Conosco Giovanni Dota dal 2016, quando cominciammo a frequentare il corso propedeutico del Centro Sperimentale, classe di regia. Sedevamo agli antipodi della sala cinema della scuola, dove si tenevano le lezioni plenarie di Gianfranco Pannone, Flavio De Bernardinis, Francesco Munzi e tanti altri. E ora siamo qui, con Koza Nostra, il suo primo film, che esce giovedì 19 maggio, coprodotto da Pepito e dall’ucraina Film UA. Nella conversazione che abbiamo avuto per Fabrique siamo partiti dal ricordo più nitido che ho di lui durante le riprese, cioè quello di un regista incredibilmente maturo, che su un set così grande, con così tanti attori e così tanta responsabilità, non ha mai avuto un cedimento, non ha mai dato l’impressione di non sapere cosa fare, di sentirsi smarrito.
A me non sei mai sembrato un regista all’opera prima, hai fin dal primo giorno dimostrato una consapevolezza fuori dal comune. Ora mi devi dire una cosa: questa tua sicurezza era solo un’immagine esteriore, che nascondeva sotto la superficie dubbi, incertezze, forse addirittura crisi, o eri tranquillo veramente?
Io sono in genere molto nervoso, ma con questo ormai ci convivo. Sul set, invece, era necessario essere lucidi e quindi abbiamo pensato che bisognava comunicare sia al cast che alla troupe il massimo della calma e sicurezza. Volevo cercare di essere un buon capitano, passami il termine. Però col tempo mi sono sciolto, finché non ho capito davvero di avere la situazione sotto controllo.
Parliamo di cinema, ora. Sia la commedia che il gangster sono dei generi che hanno una grammatica consolidata e tu hai deciso di fonderli insieme: hai dovuto gestire i tempi della commedia e poi nella scena successiva – o qualche volta anche nella stessa scena – la scomposizione spaziale delle sequenze di azione. Quanto ti preparavi prima di una giornata di riprese?
Per fortuna non ho dovuto affrontare questo problema sul set, giorno dopo giorno, scena dopo scena, ma è un discorso che sta a monte. Avendo scritto il film, insieme a Giulia Magda Martinez e Matteo Visconti, e avendo avuto molto tempo per poterci pensare, posso dire che il film era già definito in partenza, su carta. Detto questo, la preparazione sui generi è stata anche spontanea, il risultato del mio percorso con i corti che ho girato in passato, come Fino alla fine. L’intenzione era dare dignità al contenitore gangster, ma seminare nelle scene sempre qualcosa di comico e dissonante: un personaggio, una battuta, un elemento che facesse vacillare la dignità del genere più serio.
Questo discorso sulla spontaneità ci porta alla domanda successiva: se ti conosco almeno un po’, so che questo film è stato un’occasione golosa per mettere in campo anche le tue passioni cinematografiche. Gli eventuali riferimenti ai registi e ai film che ami li hai fatti di proposito, consciamente, o anche quelli stanno in una zona inconscia del cinefilo?
No, durante le riprese non mi è capitato di voler citare di proposito qualche regista o qualche film, ma riconosco che anche questo sia da annoverare nelle mie fonti: sono il regista che sono perché ho visto i film che ho visto. Quindi quello che viene fuori è sempre in qualche modo un compromesso fra ciò che è necessario per raccontare bene la tua storia e il ricordo di chi lo ha già fatto.
Questo è un film che parte da una scrittura che è già molto forte, però credo che un elemento fondamentale per il buon esito sia stato l’affiatamento, la coesione del cast. Entriamo nel tuo laboratorio: ci racconti come hai diretto i tuoi attori? Considerando che avevi una sceneggiatura di ferro, hai dato loro libertà oppure hai dovuto tenerli a freno?
Avevamo attori di diverse esperienze e di diverse scuole. Con Irma Vitovska, che interpreta Vlada, la protagonista del film, avevo l’esigenza che parlasse bene l’italiano. Durante le riprese è stata sorprendente, perché ha capito perfettamente il personaggio, ha una straordinaria preparazione e quindi per lei è stato facile dare la giusta intenzione alle battute in italiano, anche se non conosceva bene la lingua. La sua forza è l’ascolto: anche se in qualche momento poteva non avere chiare le battute in italiano, riusciva comunque a riprodurle molto bene, e quando non ci riusciva noi abbiamo addirittura accolto alcune sue invenzioni, tipo “mamma moia” invece di “mamma mia”, ci faceva ridere di più. Giovanni Calcagno è un attore maturo, con grandi esperienze teatrali, e con lui è stato tutto definito già al provino, quando è stato scelto per il personaggio di Fredo: sul set abbiamo solo dovuto aggiustare qualche dettaglio. Per quanto riguarda i ragazzi, invece, è successa una cosa interessante: somigliano molto ai loro personaggi, sono stati scelti anche perché tra loro c’erano più o meno le stesse relazioni. Lorenzo Scalzo, che interpreta Luca, il nostro alfiere dal punto di vista della comicità, aveva delle battute che funzionavano già in scrittura e lui le ha restituite con fedeltà. L’unica difficoltà che abbiamo avuto è che Lorenzo a volte cercava di rendere Luca un po’ più intelligente del necessario, ma questo purtroppo non faceva bene al film e lui è stato bravo a fare un passo indietro e a fidarsi di noi. Giuditta Vasile e Gabriele Cicirello, infine, hanno completato i personaggi con le loro caratteristiche, qualcosa del loro carattere è confluito nel film.
Questa è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato per intero sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma, disponibile solo per gli abbonati: per abbonarti vai sulla pagina Fabrique du Cinéma/Abbonamenti