Quella accalcata attorno al polveroso rettangolo di terra cuore pulsante de La partita è una rapace umanità che “non ha mai vinto un cazzo”. Un prisma dai mille volti e dagli occhi arrossati da alcolismo e sogni infranti che all’interno di quel campo dissestato proietta la migliore estensione di sé, quella che qualche desiderio ancora riesce a immaginarselo davanti.
Con il suo esordio al lungometraggio Francesco Carnesecchi firma un’opera prima che cattura l’aspro sapore della frontiera, in un racconto non privo di picchi umorali e a tratti acidi e grotteschi. Sembra di muoversi dalle parti di un western moderno, camminando nella terra di confine di una periferia distante mille miglia dal cuore di una Roma indifferente. La cupola di San Pietro rimane lì, sullo sfondo al tramonto, bella da ammirare ma aliena.
D’altronde nei novanta metri del campo non c’è Dio che tenga se non quello del pallone, della coppa che non conta nulla ma della partita che conta tutto, da portare a casa a forza di tacchetti che colpiscono i polpacci e gonfiano le caviglie. Si rivela perfettamente adeguato il taglio grezzo di Carnesecchi nel lasciare fuori fuoco questi uomini e donne sbavati dalla vita e divenuti avvoltoi, che all’interno della storia intrecciata e sovrapposta de La partita tentano una rivalsa, una svolta.
Così se da una parte c’è l’allenatore da decenni della stessa squadra mai vincente ma sempre fedele ad un ideale (Francesco Pannofino), dall’altra un presidente disinnamorato e indebitato fino al collo per rimediare a peccati non suoi (Alberto Di Stasio). E ancora un padre (Paolo Sabbatucci) che tenta di plagiare un figlio che sta diventando grande ed è pronto ad impattare con la realtà, Antonio (Gabriele Fiore), la giovane star locale che porta il numero 10 sulle spalle e un peso sulla coscienza che gli ha succhiato via tutto il talento.
A vorticare in una danza dalla crescente tensione non ci sono cowboy o sceriffi dal grilletto facile, ma questa periferia è comunque una terra tremendamente ostile. La partita cattura l’immaginario dei lavori di confine di Taylor Sheridan e lo declina sapientemente in un microcosmo infinitamente più insignificante, che alle ampie distese del Texas contrappone alti e grigi palazzi.
Tutto finisce per convergere verso un finale agrodolce, confezionato in modo così genuino e spontaneo da rendere struggente quella vena di malinconia che irrompe nella consapevolezza di un attimo che oramai è già passato.