Ha appena trionfato ai David di Donatello come Opera prima: La ragazza del mondo di Marco Danieli (che, ricordiamo, a dicembre aveva già vinto il Premio Fabrique 2016) racconta la storia di Giulia, una diciannovenne Testimone di Geova soffocata dalle restrizioni impostele dal mondo di provenienza, la cui vita inizia a cambiare quando si innamora di un trentenne appena uscito di galera che non fa parte della sua comunità.
Rispetto a tanti suoi colleghi Marco Danieli ha esordito tardi nel lungometraggio, all’età di 40 anni. Al Centro Sperimentale, dove si è formato e attualmente svolge l’attività di docente tutor nel corso di regia curato da Luchetti, è giunto solo ventisettenne («per diverso tempo non ci ho nemmeno provato, convinto che fosse troppo difficile entrare») e in passato, oltre a girare alcuni cortometraggi e documentari brevi, ha lavorato per una TV satellitare. Questi anni gli sono serviti per maturare una padronanza del mezzo filmico che l’ha portato a realizzare un’ottima opera prima, caratterizzata da una regia rigorosa e un approccio al contempo intimo e privo di retorica.
Cosa ti ha spinto a raccontare la particolare esperienza di una giovane Testimone di Geova?
Con il co-sceneggiatore Antonio Manca eravamo da tempo concentrati su un’altra storia e avevamo già un produttore, quando un’amica comune ci ha raccontato questo vissuto personale che ci ha folgorato. Abbiamo così deciso di spostarci su questa nuova storia, convinti che dovessimo darle la precedenza. All’inizio c’è stata una fascinazione quasi antropologica, perché sapevamo poco dei Testimoni di Geova ed era un po’ come se avessimo scoperto un mondo. A interessarci era però soprattutto lo specifico della vicenda di questa ragazza, che poi è l’aspetto che credo possa rendere il film più universale. La ragazza del mondo, infatti, è in fondo una sorta di romanzo di formazione di una ragazza alla ricerca della propria identità, che vive forti conflitti in un contesto molto rigido.
La ragazza del mondo si concentra molto sulla storia d’amore tra i due protagonisti, ottimamente interpretati da Sara Serraiocco e Michele Riondino.
Fin da quando tre anni fa ho realizzato un promo di 10 minuti, in cui ho girato le scene più importanti di quello che poi sarebbe stato il film, ho capito che la protagonista doveva essere interpreta da Sara. Mi sono talmente legato a questa sua idea di interpretazione del personaggio che non ho mai aperto un casting per il ruolo di Giulia. Oltre a essere molto espressiva, ha un naturalismo fortissimo e, nonostante abbia una sua tecnica di recitazione, quando è in scena sembra quasi una non attrice. Per me lei è davvero un’interprete cinematografica nata. Per quanto riguarda Michele, ho pensato immediatamente a lui non appena abbiamo deciso di alzare l’età del personaggio di Libero, che originariamente avevamo immaginato più giovane. Michele ha una formazione teatrale e tuttora alterna al cinema teatro e fiction: è un attore trasversale, preparato, scrupoloso e che compie un lavoro sul personaggio simile a quello di molti interpreti americani.
La sceneggiatura che hai scritto con il tuo abituale collaboratore è solida e priva di sbavature.
Tra me e Antonio c’è un feeling particolare. Ci siamo conosciuti sui banchi del Centro Sperimentale e da quel momento abbiamo fatto tanto insieme. In qualche modo ci completiamo a vicenda: lui ha una notevole cultura umanistica mentre io sono più tecnico. L’ambizione era proprio di dare vita a una sceneggiatura solida. Volevo in tutti i modi evitare di accorgermi sul set che c’era un passaggio che non funzionava a dovere e abbiamo lavorato parecchio in questa direzione. Diciamo che, avendoci messo più di qualche anno a trovare i finanziamenti per il film, abbiamo avuto parecchio tempo da dedicare alla scrittura. A ogni modo, sentivo che era fondamentale avere come base una sceneggiatura forte, matura e con un certo ritmo. Anche perché poi sul set, come regista, avevo il desiderio di lasciare spazio all’improvvisazione e aprirmi alle possibilità che possono riservare le intuizioni del momento. Non volevo in alcun modo perdere la capacità di emozionarmi e di capire la scena nei momenti in cui mi trovavo per la prima volta sul set.
A proposito delle difficoltà nel reperire i finanziamenti, cos’è che più di tutto ti ha aiutato a realizzare il film e quali consigli daresti a dei giovani registi che tentano di esordire?
Per trovare i soldi necessari c’è voluto davvero molto tempo e alla fine il promo a cui accennavo prima è stato fondamentale per reperire i fondi e convincere produttori e attori ad accettare di prendere parte al progetto. Il mio consiglio è quello di lavorare su una storia che sentono fortemente. Credo che non sia utile chiedersi cosa vada di moda al cinema, ma piuttosto cercare un tema che ti emoziona e che ti coinvolge, perché poi probabilmente ci dovrai lavorare per anni e a quel punto, se non hai un legame molto forte con quanto vuoi raccontare, c’è il rischio che nel frattempo te ne disamori. Sono riuscito a portare a termine il film anche perché questa vicenda mi aveva molto colpito, toccandomi delle corde profonde di cui probabilmente ancora oggi non sono fino in fondo consapevole.
Recentemente hai scritto insieme a Manca e ad Antonella Lattanzi 2Night di Ivan Silvestrini. In futuro pensi di dedicarti ancora a sceneggiature di film di cui non curerai la regia?
Attualmente mi sto concentrando sulla mia opera seconda e sono in fase di scrittura. Con 2Night è stata la prima volta che scrivevo un film per altri e devo dire che lo rifarei volentieri. Mi piacerebbe anche girare un film di cui non ho scritto soggetto o sceneggiatura. Secondo me è importante avere una certa elasticità che possa portarti a fare una volta lo sceneggiatore per un altro regista e magari la volta dopo il regista di un script non tuo. Non penso che questo tolga qualcosa alla vocazione autoriale di un cineasta. Come ci insegnano tanti importanti registi americani, se hai un tuo punto di vista e una tua personalità, alla fine questi emergono anche se non hai scritto il film.