pare dire il regista, non basta a riempire.
Un mondo povero, fatto di oggetti semplici e di uso quotidiano – Pietro piega chiavi, cucchiai e coltelli – così come essenziale è lo stile del film stesso, per venire incontro, questa la coraggiosa scommessa di Bigini, al bisogno di pulizia e linearità che oggi c’è nel pubblico, saturo di prodotti calligrafici e virtuosistici.